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Mercoledì 9 luglio 2014

Ore 19.05

Wolf sperava che la camminata sotto la pioggia lungo la via principale di Plumstead avesse attenuato l’effetto del dopobarba. Dopo essersi inzuppato con quel regalo benintenzionato, ne aveva spruzzato un bel po’ sulle pareti del suo appartamento, augurandosi che tenesse alla larga qualsiasi bestia ci fosse che grattava sempre dietro l’intonaco. Aveva impiegato ben mezz’ora a decidere come vestirsi per l’occasione, poi si era pettinato i capelli in onore del suo primo appuntamento galante in un decennio, e ne era emerso con lo stesso aspetto di ogni giorno.

Si fermò lungo la strada ad acquistare le uniche due bottiglie di vino bianco e rosso che conosceva (le preferite di Baxter) e l’ultimo mazzo di fiori rimasto nel garage accanto. I fiori afflosciati erano tanto pietosi che si stava chiedendo se non avesse pagato troppo care delle cose cresciute naturalmente nel vecchio secchio arrugginito da cui le aveva estratte.

Si inerpicò lungo le scale del dimesso palazzo e salutò i due poliziotti di guardia, che non parvero particolarmente felici di vederlo.

«Abbiamo sporto reclamo contro di te» lo sfidò la poliziotta.

«Se tra una settimana sarò morto te ne pentirai» disse Wolf.

Lui sorrise, lei no. Si infilò tra di loro e bussò alla porta di Ashley.

«Vedi di non farla piangere, stavolta, amico» disse il poliziotto, che era palesemente geloso del suo appuntamento a cena.

Wolf ignorò il commento, ma si pentì di non aver trovato una risposta giusto per riempire il silenzio imbarazzato quando, venti secondi dopo, Ashley non aveva ancora aperto la porta. Nel momento in cui, finalmente, fece scattare la nuova serratura di sicurezza aggiunta alla sua porta, era bellissima. Wolf ebbe l’impressione di udire un forte sospiro provenire dall’uomo alle sue spalle. Ashley indossava un vestito rosa chiaro di pizzo e si era raccolta i capelli ricci. Sembrava fin troppo elegante per una cenetta tranquilla a casa.

«Sei in ritardo» disse brusca, per poi rientrare nell’appartamento.

Esitando, Wolf la seguì, sbattendo la porta in faccia al povero gargoyle di guardia.

«Sei bellissima» disse, rimpiangendo di non aver indossato, o anche solo posseduto, una cravatta.

Le porse il vino e i fiori, che lei infilò educatamente in un vaso pieno d’acqua, nel vano tentativo di resuscitarli.

«So che è troppo, ma potrei non avere un’altra occasione di mettermi elegante, così...»

Ashley aprì il rosso per se stessa e il bianco per Wolf. Parlarono in cucina mentre lei di tanto in tanto rimescolava il cibo in pentola. Passarono in rassegna tutti i cliché dei primi appuntamenti: famiglia, hobby, aspirazioni, utilizzando anche il più esile collegamento per unire l’argomento della conversazione alle loro storie più divertenti e rodate. Wolf di colpo si ricordò di suo padre. E per la prima volta da quando era cominciato tutto quell’inferno, entrambi si sentirono normali, come se avessero davanti un futuro indefinito, come se quella prima sera insieme potesse ancora evolvere in qualcosa di speciale.

La cena preparata da Ashley era deliziosa. Lei tuttavia si scusò ripetutamente per i «pezzettini bruciacchiati», anche se Wolf non ne trovò nemmeno uno. Ashley versò il fondo di ciascuna bottiglia nei bicchieri, poi servì il dolce, e la conversazione divenne più malinconica, anche se non meno coinvolgente.

