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Venerdì 11 luglio 2014
Ore 12.52
Baxter gettò un’occhiata allo specchietto retrovisore. Ashley era seduta, nervosa, sul sedile posteriore e osservava le strade affollate che stavano percorrendo con una lentezza straziante.
Baxter aveva chiesto a Finlay di guidare, cosa che sembrava averlo sconvolto più di qualsiasi altro evento in quella che era già stata, da qualsiasi punto di vista, una giornata sconvolgente. Lui aveva imboccato il percorso più assurdo per attraversare la città e le ci voleva tutto il suo autocontrollo per non lamentarsene mentre il semaforo temporaneo scattò per lasciar passare altre due auto, e non di più, accanto al cratere che era stato scavato nel centro della città.
Baxter aveva rifiutato di parlare con Edmunds, men che meno mettersi in macchina con lui per un viaggio di due ore. Se lo immaginava in ufficio, a malapena capace di nascondere quel suo stupido sorrisino soddisfatto mentre ficcava il naso negli affari di Wolf, raccogliendo prove da usare contro di lui.
A quanto sembrava, Wolf non era a casa quando la squadra tattica era arrivata al suo palazzo e aveva abbattuto a forza la porta del suo squallido appartamento. Mentre rimanevano fermi nell’ennesima coda che Finlay era riuscito a scovare a loro beneficio, una squadra di colleghi stava mettendo a ferro e fuoco l’appartamento di Wolf, aprendo gli scatoloni che lui aveva lasciato a impolverarsi sin dal trasloco.
Ad Ashley erano state fornite solo le informazioni essenziali. Lei disse di non aver idea di dove potesse trovarsi Wolf in quel momento e di non sapere nulla della sua sospensione dalla polizia. Essendo l’ultima persona ad aver visto Wolf, Baxter non ebbe altra scelta che raccontare la loro ultima conversazione; tuttavia, decise di omettere il pugno in faccia, sapendo che quel dettaglio irrilevante avrebbe soltanto provocato ulteriori domande, e lei non era dell’umore di rispondere.
Avevano prelevato Ashley alle dodici e un quarto e dovevano incontrarsi con Simmons all’una e mezzo nel parcheggio del Wembley Stadium. Lei lo aveva già chiamato per avvisarlo che erano in ritardo. Nessuna delle due donne aveva detto una sola parola all’altra e perfino Finlay si doveva sforzare per mantenere il suo caratteristico buonumore e impedire che nell’abitacolo calasse un silenzio glaciale.
Baxter si sentiva esposta. Erano fermi sulla stessa strada da almeno dieci minuti, mentre i pedoni attraversavano di continuo tra le auto in fila, alcuni a pochi centimetri dalla loro passeggera in pericolo. Quando tre auto (due legalmente, l’altra una BMW) superarono il semaforo, Baxter finalmente capì dove si trovavano.
«Che cosa ci facciamo a Soho?» chiese.
«Me l’hai chiesto tu di guidare.»
«Sì, ma pensavo che le parole ’nella giusta direzione’ fossero sottintese.»
«E tu che strada avresti fatto, allora?»
«Shoreditch, Pentonville, Regent’s Park.»
«Ci sono lavori attorno a King’s Cross.»
«Ah, meno male allora che li abbiamo evitati, rischiavamo di rimanere in coda.»
Ci fu il bip di un messaggio in arrivo e Ashley controllò di nascosto il telefono.
«Ma che...? Dovevano togliertelo!» esclamò Baxter.
Sporse la mano impaziente, mentre Ashley digitava frettolosa la risposta.
«Adesso!» sbottò Baxter.
Ashley spense il telefono e glielo passò. Baxter tolse la batteria e la sim, poi lo infilò nello scomparto del cruscotto.
«Dimmi una cosa, perché rischiamo il culo per nasconderti e tu stai lì a giocherellare con il telefono?»
«Ha capito il messaggio» disse Finlay.
«Già che ci sei, perché non ti fai un bel selfie davanti alla casa sicura quando arrivi e lo posti su Facebook?»
«Ha capito, Emily!»
