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Lunedì 7 luglio 2014
Ore 11.29
Nell’istante in cui si spense il pannello con la scritta ON AIR, Andrea si strappò di dosso il microfono, fuggì dallo studio e tornò in redazione. Elijah aveva programmato il loro incontro per le undici e trentacinque e, mentre saliva le scale verso il suo ufficio, Andrea ancora non sapeva come avrebbe reagito se lui le avesse offerto quello che aveva sempre voluto.
Quando aveva accettato di aiutare Baxter, aveva anche tutta l’intenzione di lasciarsi alle spalle quel mestiere da tagliagole. Tuttavia, il suo goffo tentativo di redenzione le si era rivoltato contro in modo orribile, pur catapultando la sua fama e la sua influenza come giornalista a vertici mai visti. In qualche modo, più lottava per liberarsi da quel fango e più si scavava la fossa.
Elijah la vide arrivare e, a sorpresa, le aprì la porta prima ancora che lei bussasse, togliendole quei pochi secondi aggiuntivi di cui aveva un disperato bisogno per schiarirsi le idee. L’uomo odorava leggermente di sudore, e chiazze scure iniziavano a formarsi sotto le sue ascelle. Indossava una camicia azzurra su misura che sembrava sul punto di esplodere qualora lui avesse contratto un qualsiasi muscolo, e pantaloni neri aderenti che enfatizzavano l’assurda sproporzione del suo fisico.
Le offrì uno dei suoi orribili caffè, che lei rifiutò, e poi iniziò una tirata su come raramente ormai capitasse qualcosa in grado di sorprenderlo ma doveva ammettere che lei aveva mostrato un vero istinto da predatrice, cosa di cui non la credeva capace. Premette un pulsante e il proiettore dietro di lui si accese, mostrando una serie di grafici e numeri che lui recitò a memoria, senza neppure guardarli. Andrea dovette reprimere una risata perché metà del grafico storto cui si riferiva era proiettato fuori dalla finestra dell’ufficio, cosa di cui lui si sarebbe accorto se solo non fosse stato così compiaciuto del proprio discorsetto da non voltarsi nemmeno.
Andrea iniziò a pensare ad altro quando lui si congratulò per lo splendido lavoro sull’omicidio di Garland, come se fosse stato un evento televisivo in diretta che lei stessa aveva orchestrato con meticolosità. Cosa che, in un certo nauseabondo senso, era del tutto vera. Mentre i ricordi delle convulsioni atroci di Garland le invadevano i pensieri, Elijah finalmente giunse al punto.
«...la nostra nuova conduttrice di primetime!»
Quando Andrea non rispose, si sgonfiò.
«Hai sentito cosa ti ho detto?» chiese.
«Ho sentito» rispose Andrea, a bassa voce.
Elijah si rilassò appoggiandosi allo schienale, si infilò in bocca un chewing gum e annuì con fare consapevole. Continuò a parlare, agitando nella sua direzione un dito saccente. Andrea avrebbe voluto strapparglielo.
«So cosa pensi» disse, masticando a bocca spalancata. «Stai pensando a Wolf. Stai pensando: non può davvero aspettarsi che mi sieda di fronte a una telecamera a raccontare a tutto il mondo la morte del mio ex marito.»
Andrea detestava quando le metteva le parole in bocca, ma in quell’occasione ci aveva azzeccato. Annuì.
«Be’, è la dura realtà, tesoruccio» sbottò lui. «Ed è proprio questo che lo renderà uno spettacolo irresistibile. Chi si metterà mai a guardare quella merda della BBC quando invece potrebbe guardare l’amore della vita di Wolf apprendere della sua morte nel momento esatto in cui legge la notizia in diretta? Im-per-di-bi-le!»
Andrea fece una risata amara e si alzò per andarsene.
«Sei incredibile.»
«No, sono realista. È un dolore che dovrai affrontare comunque. Perché non farlo in diretta e approfittarne per diventare una star? Ah, potresti anche convincerlo a fare un’intervista esclusiva la sera prima! Non sarebbe una cosa strappalacrime? Potremmo trasmettere il momento in cui gli dirai addio!»
Andrea uscì di corsa dall’ufficio, sbattendo la porta.
«Pensaci bene!» le urlò lui. «Mi aspetto una tua risposta questo fine settimana!»
Andrea doveva tornare davanti alle telecamere dopo venti minuti. Con calma, entrò nella toilette delle donne, controllò che tutti i cubicoli fossero liberi, si chiuse dentro uno di essi e scoppiò a piangere.
Aspettando Joe nel laboratorio vuoto, Edmunds sbadigliava a pieni polmoni. Aveva deciso di rimanere in piedi in un angolo, stretto fra un cestino per rifiuti clinici e un frigorifero. Per pura coincidenza, era anche il punto più distante dal grosso freezer per cadaveri, verso il quale lanciava occhiate a intervalli regolari mentre prendeva appunti sul taccuino.
