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Sabato 12 luglio 2014
Ore 2.40
L’agente di polizia era seduto alla solita poltrona scomoda accanto alla finestra, nell’enorme ma poco invitante salotto. Stava leggendo alla luce di una lampada da tavolo dall’aria costosa, posizionata in equilibrio precario sul davanzale, e ignorava la televisione con il volume azzerato. L’aveva accesa soltanto per farsi un po’ compagnia mentre trascorreva un’altra notte solitaria in quella casa sconosciuta.
Gli altri agenti della sua unità erano stati incredibilmente gelosi quando avevano appreso del suo coinvolgimento nel caso Ragdoll. Erano ancora a un punto della loro carriera in cui tenevano il conto dei morti che avevano visto, e «Welshie» era il loro eroe, essendo l’unico che aveva fritto al taser qualcuno.
Dean aveva reagito con indifferenza all’incarico, ma dentro di sé era orgoglioso. L’aveva detto alla sua famiglia, ovviamente, sapendo che la notizia si sarebbe diffusa come un virus, esagerando l’importanza del suo ruolo e inventandosi una carica che nemmeno esisteva, né si ricordava. Quello che non si era aspettato era stato trascorrere due settimane solitarie a sorvegliare una ragazzina il cui unico problema era avere lo stesso nome del vero obiettivo del killer.
La famiglia Lochlan l’aveva praticamente ignorato, avevano cercato di continuare la loro vita nonostante quell’impedimento. Avevano tollerato la sua presenza nella loro casa e naturalmente erano tesi. Rifiutavano di lasciare che la piccola Ashley andasse da sola da qualsiasi parte, perfino in bagno, anche se sapevano, come lo sapeva lui, che la loro figlia di nove anni non aveva alcun collegamento con quel serial killer o con chiunque altro coinvolto nel caso. Ma per lo meno lui non era l’unico. Probabilmente c’erano decine di Ashley Lochlan in tutto il Paese costrette con riluttanza a condividere la casa con poliziotti altrettanto riluttanti.
Dean fu distratto dal suo libro quando udì un forte scricchiolio al piano di sopra, seguito da un rumore simile al ronzio di un ventilatore. Ritornò a guardare la pagina, ma aveva perso il punto. Negli ultimi quindici giorni aveva imparato a riconoscere tutte le peculiarità di quella vecchia magione. Quel suono in particolare era il riscaldamento che partiva automaticamente quando, nel cuore della notte, la temperatura scendeva sotto un certo livello.
Sbadigliò sonoramente e controllò l’orologio. I turni di notte erano sempre i più difficili. Anche se si era abituato al ritmo e riusciva a dormire sette ore durante il giorno, iniziava a sentirsi stanco e le sei del mattino erano ancora lontane.
Si tolse gli occhiali e si strofinò gli occhi irritati. Quando li riaprì, trovò la stanza molto più illuminata; ombre minacciose si stagliavano sulle pareti e cambiavano posizione in sincrono con la trasmissione televisiva. Gli ci volle un momento per rendersi conto che qualcosa aveva fatto scattare le potenti luci di sicurezza nel giardino anteriore.
Dean si alzò e sbirciò fuori attraverso l’alta finestra. Il sistema di irrigazione temporizzato doveva aver fatto attivare i sensori di movimento con gli irrigatori rotanti che mettevano in scena la coreografia di spruzzi a beneficio dell’unico spettatore. Il giardino, meravigliosamente curato, era vuoto, perciò si rimise a sedere fissando lo schermo silenzioso che trasmetteva immagini rapide e colorate, come se a quell’ora della notte qualcuno potesse farci caso.
Venti secondi dopo che gli spruzzatori si furono spenti, anche le luci lo fecero e la stanza gli parve più buia che mai. Dean si rilassò sulla dura sedia e riposò gli occhi. Quando li chiudeva il bruciore peggiorava. Di colpo le palpebre pulsarono d’arancione, e quando aprì gli occhi fu accecato da una forte luce bianca che riempiva la stanza dall’esterno. Si rialzò e, a passo incerto, si avvicinò alla finestra e guardò fuori: le luci di sicurezza si erano riaccese e puntavano verso la casa, lasciando nelle tenebre il resto del giardino.
Ci fu uno schiocco potente alla porta posteriore. Con il cuore che batteva all’impazzata, Dean prese il giubbotto antiproiettile dallo schienale della sedia. Lentamente, percorse il corridoio, che era pieno di quella luce inquietante, e raggiunse la porta, distratto dal pulviscolo di luce che gli riempiva le pupille. Si ricordò troppo tardi di essersi tolto di dosso il taser nuovo di zecca ore prima, per stare più comodo, e di averlo lasciato accanto alla gamba della sedia nell’altra stanza. Si infilò il giubbotto mentre passava accanto a file di ritratti dall’aria saccente e superiore, e impugnò il manganello retraibile sollevandolo sopra la testa, pronto a colpire.