Ashley l’aveva avvisato che quando cucinava l’appartamento diventava insopportabilmente caldo. Quando lui, pur in imbarazzo, si rimboccò le maniche, lei si dimostrò intrigata e non respinta dalle cicatrici delle bruciature sul suo braccio sinistro. Avvicinò la sedia per guardare più da vicino, passando delicatamente le dita sulla pelle sensibile, affascinata.

Wolf sentì di nuovo l’odore di fragola nei suoi capelli e quello dolce del vino nel suo fiato quando lei si voltò a guardarlo, a pochi centimetri dal suo volto, la stessa aria fra di loro...

...La maschera da lupo.

Wolf sussultò e Ashley si ritrasse. L’immagine scomparve subito, ma ormai era tardi. Aveva completamente rovinato l’atmosfera di quel momento e riusciva a vedere il rifiuto sul volto di Ashley. Cercò disperatamente un modo di salvare quella serata, una delle più belle che ricordasse.

«Mi dispiace» disse.

«No, scusami tu.»

«Possiamo riprovarci? Cioè, la tua mano sul mio braccio, tu che mi guardi e tutto il resto...»

«Perché ti sei ritratto da me?»

«Mi sono ritratto... Ma non da te. L’ultima persona che si è avvicinata così tanto a me è l’uomo che sta cercando di ucciderci... Ieri.»

«L’hai visto?» Ashley spalancò gli occhi.

«Aveva su una maschera.»

Wolf le spiegò quello che era accaduto davanti all’ambasciata. Le disse di come aveva fronteggiato l’uomo in maschera, il lupo, lo sguardo fisso nel suo senza distoglierlo. Qualcosa scattò dentro Ashley, che riprovò ad avvicinarsi, poco a poco. La sua mano ritornò sul braccio di Wolf. Lui sentì di nuovo l’odore del vino nel suo fiato. Ashley inspirò a fondo e aprì le labbra...

Il telefono di Wolf squillò.

«Merda!» Guardò il display e fu sul punto di rifiutare la chiamata, ma poi fece un sorriso di scuse e si alzò per rispondere. «Baxter?... Chi?... No, non farlo... Dove?... Un’ora e arrivo.»

Ashley, irritata, iniziò a sparecchiare la tavola.

«Allora te ne vai?»

Wolf adorava quell’accento e fu sul punto di cambiare idea, udendo la delusione nella sua voce.

«Un’amica è nei guai.»

«Non dovrebbe chiamare la polizia?»

«Non è quel tipo di guai. Credimi, se fosse chiunque altro saprei dove mandarlo.»

«Dev’essere speciale per te.»

«Purtroppo sì.»

Edmunds aprì gli occhi e per qualche secondo non si ricordò dov’era. Aveva sbavato sopra tutto il braccio e giaceva su un materasso fatto di documenti, fissando il canyon di scaffali che lo circondavano. Era esausto e la combinazione di buio e silenzio l’aveva sopraffatto. Facendosi coraggio, abbassò lo sguardo sull’orologio. Le 21.20.

«Accidenti!»

Gettò tutti i fogli sparsi a terra dentro lo scatolone, lo mise su uno scaffale e iniziò a correre verso l’uscita.

Wolf aveva con sé a malapena i soldi sufficienti per pagare l’esosa tariffa del taxi. Ma pagò e uscì davanti a Hemmingway’s, in Wimbledon High Street. Si fece largo tra la gente che beveva all’aperto e mostrò il distintivo al bar.

«È nei bagni, svenuta» gli disse la ragazza che versava le birre alla spina. «C’è qualcuno con lei. Stavamo per chiamare un’ambulanza, ma lei ha insistito che chiamassimo te prima. Aspetta, ma tu non sei quel detective... Wolf. Quel Wolf?»

Wolf era già scattato verso i bagni, scomparendo prima che lei riuscisse a tirar fuori il cellulare per un selfie. Ringraziò e congedò la cameriera che era stata tanto gentile da sedere con Baxter fino al suo arrivo. Si inginocchiò accanto alla collega. Era ancora cosciente, ma rispondeva solo se la pizzicava o gridava il suo nome.