L’auto dietro di loro suonò il clacson e Finlay alzò lo sguardo scoprendo che le due macchine davanti a lui erano scomparse. Avanzò fino al semaforo rosso, all’incrocio dominato dall’imponente Palace Theatre.
«Quella è Shaftesbury Avenue?» chiese Baxter, sconvolta. «Ma in quale universo secondo te questa sarebbe la strada più veloce per...»
La portiera sbatté.
Baxter e Finlay si voltarono di scatto e videro il sedile posteriore vuoto. Baxter spalancò la sua portiera e si lanciò all’inseguimento. Vide Ashley farsi largo tra un gruppo di turisti con zaini tutti uguali e sparire dietro l’angolo di Shaftesbury Avenue. Le corse dietro. Finlay passò col rosso, riuscendo a evitare per un pelo lo scontro con un’auto che proveniva dalla direzione opposta. Imprecò per la prima volta dopo anni e fu costretto a fare retromarcia.
Ashley prese la prima strada a sinistra. Quando Baxter raggiunse l’angolo, lei era già corsa a destra, passando sotto l’arco di Paifang che segnava l’ingresso a Chinatown. Baxter arrivò al cancello. Colonne rosse e oro sostenevano un tetto verde, alto sulla strada. Aveva perso di vista Ashley, che aveva rallentato il passo sapendo che così si sarebbe mescolata tra la folla infinita che vagava nello stretto viale di negozi e ristoranti.
«Polizia!» urlò Baxter, sfoderando il distintivo.
Iniziò a lottare controcorrente, spintonando i turisti distratti che passavano sotto la rete di lanterne rosse, sospese fino all’orizzonte. I padroni dei negozi ridevano e si urlavano parole incomprensibili, musiche diverse dissonavano uscendo dalle porte aperte dei piccoli locali take-away e odori inusuali riempivano l’aria inquinata di Londra mentre lei si insinuava tortuosamente tra le bancarelle. Se non fosse riuscita ad avvistare Ashley entro pochi secondi, sapeva che l’avrebbe persa del tutto.
Individuò un cestino di metallo accanto a un lampione, dipinti entrambi di rosso per abbinarsi all’arco. Si arrampicò sopra il cestino, guadagnandosi strane occhiate dalla folla, e scrutò nel mare di teste. Ashley era circa venti metri avanti a lei, camminava rasente le vetrine verso l’altro arco Paifang e l’O’Neill’s pub che demarcava il ritorno alla realtà.
Baxter saltò giù e cominciò a correre verso l’uscita, prendendo a spallate la gente per liberarsi la strada, e d’un tratto riuscì ad avvistare Ashley. Era a cinque metri quando Ashley oltrepassò l’arco e un’auto sconosciuta si fermò con stridore di freni davanti a lei. Ashley corse in strada e salì dal lato passeggero. Chi c’era alla guida vide Baxter avvicinarsi e accelerò al massimo. Baxter riuscì ad appoggiare una mano al finestrino del guidatore mentre l’auto scodava violentemente e si allontanava, sfrecciando su Shaftesbury Avenue.
«Wolf!» urlò disperata.
Lui l’aveva guardata negli occhi.
Ripeté il numero di targa una, due, tre volte, per sincerarsi di averlo memorizzato. Aveva il respiro affannato. Prese il telefono e chiamò Finlay.
Dalla sua postazione nell’ufficio principale, Edmunds udì la reazione scomposta di Vanita alla notizia del rapimento volontario di Ashley Lochlan, poi la comandante trascinò lui e Simmons di nuovo nella sala riunioni per informarli del recente sviluppo. Edmunds si era dato da fare a esaminare uno a uno gli scatoloni delle prove, e Simmons stava passando al setaccio il traffico telefonico di Wolf degli ultimi due anni.
«È sicura che fosse Wolf?» chiese Edmunds, confuso.
«Sicurissima» rispose Vanita. «Abbiamo segnalato il numero di targa con la massima priorità.»
«Dobbiamo tenere per noi questa storia» disse Simmons.
«Concordo» disse Vanita.
«Ma il pubblico potrebbe aiutarci a trovarli. Non abbiamo la minima idea di dove la stia portando» osservò Edmunds. «Ashley è in pericolo.»
