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Sabato 28 giugno 2014

Ore 4.32

Baxter aveva lasciato Edmunds in attesa di quel trabiccolo d’ascensore. Si precipitò oltre una porta antincendio e scese le scale, incontrando una processione apparentemente interminabile di persone cui era stato finalmente permesso di tornare a casa. A metà della discesa rimise in tasca il tesserino, rendendosi conto che invece di facilitarle la strada gliela rallentava, in mezzo a quella folla compatta. L’iniziale novità dell’accaduto era scemata ore prima e adesso gli inquilini assonnati non nutrivano altro che rancore verso la polizia.

Quando alla fine sbucò nell’androne, trovò Edmunds che la aspettava con pazienza accanto alla porta d’ingresso. Gli sfilò accanto di gran carriera senza guardarlo e uscì nell’aria fredda del mattino. Il sole doveva ancora comparire, ma il cielo perfettamente limpido suggeriva che l’ondata di caldo sarebbe proseguita. Imprecò quando vide che la folla di spettatori e giornalisti era aumentata oltre il cordone della polizia, impedendole l’accesso alla sua Audi A1.

«Non dire una parola» intimò a Edmunds, che con il solito buon carattere ignorò il tono sgradevole dell’ordine ricevuto.

Si avvicinarono al cordone sotto un fuoco di fila di domande e flash, si chinarono sotto il nastro e iniziarono a farsi largo. Baxter digrignò i denti sentendo Edmunds che, dietro di lei, chiedeva permesso a ogni passo. Proprio mentre si voltava per lanciargli un’occhiataccia, si scontrò con un uomo corpulento, la cui grossa macchina fotografica cadde a terra con un rumore che sapeva di tanti soldi buttati.

«Merda! Scusi» disse, estraendo automaticamente un biglietto da visita della Met Police dalla tasca. Ne aveva sprecati a centinaia negli anni, distribuendone come cambiali per poi dimenticare immediatamente il caos che si era lasciata alle spalle.

L’uomo era ancora a terra, inginocchiato a guardare i rottami della macchina fotografica come se fosse una persona cara abbattuta dal fuoco nemico. La mano di una donna strappò il biglietto da visita dalla presa di Baxter. Lei alzò lo sguardo arrabbiata incontrando un volto ostile. Nonostante l’ora antidiluviana, la donna era impeccabile e truccata a dovere per la televisione. Le borse sotto gli occhi dalla stanchezza che avevano tutti gli altri in lei erano ben nascoste. Aveva lunghi capelli rossi e ricci e indossava una gonna elegante e un top. Le due donne si fronteggiarono in un silenzio carico di tensione, mentre Edmunds le guardava come ipnotizzato. Non avrebbe mai immaginato che la sua mentore potesse mostrarsi così a disagio.

La donna dai capelli rossi lanciò un’occhiata a Edmunds.

«Vedo che finalmente ti sei trovata uno della tua età» disse a Baxter, che guardò in cagnesco Edmunds come se l’avesse offesa per il semplice fatto di esistere. «Ha già provato a portarti a letto?» gli chiese la giornalista, mostrando empatia.

Edmunds si bloccò, domandandosi se non stesse davvero vivendo il momento peggiore della sua vita.

«No?» continuò la donna, controllando l’orologio. «Be’, la giornata è appena cominciata.»

«Mi sto per sposare» mormorò Edmunds, senza sapere come mai avesse detto quelle parole.

La rossa sorrise trionfante e aprì la bocca per dire qualcosa.

«Andiamocene!» gli abbaiò Baxter, recuperando il solito atteggiamento indifferente. «Andrea...»

«Emily...»

Baxter le voltò le spalle, calpestò i rottami della macchina fotografica e proseguì con Edmunds alle calcagna. Lui controllò tre volte di aver agganciato bene la cintura di sicurezza, Baxter accese il motore e fece retromarcia con irruenza, rimbalzando contro due marciapiedi prima di ripartire di gran carriera, lasciando che i lampeggianti blu dietro di loro si rimpicciolissero nello specchietto retrovisore.

Baxter non aveva ancora detto una parola da quando avevano lasciato la scena del crimine, e Edmunds faticava a tenere gli occhi aperti mentre sfrecciavano per le strade quasi deserte della capitale. Il condizionamento dell’Audi diffondeva un fresco piacevole nel lussuoso abitacolo, che Baxter aveva intasato di cd sparsi ovunque, insieme a trucchi mezzi consumati e confezioni vuote di pietanze da fast food. Quando attraversarono il Waterloo Bridge, l’alba iniziò a bruciare la città; la cupola della cattedrale di St Paul era una sagoma indistinguibile in controluce sullo sfondo dorato del cielo.