«Proprio come ai vecchi tempi» disse.

Le prese la giacca mettendogliela sopra la testa per nasconderle il volto, prevedendo che la ragazza al bar avesse detto a tutti i paparazzi dilettanti là fuori che l’uomo in tutti i notiziari era nel bagno delle donne. Poi sollevò Baxter tra le braccia e la portò all’aperto.

Il buttafuori gli aveva fatto spazio tra la folla. Wolf sospettava che quella premura fosse dovuta più che altro alla fretta di liberarsi di quell’ubriaca prima che vomitasse ancora, non tanto alla preoccupazione per la sua salute. Ma apprezzò comunque l’aiuto. La portò lungo la strada, facendola quasi cadere mentre saliva le strette scale fino al suo appartamento. In qualche modo riuscì ad aprire la porta d’ingresso e fu accolto dalla radio accesa a pieno volume. Barcollò fino alla camera da letto e la depositò sul materasso.

Le tolse gli stivali e le legò i capelli sulla nuca, come aveva già fatto infinite volte prima di allora, anche se non accadeva da molto tempo. Poi andò in cucina a prendere una ciotola, spense la radio e diede da mangiare a Echo. C’erano due bottiglie di vino vuote nel lavello e si maledisse per non aver chiesto al bancone del bar quanto altro avesse bevuto.

Riempì due bicchieri d’acqua, bevve il suo d’un fiato e tornò in camera, posò la ciotola accanto al letto e il bicchiere sul comodino, poi si sfilò le scarpe e si mise accanto a lei. Baxter stava già russando.

Spense la lampada e fissò il soffitto buio, ascoltando le prime gocce di pioggia picchiettare sui vetri delle finestre. Sperava che la recente ricaduta di Baxter fosse dovuta soltanto allo stress cui erano tutti sottoposti, che lei avesse ancora un po’ di controllo su quel vizio che non l’aveva mai veramente abbandonata. Preparandosi per l’ennesima notte insonne, trascorsa a controllare che respirasse e a pulire, si chiese se la sua presenza l’aiutasse veramente o meno.

Edmunds era fradicio quando arrivò a casa, trovando tutte le luci spente. Percorse a tentoni il corridoio buio, più silenziosamente possibile, presumendo che Tia fosse già addormentata. Tuttavia, quando raggiunse la porta aperta della camera, vide che il letto era intatto.

«T?» chiamò.

Passò di stanza in stanza, accendendo le luci e notando le cose che mancavano: la borsa da lavoro di Tia, i suoi jeans preferiti, quell’inciampo di gattaccio. Non aveva lasciato alcun biglietto, non ce n’era bisogno. Era da sua madre. Lui l’aveva delusa una volta di troppo, non solo durante il caso Ragdoll, ma da quando si era trasferito.

Si lasciò cadere sul divano, dove si era aspettato di dover dormire quella notte, e si strofinò gli occhi stanchi e gonfi. Si sentiva malissimo per averla sconvolta a tal punto, ma dovevano resistere solo altri cinque giorni prima che, in un modo o nell’altro, tutto finisse. Di certo, Tia avrebbe capito che la fine era vicina.

Pensò di chiamarla, ma sapeva che lei avrebbe spento il telefono. Guardò l’ora: le dieci e ventisette. Doveva essere venuta a prenderla sua madre, visto che Tia aveva lasciato l’auto parcheggiata in strada. Prese le chiavi dal gancio, spense le luci e, nonostante la spossatezza, uscì di nuovo nella notte.

Incontrò poco traffico e attraversò la strada a tempo di record. Fece retromarcia nel parcheggio e corse dalla guardia di sicurezza. L’uomo lo riconobbe immediatamente; scambiarono qualche parola mentre Edmunds forniva i documenti e lasciava gli oggetti personali prima di rientrare nell’archivio.