«Questo non lo sappiamo per certo» disse Vanita.
«No» la corresse Edmunds. «Casomai, non abbiamo ancora delle prove schiaccianti contro di lui, ma sappiamo che c’è lui dietro.»
«Devi darti una svegliata, Edmunds» lo rimbrottò Simmons. «Lo immagini o no il casino che verrebbe fuori se annunciassimo che il detective incaricato del caso è in realtà quello che l’ha organizzato dietro le quinte? E poi lasciamo che se ne vada via con il prossimo obiettivo come bottino!»
Vanita annuì, pensierosa.
«Ma...» iniziò a dire Edmunds.
«Un po’ di diplomazia è quello che ci serve in situazioni come questa, e io per primo non ho intenzione di perdere il lavoro per una cosa come questa, non finché non siamo sicuri oltre ogni ragionevole dubbio che Fawkes sia colpevole» gli disse Simmons. «E anche a quel punto, ci sarà tempo e modo per lasciar trapelare i dettagli di ciò che è successo.»
Edmunds era disgustato. Uscì senza voltarsi dalla sala riunioni, sbattendo la porta alle sue spalle, così forte che le crepe nel vetro generate dalla sua stessa testa la mattina precedente si allargarono.
«Ben fatto. Mi fa piacere vedere che dentro di te, da qualche parte, c’è ancora un dirigente» disse Vanita. «Forse, una volta superata questa fase guardie e ladri che ti sta prendendo la testa, avrai ancora qualche speranza.»
Edmunds spalancò la porta del bagno dei maschi e prese a calci il cestino di metallo per tutto il pavimento di piastrelle, furioso. Aveva voglia di ridere e di piangere allo stesso tempo. L’ironia della situazione non gli sfuggiva: Wolf era protetto dalla stessa burocrazia egoista, politica e paracula che li aveva fatti finire in quella situazione. Se voleva avere la minima speranza di convincere i suoi superiori ad agire, doveva trovare prove incontrovertibili della colpevolezza di Wolf.
Doveva entrare nella mente di Wolf com’era prima che lui iniziasse a coprirsi le spalle, prima che riprendesse a pensare con chiarezza. Doveva ritornare al suo momento di maggiore vulnerabilità.
Baxter e Finlay parcheggiarono a South Mimms, alla periferia della città. Avevano riassemblato il cellulare di Ashley, scoprendo che la donna aveva comunicato via sms a Wolf ogni loro movimento. L’unico messaggio in arrivo da parte di Wolf diceva semplicemente:
Wardour Street. Corri.
Erano ritornati all’appartamento di Ashley in cerca di qualsiasi indizio che rivelasse dove stavano andando, tornando però a mani vuote. Poi, mentre rientravano a New Scotland Yard, avevano ricevuto una telefonata. La società che gestiva la sicurezza dei posteggi aveva contattato la polizia quando il loro sistema automatico di riconoscimento delle targhe aveva individuato quella appena segnalata con urgenza dalla polizia.
La malconcia Ford Escort era stata lasciata aperta e a secco, suggerendo che Wolf non avesse intenzione di tornare a recuperarla. I filmati delle telecamere di sicurezza erano inutili: mostravano i due abbandonare l’auto e sparire, presumibilmente per cambiare mezzo di trasporto. Adesso Wolf aveva un vantaggio di quattro ore su di loro.
«Ma questo come rientra nella brillante teoria di Edmunds?» chiese Baxter mentre riattraversavano a piedi il parcheggio.
«Non lo so» disse Finlay.
«Non ci rientra, punto. Lei ha scelto di scappare con lui di sua volontà. Ha scelto volontariamente di cambiare auto qui con lui. Sta cercando di salvarla, non di ucciderla!»
«Immagino che lo scopriremo quando lo troveremo.»
Baxter rise all’ingenuità di Finlay.
«C’è un solo problema: non lo troveremo mai.»
Edmunds rilesse per l’ennesima volta i poster del servizio sanitario nazionale appesi a casaccio sulla bacheca, mentre attendeva davanti alla finestrella della reception all’ingresso del St Ann’s Hospital. Alzava lo sguardo speranzoso ogni volta che uno degli impiegati, vestiti casual e non in camice, entrava o usciva dalle porte di sicurezza. Stava iniziando ad avere dubbi sulla sua stessa idea, non sapeva più cosa aspettarsi da quel viaggio di cinque ore, andata e ritorno.