Dietro di lui le luci di sicurezza si spensero.
Dean si ritrovò nel buio più completo. Trattenne il fiato. Sentiva qualcosa avvicinarsi lungo il corridoio. Preso dal panico, colpì alla cieca, incontrando solo l’aria e i pannelli di legno alle pareti. Prima che riuscisse a sferrare un altro colpo, qualcosa di duro si abbatté sulla sua fronte, e lui cadde nell’oscurità.
Quando riuscì ad afferrare la sua trasmittente, non aveva idea se avesse perso conoscenza o meno, e per quanto tempo. Premette il pulsante di allarme, che avrebbe trasmesso tutto ciò che diceva su un canale aperto. Il bagliore verdastro emesso dal piccolo schermo si rifletté sulle pareti lucide, guidando Dean mentre si rimetteva in piedi a fatica e cercava l’interruttore della luce.
«Centrale, mandate altre unità» biascicò, poi perse l’equilibrio e lasciò cadere la trasmittente a terra.
Si accasciò addosso all’interruttore. Sopra la sua testa, il piccolo lampadario prese vita, rivelando una serie di impronte infangate che attraversavano il corridoio e salivano le scale, verso la camera di Ashley. Dean prese il manganello dal pavimento, si rialzò e imboccò le scale, risalì fino al pianerottolo dove le impronte sempre più sbiadite svoltavano dritte verso la porta decorata della camera della bambina.
Dean irruppe all’interno, con il manganello sollevato, ma la stanza era disordinata e vuota. Le ultime tracce di impronte infangate conducevano alla porta del balcone. Guardò il giardino deserto e poi si sedette contro la ringhiera metallica, avendo esaurito l’adrenalina che fino a quel momento l’aveva sostenuto nonostante la botta al cranio. Prese il telefono e, mentre attendeva i rinforzi, mandò un messaggio al numero che gli era stato dato poche ore prima.
Edmunds si era addormentato, coperto solo dalla giacca. Nelle ultime settimane aveva passato più ore sul divano che dentro il suo letto. Baxter, comunque, era sveglia in cucina e leggeva il messaggio che aveva appena ricevuto. In silenzio, risalì le scale per controllare l’intera famiglia Lochlan, trovandola raccolta e addormentata nella camera da letto di Edmunds e Tia.
Wolf aveva ragione. Le aveva detto che se il killer non fosse riuscito a raggiungere Ashley avrebbe cercato la ragazzina. Aveva già dato prova di essere pronto a uccidere a casaccio. I tre poveracci con le intolleranze alimentari che avevano fatto la stessa fine di Khalid ne erano la prova. Non doveva sorprendere che fosse pronto a uccidere una bambina innocente pur di soddisfare il proprio ego.
Pur con qualche esitazione, Vanita aveva permesso a Baxter di trasferire la famiglia, convinta che fosse un enorme spreco di tempo per tutti quelli coinvolti. Baxter si era offerta di accoglierli tutti nel suo appartamento. O almeno, questo aveva detto alla squadra.
Ancora non aveva rinunciato all’idea che qualcuno stesse incastrando Wolf. In fondo, quella era la seconda Ashley Lochlan che cercava di salvare in un solo giorno. Aveva deciso di chiamare l’unica persona di cui si fidava completamente, benché fosse ancora arrabbiata a morte con lui.
Visto che Tia stava da sua madre, Edmunds aveva gentilmente accettato di accogliere Baxter e i suoi aristocratici rifugiati. Dopo averli fatti entrare, e nonostante fosse sfinito, era corso al negozio più vicino per comprare i generi di prima necessità, che si poteva a malapena permettere, peraltro. Baxter era stata contenta che se ne andasse, ma per lui: per lo meno non avrebbe visto le espressioni orripilate dei loro ospiti mentre esploravano i magri confini del loro alloggio temporaneo.
«Dovrebbe licenziare la sua cameriera, e la signora delle pulizie» Baxter udì mormorare la signora Lochlan al suo altezzoso marito, quando posò accidentalmente il piede su un mucchietto di croccantini per gatti dimenticato sul pavimento della cucina.
Edmunds si sdraiò sul divano mentre gli altri cenavano, quindi non mangiò né ebbe l’occasione di parlare in privato con Baxter. Probabilmente è meglio così, pensò lei. Niente era cambiato. Lui era convinto che Wolf fosse colpevole, e non c’era niente che lei potesse dirgli per fargli cambiare idea. Lui non conosceva Wolf quanto lei.