Era rimasto sveglio fino a dopo le tre di notte, esaminando i casi nei fascicoli che aveva appoggiato sopra i pensili in cucina. Anche se Tia non li avrebbe mai trovati là sopra, il nuovo cucciolo di casa, utilizzando le tende come arrampicatoi, ci era riuscito. E subito dopo aveva vomitato sopra un’importante dichiarazione di un testimone. Edmunds si sentiva già esausto, e la cosa lo preoccupava, visto che non era nemmeno ora di pranzo. Ma per lo meno tutta quella stanchezza aveva un senso: era incappato in un caso che di certo meritava ulteriori indagini.
«Accidenti, che t’è successo?» chiese Joe entrando in laboratorio.
«Non è niente» replicò Edmunds, uscendo dall’angolino e toccandosi il naso rotto, imbarazzato.
«Be’, è decisamente lui» annunciò Joe. «Tutte e tre le fotografie sono state scattate dalla medesima fotocamera.»
«Ti prego, dimmi che hai trovato qualcosa sul sangue.»
«Potrei dirti di sì, ma mentirei. Non è nel database.»
«Il che vuol dire che non è mai stato arrestato» disse Edmunds, più che altro a proprio beneficio. Adesso poteva con sicurezza escludere una larga percentuale dei casi d’archivio.
«Il sangue è di tipo zero positivo.»
«Quello più raro?»
«Comune come il letame» disse Joe. «Nessun segno di mutazione o malattia, niente alcol, niente droga. Colore degli occhi: grigio o azzurro. Devo dire che per essere il più perverso serial killer degli ultimi tempi, il suo sangue è di una noia mortale.»
«Quindi non hai nulla?»
«Non direi. Le impronte di scarpe sono taglia quarantadue e la suola è di uno stivale militare, quindi forse è un soldato.»
Edmunds ritirò fuori il taccuino.
«La Scientifica ha trovato tracce di asbesto, catrame e di vernice laccante nelle impronte, insieme a livelli insolitamente alti di rame, nichel e piombo rispetto al terreno circostante. Un magazzino, forse?»
«Approfondirò la cosa. Grazie» disse Edmunds, chiudendo il taccuino.
«Ehi, ho sentito che hanno identificato il busto. Sei mai riuscito a capire cosa fosse il tatuaggio?»
«Un canarino che fuggiva dalla gabbia.»
Joe parve perplesso. «Che cosa strana da farsi rimuovere.»
«Forse si era resa conto che certi canarini devono stare in gabbia.»
L’ambasciata irlandese era un edificio imponente a cinque piani, che sovrastava il parco di Buckingham Palace dalla posizione d’angolo a Belgravia. In quella giornata senza vento e assolata, Wolf entrò nell’immenso portico sotto le ombre delle bandiere appese sopra il marciapiedi affollato. L’imponente entrata fungeva anche da ponte sopra l’area di deposito rifiuti che offriva anche una via d’uscita antincendio per il piano seminterrato.
Wolf era già stato dentro parecchie ambasciate, a suo tempo, e mai per sua scelta, e ne aveva sempre avuto la medesima impressione: soffitti alti, quadri antichi, specchi decorati e divani enormi dall’aria soffice e intonsa come se nessuno avesse mai avuto il coraggio di sedercisi. Era come far visita a un lontano parente ricco che, benché felice di vederti, allo stesso tempo non vede l’ora che tu te ne vada per paura che si rompa qualcosa. E l’ambasciata irlandese non faceva eccezione.
Dopo aver superato i controlli di sicurezza nelle aree pubbliche, si trovò di fronte un’enorme scalinata circondata da pareti verdazzurro. Fu fermato tre volte mentre saliva, cosa che trovò incoraggiante, e poi entrò in una lussuosa stanza trovando Finlay che, tranquillo e sereno, guardava la televisione mentre Ford si contorceva sul pavimento come un bambino che fa i capricci.
In circostanze normali, quello doveva essere un ufficio. Ma i computer, le scrivanie e gli armadietti erano stati o rimossi del tutto o appoggiati lungo una parete, per far spazio al loro maleducato ospite. Qualcuno si era perfino preso la briga di equipaggiare la stanza con un lettino da campeggio, una teiera elettrica, un paio di poltrone e un televisore, nonostante il brevissimo preavviso.
Essendo una creatura abitudinaria, Ford aveva palesemente dormito di fronte alla tv sul divano in pelle immacolata, perché sopra c’era lo stesso piumino sporco e maleodorante di casa sua. Era uno spettacolo del tutto particolare, quello sfascio d’uomo inserito in un ambiente tanto nobile e decadente. Wolf non riusciva a credere che, fra tutte le cose che aveva, Ford avesse scelto di portarsi dietro quel lercio pezzo di tessuto da una parte all’altra del Paese.