Edmunds cedette al sonno e sbatté il cranio contro il finestrino. Immediatamente si raddrizzò, furioso con se stesso per quell’ennesimo momento di debolezza di fronte al suo superiore.

«Quindi era lui?» disse. Aveva un bisogno disperato di iniziare una conversazione per non addormentarsi.

«Chi?»

«Fawkes. Quel William Fawkes.»

In effetti, Edmunds aveva già intravisto Wolf parecchie volte. Aveva notato il modo in cui i colleghi trattavano quel detective anziano, sempre consapevoli della scomoda aura di celebrità che lo avvolgeva.

«’Quel William Fawkes’, eh?» sbuffò Baxter.

«Ne ho sentite tante su quello che è successo...» Edmunds fece una pausa, in attesa di un segnale che lo invitasse a cambiare argomento. «Lei era nella sua squadra all’epoca, giusto?»

Baxter continuò a guidare in silenzio, come se Edmunds non avesse nemmeno aperto bocca.

Si sentì stupido per aver pensato che lei volesse discutere un argomento così importante con una matricola. Stava per tirar fuori il cellulare, tanto per fare qualcosa, quando inaspettatamente lei rispose.

«Sì. Sì, ero nella squadra.»

«Le ha fatte davvero tutte quelle cose di cui l’hanno accusato?» Edmunds sapeva di essere su un terreno delicato, ma il suo genuino interesse pesava più del rischio di provocare la rabbia di Baxter. «Piazzare false prove, aggredire il prigioniero...»

«Alcune sì.»

Edmunds fece un inconscio schiocco di disapprovazione con le labbra, urtando la sensibilità di Baxter.

«Non ti permettere di giudicarlo! Non hai assolutamente idea di come sia questo lavoro» lo rimbrottò. «Wolf sapeva che Khalid era il Cremation Killer. Lo sapeva. E sapeva che l’avrebbe rifatto.»

«Ci dovevano essere delle prove ammissibili.»

Baxter fece una risata amara.

«Aspetta di avere qualche anno di carriera sulle spalle, di vedere questi pezzi di merda cavarsela di continuo.» Fece una pausa, conscia dell’irritazione che montava. «Niente è bianco o nero. Quello che Wolf ha fatto sarà pure sbagliato, ma lui era disperato e l’ha fatto per ottime ragioni.»

«Anche aggredire brutalmente un uomo in un’aula di tribunale piena?» chiese Edmunds, sfidandola.

«Soprattutto quello» replicò Baxter. Era troppo distratta per cogliere il suo tono di voce. «Era sotto pressione e ha ceduto. Un giorno succederà anche a te, e a me. Capita a tutti, nessuno escluso. Prega soltanto che quando succederà a te ci sarà qualcuno al tuo fianco. Nessuno è stato dalla parte di Wolf quando è accaduto a lui, nemmeno io.»

Edmunds sentì il rimorso nella sua voce e si astenne dal commentare.

«Stava per andare in galera per quello. Volevano la sua pelle. Volevano una punizione esemplare per il ’poliziotto in disgrazia’ e poi, una gelida mattina di febbraio, indovina chi trovano in piedi davanti al cadavere ben cotto di una studentessa? Sarebbe ancora viva se avessero dato retta a Wolf.»

«Gesù» disse Edmunds. «Credi che sia sua... la testa?»

«Naguib Khalid è un assassino di ragazzine. Anche i criminali hanno delle regole. Per la sua stessa sicurezza, è rinchiuso in isolamento permanente nell’unità di massima sicurezza di una prigione di massima sicurezza. Non vede mai nessuno. Figuriamoci se uno può uscirsene di lì con la sua testa sottobraccio. È ridicolo.»

Un nuovo silenzio teso seguì l’affermazione di Baxter, che non ammetteva repliche: stavano sprecando tempo.

Sapendo che quella era in assoluto la conversazione più lunga che avevano avuto durante i tre mesi e mezzo che lavoravano insieme, Edmunds ritornò al punto in sospeso di prima.

«È incredibile che Fawkes – chiedo scusa, Wolf – sia ancora in servizio.»