Mentre Baxter ripassava mentalmente le argomentazioni a difesa di Wolf da usare contro Edmunds il mattino seguente, prese il telefono e compose un breve messaggio.
Bambina salva. Dobbiamo parlare. Chiamami. X
Sapeva che Wolf si era liberato del telefono per impedire loro di rintracciarlo, ma lo inviò comunque. Aveva bisogno di sentirsi ancora in qualche modo collegata con la persona più importante della sua vita. Non riusciva nemmeno a prendere in considerazione la possibilità che avrebbe potuto non rivederlo più vivo.
Andrea si alzò lentamente dal letto, per non svegliare Geoffrey. Si strinse al corpo la vestaglia e poi scese piano le scale fino in cucina. Vide il cielo blu inchiostro schiarirsi attraverso la vetrata sul tetto, responsabile delle enormi variazioni di temperatura della casa. Anche d’inverno, quell’ambiente perfetto e degno di una showroom di architetti diventava insopportabile quando il sole era a picco in un giorno sereno, eppure, poco prima dell’alba di una mattina d’estate come quella, Andrea aveva le dita dei piedi intirizzite dopo aver camminato a piedi nudi sulle piastrelle gelide.
Chiuse la porta dietro di sé, aveva bisogno di privacy, e si sedette all’isola al centro della cucina con un bicchiere di succo d’arancia e il telefono attaccato all’orecchio. Era strano che, pur dopo anni di separazione, si sentisse completamente a proprio agio a chiamare Wolf alle cinque del mattino. La cosa non valeva per nessun altro nella sua vita, nemmeno per Geoffrey.
Negli anni si era abituata agli orari lavorativi irregolari dell’ex marito, tanto da sapere che le probabilità che fosse sveglio nel cuore della notte erano identiche a quelle che lo fosse in pieno giorno. Ma la verità era ancora più profonda. Sapeva che lui c’era, c’era sempre per lei, bastava una telefonata, pronto ad ascoltare qualsiasi cosa lei avesse bisogno di dire, che stesse dormendo o meno. Era qualcosa che aveva sempre dato per scontato, fino a quel momento.
Per la sesta volta in dodici ore trovò la segreteria telefonica e decise di chiudere la chiamata piuttosto che lasciare l’ennesimo messaggio ingarbugliato. Avrebbe riprovato mentre andava al lavoro. Elijah aspettava una sua risposta sulla promozione entro la fine della giornata e lei era arrivata al punto di smettere addirittura di pensarci, sperando di riuscire a trovare la risposta giusta al momento opportuno.
Geoffrey si alzò alle sei, come suo solito, e Andrea si dovette sforzare di non parlare dell’argomento, ormai trito e ritrito, durante la colazione. Anche lui doveva essere stufo marcio di quel discorso, tanto quanto lo era lei, e comunque non c’era niente che potesse dirle per aiutarla. Le augurò buona fortuna, giusto per farle capire che non se n’era scordato, poi andò a fare la doccia al piano di sopra.
Andrea uscì di casa alle sei e venti, decisa a cominciare quella che senza dubbio sarebbe stata un’altra giornata di notiziari all’insegna del «conto alla rovescia della morte». Una volta giunta in redazione, le ragioni delle mancate risposte di Wolf le furono subito evidenti. Trovò la casella di posta piena di email in arrivo e di fotografie di gente che si aspettava qualche forma di riconoscimento pecuniario per aver avvistato Wolf e Ashley Lochlan. L’inattendibile elenco di presunti avvistamenti in ogni parte del Paese le ricordò una vicenda che aveva seguito anni prima, riguardante un leopardo delle nevi in fuga: c’erano stati avvistamenti in due stazioni di servizio, all’aeroporto di Glasgow a bordo di un veicolo elettrico, e una foto sfuocata era stata inviata giusto qualche minuto prima da Dubai.
Incerta su cosa farne, Andrea inviò un messaggio a Baxter per controllare che tutto fosse a posto, poi andò in sala trucco per essere certa di evitare l’arrivo di Elijah. Non c’era bisogno che le ricordasse l’enorme decisione che doveva prendere né che le facesse pressioni.
Aveva ancora dieci ore per decidere.
Baxter era ancora seduta al tavolo della cucina quando udì Edmunds stiracchiarsi. Rapida, nascose nella borsa la Glock 22 che aveva preso in prestito dal reparto prove. Non aveva alcuna intenzione di lasciare se stessa e la famiglia Lochlan senza protezione e non aveva alcuna difficoltà ad accedere alle prove delle sue stesse indagini. Dopo di che, le ci era voluto soltanto un altro quarto d’ora per frugare nei cassetti e nelle altre scatole di prove per trovare una manciata di pallottole Smith & Wesson calibro .40 che andassero bene per l’arma.