Il vino aveva aiutato Wolf a prendere sonno, ma meno di un’ora dopo era stato svegliato dal rumore di Baxter che vomitava nel bagno della camera. Giacque al buio, la lama di luce che filtrava dallo spiraglio della porta del bagno, e ascoltò l’acqua che scorreva, l’armadietto che si apriva e chiudeva e poi lei che faceva gargarismi e sputava nel lavandino.

Stava per alzarsi e andare a casa, sicuro che lei fosse nelle condizioni di sopravvivere alla notte senza assistenza, quando Baxter tornò barcollante in camera, si lasciò cadere sul letto e sbatté un braccio ubriaco sul suo petto.

«Com’è andato il tuo appuntamento?» gli chiese.

«Rapido» rispose Wolf, incavolato con Finlay, che non sapeva tenere un segreto, e sospettando che l’intempestiva interruzione di Baxter fosse stata, in effetti, calcolata con precisione.

«Che peccato. Grazie per essere venuto a raccogliermi» gli disse, quasi addormentata.

«Stavo per non farlo.»

«Ma l’hai fatto» sussurrò lei, sempre più assonnata. «Sapevo che l’avresti fatto.»

L’istinto di Edmunds fu premiato. Riuscì a individuare la scatola su cui stava lavorando prima e che aveva abbandonato sullo scaffale sbagliato nella fretta di tornare a casa. Era di nuovo sul caso del 2009: l’erede di una potente multinazionale che era scomparso da una suite d’albergo sicura e sorvegliata, una chiazza di sangue, niente cadavere. Studiò meticolosamente ogni fotografia della scena del crimine e alla fine ne trovò una che confermava i suoi sospetti.

Sulla parete accanto alla macchia, una serie di otto piccole gocce di sangue era stata repertata e poi etichettata, comprensibilmente, come «altro sangue». Ma la scena assomigliava in modo inquietante a quella della stanza in cui era stato qualche ora prima. Grazie a ciò che adesso sapevano, era ovvio che quegli spruzzi apparentemente insignificanti erano in realtà stati prodotti dallo smembramento del corpo. Ecco come il killer era riuscito a portar via la vittima da un luogo protetto.

Era il loro assassino. Edmunds ne era certo.

Eccitato, iniziò a rimettere le prove dentro lo scatolone. Finalmente sentiva di aver scovato qualcosa di promettente da condividere con la squadra. Mentre si alzava, un foglio di carta scivolò dal coperchio sul pavimento. Era il modulo standard che accompagnava ogni scatolone del magazzino: un elenco di nomi, date e firme, e una breve descrizione della ragione per cui era stato rimosso dagli archivi. Edmunds si abbassò per rimetterlo dentro lo scatolone, ma poi notò un nome familiare in fondo alla pagina, l’ultima persona che aveva esaminato le prove:

Detective William Fawkes – 05/02/2013: analisi delle macchie di sangue

Detective William Fawkes – 10/02/2013: restituito al magazzino.

Edmunds era confuso. Non c’erano documenti firmati da Wolf né rapporti della Scientifica, se non quelli originali del 2009. L’ipotesi più probabile era che Wolf fosse arrivato a quel caso investigandone un altro. Forse era incappato non intenzionalmente nella precedente vittima del Ragdoll Killer, attirandone l’attenzione. Questo avrebbe spiegato la natura così personale della sfida e anche l’evidente livello di ammirazione: l’unico poliziotto che il killer ritenesse degno di sfida.

Ogni cosa stava andando al suo posto.

Edmunds era esaltato. Avrebbe chiesto lumi a Wolf quel mattino stesso, e lui forse avrebbe potuto indicargli altri esempi dei primi lavori del killer. Incoraggiato dalla sua scoperta, cambiò corsia e iniziò a cercare il caso successivo della lista.

Finalmente stavano dando la caccia al cacciatore.