«Wolf!» urlò Ford vedendolo, come se fossero vecchi amici. Prese a ululare.
Finlay salutò allegro, steso sull’altro divano, quello senza piumino sozzo.
«E quando vede te che versi fa?» chiese Wolf a Finlay.
«Temo di non poterli ripetere. Niente di amichevole, comunque.»
Ford si mise in piedi e Wolf vide che le mani gli tremavano in modo costante e incontrollato. L’irlandese poi si avvicinò alla finestra per guardare nella strada sottostante.
«Sta arrivando, Wolf! Sta venendo a uccidermi!» disse.
«Il killer? Be’... sì» rispose Wolf, confuso. «Ma non ci riuscirà.»
«Sì, invece. Sì, invece. Sì. Sa tutto, no? Sa dov’ero prima. Scoprirà anche dove sono adesso.»
«Di sicuro se non ti sposti da quella finestra gli rendi la vita facile. Adesso siediti.»
Finlay, risentito, guardò quell’uomo infantile, che aveva reso un inferno in terra le sue ultime diciassette ore, obbedire senza discutere all’ordine di Wolf, che si mise a sedere accanto all’amico.
«Ha passato una buona notte?» gli chiese, sorridendo.
«Se continua così, lo ammazzo io con le mie mani» borbottò Finlay.
«Quand’è che ha bevuto l’ultima volta?»
«All’alba» disse Finlay.
Wolf sapeva per esperienza le conseguenze di una crisi d’astinenza su un alcolista di lungo corso. L’innalzamento del livello d’ansia e le mani tremanti da delirium tremens non erano buoni segni.
«Ha bisogno di bere» disse Wolf.
«Credimi, l’ho chiesto più volte, ma l’ambasciatore ha detto di no.»
«Perché non fai una pausa?» disse Wolf a Finlay. «Secondo me muori dalla voglia di una sigaretta.»
«Sono io quello che sta per morire, qui dentro!» gridò Ford sullo sfondo.
Entrambi lo ignorarono.
«E mentre sei fuori, prendi un paio di bottiglie di... limonata» suggerì Wolf con un’occhiata significativa.
Simmons passò davanti all’ufficio ora di Vanita con un caffè in mano.
«Chaachaa chod» mormorò lei, usando il suo insulto hindi preferito.
Per colpa di quell’uomo, aveva trascorso tutta la mattinata districandosi tra le scartoffie arretrate e i messaggi a cui non aveva dato seguito. Aprì la mail seguente: un altro aggiornamento, inviato a tutti coloro che erano coinvolti nell’indagine sul caso Ragdoll. Notò il nome di Chambers incluso nell’elenco dei destinatari e sospirò. Simmons aveva annullato il suo badge subito dopo aver scoperto della sua morte, come da protocollo, ma l’infinito compito di rimuovere l’agente veterano dai database e raccogliere il suo equipaggiamento era una delle voci che giaceva vicino al fondo della lista delle cose da fare.
Immaginando che non stesse bene far circolare il nome di un collega morto su ogni maledetto aggiornamento del caso, scrisse rapida una risposta chiedendo di cancellarlo dall’elenco e passò al punto seguente della lista.
Simmons e Edmunds, benché seduti a mezzo metro di distanza, lavoravano in silenzio da più di un’ora. Edmunds si sentiva sorprendentemente rilassato accanto al suo superiore dal carattere irascibile. Forse tre mesi sotto Baxter l’avevano irrobustito, ma quella quiete lo metteva a suo agio. Due professionisti concentrati sul loro lavoro, due persone intelligenti ed efficienti, che si rispetta...
Simmons si voltò verso Edmunds, interrompendo i suoi pensieri.
«Ricordami di ordinarti una scrivania, dopo, ok?»
«Certo, signore.»
Il silenzio gli parve parecchio meno piacevole, dopo quelle parole.
Simmons stava ancora procedendo di buona lena nel faticoso compito di contattare ciascuno dei rimanenti ottantasette nominativi sulla lista. Alla prima passata, era riuscito a eliminarne soltanto ventiquattro. Aveva rigirato la pagina e ricominciato da capo, sicuro che una volta identificata l’ultima vittima, il puzzle avrebbe finalmente avuto un senso.
Edmunds, che aveva per primo avuto l’idea di compilare quella lista, non era sicuro di come o quando Simmons avesse reclamato il possesso della sua parte d’indagine, ma non aveva certo l’intenzione di mettersi a questionare. E poi aveva il suo bel da fare: stava cercando ogni possibile collegamento tra le vittime del caso Ragdoll e Naguib Khalid.