«Mai sottovalutare il potere dell’opinione pubblica e la volontà dei capoccia di assecondarla» disse Baxter, con disprezzo.

«Sembra che a lei non faccia piacere che sia tornato.»

Baxter non rispose.

«Non fa una gran bella pubblicità alla polizia, no?» continuò Edmunds. «Lasciare che se la cavi così a buon mercato.»

«A buon mercato?» sbottò Baxter, incredula.

«Be’, non è mica andato in prigione.»

«Sarebbe stato meglio per lui se ci fosse finito. Gli avvocati, per salvare la faccia, hanno fatto pressione per mandarlo in ospedale. Immagino che sia stato più facile così, per loro. Dicevano che lo stress di quel caso aveva causato una reazione ’in completa contraddizione con il carattere del soggetto’...»

«E quante volte uno deve fare una cosa in contraddizione con il proprio carattere perché finalmente si capisca che non c’è contraddizione affatto?» la interruppe Edmunds.

Baxter ignorò la sua osservazione.

«Dicevano che aveva bisogno di cure per quello che, stando all’avvocato della difesa, era un disturbo latente antipersonale... No, da personalità antisociale.»

«E lei non crede che l’avesse?»

«Di certo non quando è entrato in ospedale. Ma se la gente continua a dirti che sei pazzo e a riempirti di pillole, alla fine non puoi fare a meno di chiederti se non abbia ragione» sospirò Baxter. «Quindi, per rispondere alla tua domanda: un anno al St Ann’s Hospital, degradato, reputazione in pezzi e le carte del divorzio ad aspettarlo nella cassetta della posta. Come vedi Wolf non se l’è certo cavata a buon mercato.»

«Sua moglie l’ha lasciato anche se poi è risultato che aveva sempre avuto ragione?»

«Che ti devo dire, è una stronza.»

«La conosceva?»

«Hai presente la giornalista con i capelli rossi di prima, sulla scena del crimine?»

«Era lei?»

«Andrea. Si era fatta delle strane idee su di noi.»

«Pensava che andaste a letto insieme?»

«E che altro?»

«Ma... non era vero?»

Edmunds trattenne il fiato. Sapeva di aver appena oltrepassato d’un balzo il delicato confine su cui aveva camminato fino a quel momento. La conversazione era terminata.

Baxter ignorò quella domanda invadente e il motore ruggì quando lei accelerò lungo la superstrada a due corsie, fiancheggiate da file d’alberi, che conduceva alla prigione.

«Cosa vuol dire, ’è morto’?» urlò Baxter a Davies, il direttore della prigione.

Era scattata in piedi, mentre Edmunds e il direttore rimasero seduti alla grande scrivania che dominava l’ufficio spoglio.

L’uomo fece una smorfia, sorseggiando un caffè bollente. Era solito arrivare presto al lavoro, ma la mezz’ora persa aveva rovinato la sua routine. «Detective Baxter, sono le autorità locali ad avere il compito di trasmettere informazioni di questo tipo al vostro dipartimento. Non è nostra abitudine...»

«Ma...» provò a interromperlo lei.

Il direttore proseguì in tono ancor più fermo: «Il prigioniero Khalid sì è ammalato nella sua cella d’isolamento ed è stato spostato in infermeria. È poi stato trasferito al Queen Elizabeth Hospital».

«Ammalato di cosa?»

Il direttore inforcò un paio di occhiali da lettura e aprì l’incartamento sulla sua scrivania.

«Il referto dice: ’nausea e fiato corto’. È stato trasferito al reparto di terapia intensiva del Queen Elizabeth alle venti perché ’non rispondeva alla terapia e la saturazione dell’ossigeno precipitava nonostante la somministrazione di O₂’. Non so cosa voglia dire, ma forse voi due sì.»

Il direttore alzò lo sguardo e vide Baxter e Edmunds annuire. Quando riabbassò gli occhi, i due si scambiarono un’occhiata divertita.

«La polizia locale era fissa di guardia, ventiquattro ore su ventiquattro, fuori dalla sua camera, anche se è stato un eccesso di ottimismo di ben ventun ore, visto che alle ventitré era morto.» Il direttore chiuse il fascicolo e si tolse gli occhiali. «Temo che questo sia tutto ciò che posso dirvi. Dovrete parlare direttamente con l’ospedale per saperne di più. Ora, se non c’è altro che posso fare per voi...»