Edmunds si mise in piedi barcollando, gli occhi pesti, e andò in cucina. Quando vide l’ammasso di roba sporca nel lavello emise un grugnito. A quanto sembrava, i Lochlan non avevano mai dovuto affrontare il tremendo compito di lavare le stoviglie, ed erano sopravvissuti un’altra notte senza doverlo imparare.
«Buongiorno» sbadigliò, armeggiando con la teiera.
«Grazie per averci ospitati» disse Baxter.
Edmunds era ancora mezzo addormentato e non riuscì a capire se lei fosse sincera o meno.
«Il killer ha cercato la ragazzina, proprio come aveva detto Wolf» gli riferì Baxter.
Edmunds lasciò da parte il caffè e si sedette al tavolo.
«È riuscito a scappare» gli disse, quando vide la sua espressione speranzosa. «Il novellino che avevano messo a guardia della casa ha una contusione, ma se la caverà.»
Baxter fece una pausa, preparandosi a sciorinare il discorsetto che aveva provato e riprovato nella sua mente.
«Senti, non ce l’ho con te per ieri o per aver indagato sul possibile coinvolgimento di Wolf. Considerando le prove che hai trovato, non avresti svolto il tuo lavoro se non avessi fatto così.»
«I tecnici hanno detto che ha cercato su Google Madeline Ayers il giorno dopo che abbiamo trovato la Ragdoll» iniziò a dire Edmunds, ma lei lo interruppe.
«Non lo conosci come me. Wolf ha un’etica rigida. Probabilmente ha il codice morale più rigoroso di tutte le persone che conosco, anche se questo a volte lo porta a fare cose illegali e orribili.»
«Ma non è un po’ una contraddizione?» chiese Edmunds, più delicatamente che poté.
«Sappiamo tutti che ci sono occasioni in cui la legge e la cosa giusta da fare non vanno d’accordo come vorremmo. Wolf non potrebbe mai fare una delle cose di cui tu...»
Baxter si bloccò a metà frase quando Edmunds si alzò e prelevò un fascicolo dalla sua borsa. Lo lasciò cadere sul tavolo di fronte a lei.
«E questo cosa sarebbe?» chiese lei, ostile.
Non mostrò alcuna intenzione di aprirlo.
«Ho fatto un viaggetto sulla costa ieri pomeriggio, al St Ann’s Hospital.»
«Cosa ti fa pensare di avere il diritto di...»
«Ho trovato qualcosa» disse Edmunds, alzando la voce per coprire la sua. «Nella camera di Wolf.»
Baxter era furiosa. Prese di scatto il fascicolo dal tavolo e lo aprì. La prima fotografia ritraeva una piccola stanza dipinta di bianco, con quasi tutti i mobili spostati. Alzò lo sguardo spazientita verso Edmunds.
«Vai avanti» la invitò lui.
La seconda foto mostrava quello che sembrava un segno scuro sulla parete.
«Affascinante» disse Baxter, mettendo la foto in fondo alla pila per guardare la terza e ultima immagine. La fissò in silenzio per più di un minuto, poi la sua espressione mutò e dovette nascondere a Edmunds gli occhi pieni di lacrime.
La fotografia che aveva in grembo elencava i nomi ormai familiari iscritti sulla superficie ruvida: quelli che Wolf riteneva responsabili, le lettere simili a forme velate dal fumo, nere e bruciate, istoriate in modo permanente nel tessuto del vecchio edificio.
«Mi dispiace» disse Edmunds a bassa voce.
Baxter scosse il capo e gettò il fascicolo sul tavolo.
«Ti sbagli. All’epoca stava male! Non poteva... Non può...»
Sapeva di mentire a se stessa. Si sentiva come se tutte le sue certezze stessero crollando. In fondo, se lei era stata tanto ingenua da credere in Wolf, quali altre illusioni governavano la sua vita? L’uomo che aveva cercato di imitare, per essere alla sua altezza, l’uomo con cui voleva stare, era davvero il mostro che Edmunds le aveva fatto conoscere?
Risentì le urla di morte di Garland. Risentì il puzzo dei resti bruciati del sindaco Turnble, ricordò i momenti in cui aveva abbracciato Chambers quando nessuno guardava, per augurargli buone ferie.
«È lui, Baxter. Non c’è alcun dubbio. Mi dispiace.»
Lentamente, incrociò lo sguardo di Edmunds e annuì.
Non c’era alcun dubbio.