Anche se non aveva trovato alcuna connessione tra Chambers e Jarred Garland, immaginava che poliziotti e giornalisti tendessero entrambi a farsi una lunga lista di nemici nel corso degli anni. Perciò aveva deciso invece di concentrare la sua attenzione su Michael Gable-Collins, il sindaco Turnble e la cameriera, Ashley Lochlan.
Ma si sentiva frustrato. C’era qualcosa che collegava quelle persone così diverse ma, anche sapendo che Khalid era la chiave, ancora non riuscivano a cogliere il quadro generale.
Baxter era sulla scena del crimine di uno stupro, in un vicolo a due strade dall’appartamento di Wolf. Era una zona davvero schifosa. Aveva fatto irritare Blake quando si era rifiutata di arrampicarsi su un cassone dei rifiuti per cercare degli indizi, e in quel momento in teoria avrebbe dovuto andare a caccia di testimoni ma si era distratta pensando a Wolf e Finlay all’ambasciata irlandese, quando mancava un giorno e mezzo dall’attentato alla vita di Andrew Ford. Sentiva anche la mancanza di Edmunds. Si era talmente abituata ad averlo alle calcagna come un cagnolino che poco prima aveva abbaiato un ordine al vuoto.
Si annoiava. Era una cosa tremenda da ammettere quando ci si trovava nel mezzo dell’indagine sulla cosa peggiore che potesse accadere a una ragazza, ma era la verità. Ripensò alla sensazione di disperazione che aveva provato mentre osservava Garland in preda alle convulsioni a pochi metri da lei. Si ricordò di quando gli aveva tenuto la mano, incitandolo a sopravvivere, e di quando invece l’infermiere era arrivato ad annunciarne il decesso.
Sentiva la mancanza dell’adrenalina. Era stato uno dei giorni peggiori della sua vita eppure, se ne avesse avuta l’occasione, l’avrebbe rivissuto e rivissuto ancora. Cosa c’era di sbagliato in lei? Forse era meglio avere ricordi terribili che non averne affatto? Erano meglio la paura e il pericolo rispetto al nulla? Ed erano queste le domande che si poneva il killer per giustificare le proprie atrocità?
Iniziava a farsi paura da sola, perciò decise di rimettersi al lavoro.
Wolf e Finlay stavano guardando una replica di Top Gear a volume bassissimo mentre Ford russava a volume altissimo sotto il piumino sozzo sull’altro divano. Era praticamente svenuto dopo essersi scolato una bottiglia e mezza di «limonata», concedendo ai due detective una bramata ora di quiete.
«Thomas Page» sussurrò Finlay, con voce roca.
«Cosa?»
«Thomas Page.»
«Bastardo. Mi ha spaccato due...»
«Due denti su una scena del crimine quando eri ancora in addestramento. Lo so.»
«Ha sempre avuto un caratteraccio.»
«E tu sei sempre stato un saputello» replicò Finlay.
«Ma perché ti è venuto in mente quello...»
«Hugh Cotrill» lo interruppe Finlay.
«Un cretino di avvocato» sbottò Wolf, quasi svegliando Ford. «Il primo tizio che ho arrestato per furto? Cotrill è lo stronzo che ha fregato il sistema per farlo uscire.»
«Stava facendo il suo lavoro» sorrise Finlay. Era chiaro che faceva apposta a contrariare Wolf.
«Si è fatto fregare l’orologio dal suo stesso cliente, lo stronzo. Dove vuoi arrivare?»
«Voglio arrivare a questo: tu sei un sacco di cose, Will, ma non sei uno che perdona. Sei pieno di rancore. Probabilmente odi perfino me per qualcosa che ho detto o fatto chissà quanto tempo fa.»
«Una cosa che hai detto» puntualizzò Wolf con un sogghigno.
«Quel relitto là sul divano probabilmente non è frequentabile nemmeno nei giorni migliori, ma tu devi proprio odiarlo, vero? Ti ha rotto il polso in quanti? Tre...»
Wolf annuì.
«Tre punti e probabilmente ha salvato la vita a Khalid.»
«D’accordo» disse Wolf, «ma mi dici dove vuoi arrivare?»
«Da nessuna parte in particolare. È solo che è strano come vanno le cose, vero? Adesso hai l’incarico di proteggere un uomo che sono pronto a scommettere che non ti importa affatto salvare.»
«Hai ragione su una cosa» sussurrò Wolf, dopo che per un istante furono entrambi distratti dalla televisione. «È strano come vanno le cose. Chissà come, mi trovo nella posizione di tenerci davvero a salvare questo pezzo di m...»
Si bloccò prima di completare la parolaccia, e Finlay fece un cenno d’approvazione.
«...quest’uomo. Ci tengo più di qualsiasi altra cosa. Perché se riusciamo a salvare lui, allora forse, solo forse, possiamo salvare anche me.»
Finlay annuì e diede a Wolf una pacca tanto schietta quanto dolorosa sulla schiena, poi ricominciò a guardare la trasmissione.