Bevve un altro doloroso sorso del caffè ustionante e poi spinse la tazzina fuori portata prima di farsi altro male.

Baxter e Edmunds si alzarono per andarsene. Edmunds sorrise e porse la mano al direttore.

«Grazie per averci concesso il suo tempo e...» cominciò a dire.

«Per ora basterà» disse secca Baxter, uscendo dall’ufficio.

Edmunds, in imbarazzo, ritirò la mano e si affrettò a seguirla, lasciando che la porta si chiudesse alle sue spalle.

Appena prima che la serratura scattasse, Baxter rientrò precipitosa nell’ufficio con un’ultima domanda.

«Merda, quasi mi dimenticavo. Quando Khalid ha lasciato la prigione, siete sicuri al cento per cento che avesse ancora la testa attaccata?»

Il direttore fece un cenno d’assenso, stupefatto.

«Grazie.»

La sala riunioni della Omicidi risuonava della canzone Good Vibrations dei Beach Boys. Da sempre, Wolf trovava più facile lavorare con la musica accesa ed era ancora abbastanza presto da poterla ascoltare a tutto volume senza disturbare troppi colleghi.

Ora indossava una camicia bianca stropicciata, chinos blu scuro e l’unico paio di scarpe che aveva. Le Loake Oxford fatte a mano erano state un acquisto stravagante e costoso per lui, ma allo stesso tempo il più sensato che avesse mai fatto. Ricordava solo vagamente, ormai, come si sentiva prima di comprarle, quasi zoppo dopo diciannove ore di turno, costretto a rimettere i piedi in scarpe scomode dopo poche ore di sonno.

Alzò ancora il volume, senza notare il display del cellulare che si illuminava sul tavolo accanto. Era da solo in una stanza che poteva contenere tranquillamente trenta persone, utilizzata così di rado che, un anno dopo la ristrutturazione, c’era ancora l’odore di moquette nuova. Un pannello di vetro opacizzato correva lungo tutta una parete, oscurando la vista sull’ufficio principale che c’era dietro.

Prese un’altra fotografia dalla scrivania, canticchiando stonato, e ballando si avvicinò al grosso tabellone che fronteggiava la stanza. Dopo aver infilzato con una puntina l’ultima fotografia, fece qualche passo indietro per ammirare la propria opera: ingrandimenti delle diverse parti del corpo si sovrapponevano per creare due enormi versioni di quella terrificante sagoma, una visione frontale e una da dietro. Fissò nuovamente quel volto cereo, sperando di avere ragione, di poter dormire un po’ meglio sapendo che Khalid era finalmente morto. Sfortunatamente, Baxter non aveva ancora richiamato per confermare i suoi sospetti.

«’Ngiorno» disse una voce familiare alle sue spalle, con un forte accento scozzese. Wolf smise immediatamente di ballare e spense la radio quando il detective Finlay Shaw, il poliziotto della Omicidi con la maggior anzianità di servizio, entrò nella stanza. Era un uomo tranquillo eppure intimidatorio, che odorava costantemente di sigaretta. Aveva cinquantanove anni, il volto segnato dal tempo e un naso che era stato rotto in più di un’occasione e mai rimesso a posto come si doveva.

Un po’ come Baxter aveva ereditato Edmunds, fare da babysitter a Wolf dal suo rientro in servizio era stato il compito principale di Finlay. Avevano un accordo non scritto secondo il quale Finlay, che era prossimo alla pensione, avrebbe lasciato che il collega più giovane si incaricasse della maggior parte del lavoro, purché firmasse le carte di sorveglianza di Wolf ogni settimana.

«Hai due piedi sinistri, ragazzo» gracchiò Finlay.

«Be’, sono più bravo a cantare che a ballare» disse Wolf, sorridendo, «lo sai.»

«No, non lo sei. E comunque mi riferivo a...» Finlay si avvicinò al tabellone e puntò il dito sull’ultima fotografia appesa da Wolf. «A questo: due piedi sinistri.»

«Eh?» Wolf sfogliò la pila di fotografie della scena del crimine e trovò quella corretta. «Sai, faccio cose come questa di tanto in tanto, per farti sentire ancora utile.»

Finlay sorrise. «Come no.»

Wolf sostituì la fotografia e poi i due uomini osservarono quell’orripilante collage.

«Negli anni Settanta mi è capitato un caso un po’ simile a questo: Charles Tenyson» disse Finlay.

Wolf fece spallucce.

«Ci lasciava pezzi di cadavere, una gamba qua, una mano là. All’inizio sembrava tutto casuale, ma non lo era. Ogni pezzo di corpo aveva un elemento identificante. Voleva che sapessimo chi aveva ucciso.»

Wolf si avvicinò e indicò il tabellone.

«Abbiamo un anello alla mano sinistra e la cicatrice di un’operazione sulla gamba destra. Non molto.»

«Avremo altro» osservò piatto Finlay. «Uno che non lascia nemmeno una goccia di sangue in un massacro come questo non lascia un anello per errore.»

Wolf premiò Finlay per le sue osservazioni stimolanti e intelligenti sbadigliandogli in faccia.

«Vado a prenderti un caffè? Tanto devo fumare una sigaretta» disse Finlay. «Latte e due cucchiaini di zucchero, giusto?»

«Com’è possibile che tu non abbia ancora imparato?» gli chiese Wolf mentre Finlay si affrettava verso la porta. «Ultrabollente, doppio, macchiato con sciroppo al caramello senza zucchero.»

«Latte e due cucchiaini» urlò Finlay lasciando la sala riunioni. Uscendo per poco non andò a sbattere contro la comandante Vanita.

Wolf riconobbe la minuta donna indiana dalle sue regolari apparizioni in tv. La donna era stata presente anche a uno degli innumerevoli colloqui di valutazione cui lui era stato sottoposto prima di essere riammesso in servizio. Se ricordava bene, lei era contraria all’idea.

Avrebbe dovuto accorgersi del suo arrivo, visto che sembrava sempre appena uscita da un cartone animato. La mise di quel mattino consisteva in un blazer viola acceso inspiegabilmente abbinato a un paio di pantaloni arancione vivace.

Cercò di nascondersi dietro il tabellone, ma non fece in tempo.

La donna si fermò sulla soglia per parlare con lui.

«Buongiorno, detective.»

«’Ngiorno.»

«Sembra di essere da un fiorista, qui dentro» disse lei.

Wolf guardò confuso il collage di immagini macabre che dominava la parete. Solo quando si voltò di nuovo si rese conto che lei stava indicando l’ufficio principale, dove troneggiavano decine di mazzi di fiori, sparsi su scrivanie e armadietti.

«Ah, quelli. È tutta la settimana che arrivano di continuo. Credo che siano per il caso Muniz. Mi sa che tutta la comunità ha mandato dei fiori, a quanto pare» le spiegò.

«È bello essere apprezzati una volta tanto» disse Vanita. «Sto cercando il tuo capo. Non è in ufficio.»

Il telefono di Wolf iniziò a vibrare sonoramente sul tavolo. Guardò il nome sul display e rifiutò la chiamata.

«Posso aiutarla io?» chiese, senza intenderlo veramente.

Vanita fece un debole sorriso.

«Temo di no. La stampa ci sta facendo a pezzi, là fuori. Il commissario vuole che gestiamo la cosa.»

«Credevo che questo fosse il suo, di lavoro» disse Wolf.

Vanita rise. «Non ci penso nemmeno ad andar lì fuori, non oggi.»

Notarono entrambi Simmons che tornava in ufficio.

«La merda da spalare scende e non sale, Fawkes, lo sai bene.»

«Come vedi, ho le mani legate. Devi andar tu là fuori e parlare con quegli avvoltoi al posto mio» disse Simmons, con sincerità quasi credibile.

Nemmeno due minuti dopo che la comandante se n’era andata, Wolf era stato convocato nell’ufficio angusto dell’ispettore capo. La stanza era a malapena di quattro metri quadrati. C’erano una scrivania, un piccolo televisore, uno scaffale metallico arrugginito, due sedie girevoli e uno sgabello in plastica (nel caso lì dentro si assiepasse una folla). Wolf riteneva che fosse un pessimo incentivo da esibire alla forza lavoro: il vicolo cieco in cima alla scalata.

«Io?» chiese Wolf, dubbioso.

«Certo. La stampa ti adora. Sei William Fawkes!»

Wolf sospirò. «C’è qualcuno più in basso nella catena alimentare su cui posso scaricare questa cosa?»

«Mi sembra di aver visto l’uomo delle pulizie nel cesso dei maschi, ma secondo me è meglio se te ne occupi tu.»

«E va bene» disse Wolf digrignando i denti.

Il telefono sulla scrivania squillò. Wolf si alzò in piedi mentre Simmons rispondeva, ma fu fermato dalla sua mano alzata.

«Fawkes è qui con me, ti metto in vivavoce.»

La voce di Edmunds era a malapena udibile, con il rombo del motore. Wolf non poté fare a meno di solidarizzare con lui. Sapeva per esperienza che la guida di Baxter era terrificante.

«Stiamo andando al Queen Elizabeth Hospital. Khalid è stato trasferito lì in terapia intensiva una settimana fa.»

«Vivo?» abbaiò Simmons, irritato.

«Lo era» replicò Edmunds.

«E adesso?»

«Morto.»

«E la testa?» gridò Simmons, sempre più frustrato.

«Le faremo sapere.»

«Fantastico.» Simmons chiuse la chiamata e scosse il capo. Alzò gli occhi su Wolf. «Ti aspettano, lì fuori. Di’ che abbiamo sei vittime. Tanto questo lo sanno già. Assicura che stiamo procedendo all’identificazione e contatteremo le famiglie prima di rendere pubblici i nomi. Non dire niente sui pezzi cuciti insieme. Né del tuo appartamento.»

Wolf fece un saluto sarcastico e lasciò l’ufficio. Chiuse la porta dietro di sé e vide Finlay che si avvicinava con due tazze di carta.

«Giusto in tempo» disse Wolf dall’altra parte dell’ufficio, che adesso si stava riempiendo di colleghi che iniziavano il turno di giorno. Era facile dimenticarsi che, mentre i casi di alto profilo eclissavano le vite di coloro che ne erano coinvolti, il resto del mondo andava avanti: gente che ammazzava altra gente, stupratori e ladri ancora in libertà.

Passando accanto a un tavolo con cinque grossi mazzi di fiori, Finlay arricciò il naso. Wolf vide i suoi occhi inumidirsi quando si avvicinò. A un passo da Wolf, Finlay starnutì violentemente ed entrambe le tazze di caffè caddero a terra, rovesciandosi sulla moquette già sporca di suo. Wolf ne fu devastato.

«’Sti accidenti di fiori!» ringhiò Finlay. Sua moglie gli aveva proibito di dire le parolacce quando era nato il primo nipotino. «Vado a prendertene un altro.»

Wolf stava per dirgli di non preoccuparsi quando un fattorino interno sbucò dall’ascensore con un altro mucchio di fiori tra le braccia. Finlay sembrava sul punto di sferrargli un cazzotto.

«Tutto bene? Ho dei fiori per una certa Emily Baxter» annunciò il ragazzotto trasandato.

«Fantastico» borbottò Finlay.

«Sarà ormai il quinto o sesto mazzo che arriva per lei. Dev’essere una bella ragazza, eh?» chiese sfacciatamente il fattorino, cogliendo di sorpresa Wolf con quella domanda inappropriata.

«Ummmm... è, be’, lei è...» balbettò Wolf.

«Non giudichiamo le colleghe da quel punto di vista, qui» intervenne Finlay, vedendo il suo amico in difficoltà.

«Dipende da...» Wolf guardò Finlay.

«Cioè, certo che lo è» sbottò Finlay, spazientendosi per la piega presa dalla conversazione. «Ma...»

«Credo che ognuno di noi sia unico e bello a suo modo» terminò Wolf, saggiamente.

Lui e Finlay si scambiarono un cenno d’assenso, contenti di essersene usciti con eleganza da una domanda potenzialmente imbarazzante.

«Ma lui non farebbe mai...» assicurò Finlay al fattorino.

«No, io? Mai» confermò Wolf.

L’uomo li fissò istupidito. «Ok, come volete voi.»

«Wolf!» urlò un’agente donna dall’altra parte della stanza, offrendogli la scusa per lasciare Finlay da solo con il loro visitatore. La donna gli porse un telefono. «C’è tua moglie in linea, dice che è importante.»

«Siamo divorziati.»

«Sarà, ma è comunque al telefono.»

Wolf afferrò la cornetta proprio mentre Simmons usciva dall’ufficio, vedendolo ancora lì.

«Ho detto fuori, Fawkes!»

Wolf era esasperato.

«Dille che la richiamo» chiese alla collega, poi prese l’ascensore, pregando che la sua ex moglie non fosse tra la folla di giornalisti che stava per affrontare.