«Detective Edmunds?» disse finalmente una donna dall’aria stanca.
Lo fece entrare e lo precedette in un labirinto di corridoi smunti, fermandosi soltanto per passare il tesserino nel lettore ogni volta che una porta bloccava il passaggio.
«Sono la dottoressa Sym, uno dei primari SASM dell’ospedale» disse la donna, troppo velocemente perché Edmunds riuscisse anche solo ad annotare quell’ammasso di lettere senza senso. La dottoressa sfogliò le carte che aveva in mano, ne prese un paio e le lasciò cadere nella buca della posta di un collega. «Aveva delle domande da farmi su uno dei nostri...»
La donna vide qualcuno con cui aveva urgente bisogno di parlare. «Mi scusi un attimo» disse, poi corse lungo il corridoio lasciando Edmunds in piedi davanti all’ingresso della sala ricreazione. Da vero gentiluomo, lui aprì la porta per far passare una signora anziana, che uscì distratta senza degnarlo di un’occhiata. Edmunds ne approfittò per sbirciare all’interno. Per la maggior parte, gli occupanti della stanza erano seduti davanti al televisore, che trasmetteva qualcosa a un volume assordante. Un uomo, in uno scatto d’ira, scagliò dall’altra parte della sala una racchettina da ping-pong e un altro era fermo a leggere accanto alla finestra.
«Detective!» lo richiamò preoccupata la donna dal fondo del corridoio.
Edmunds lasciò che la porta si chiudesse e la raggiunse.
«Fermiamoci nell’ala residenziale mentre andiamo verso il mio ufficio» disse. «Poi le procuro il fascicolo di Joel.»
Edmunds smise di camminare. «Joel?»
«Joel Shepard» disse lei spazientita, prima di rendersi conto che Edmunds non le aveva mai detto il nome del paziente di cui voleva parlare con lei.
«Joel Shepard?» ripeté Edmunds, per memorizzarlo. Riconosceva quel nome, l’aveva visto in uno dei casi d’archivio esaminati da Wolf. Ma l’aveva scartato non ritenendolo correlato all’investigazione.
«Mi perdoni» disse la dottoressa, arrossendo e strofinandosi gli occhi stanchi. «Presumevo che fosse qui per la sua morte.»
«No, no» disse rapido Edmunds. «Scusi, non sono stato chiaro io. Mi dica di Joel Shepard.»
La dottoressa era troppo esausta per accorgersi che Edmunds aveva cambiato idea al volo.
«Joel era un giovane molto disturbato, ma per lo più dolce.»
Edmunds tirò fuori il taccuino.
«Soffriva di paranoia acuta, comportamenti schizofrenici e allucinazioni» gli spiegò, aprendo la porta della vecchia camera di Joel. «Ma vista la sua storia passata, non era sorprendente.»
«Me la può ricordare, per cortesia?» chiese Edmunds.
La dottoressa sospirò.
«La sorella di Joel è morta... È stata uccisa, in modo brutale. Lui, per vendetta, ha fatto a pezzi i responsabili. Dal male nasce il male.»
La camera non era occupata. Le pareti erano state rimbiancate, eppure l’ombra inquietante delle croci scure traspariva dalla vernice fresca. Alcune scritte scavavano il pavimento sotto i loro piedi e il lato interno della porta era pieno di profonde incisioni.
«A volte non riusciamo a ripulire del tutto le tracce che i nostri pazienti più problematici si lasciano dietro» disse triste la dottoressa. «Siamo pieni al limite, ma questa camera la dobbiamo lasciare vuota perché ovviamente non possiamo metterci nessuno qui dentro.»
La stanza era fredda, l’aria stantia e pesante. Edmunds scoprì di non voler trascorrere nemmeno un istante più del necessario dal lato sbagliato di quella porta.
«Com’è morto?» chiese.
«Suicidio. Overdose. Non sarebbe dovuto accadere. Come può immaginare, controlliamo ogni pillola che distribuiamo qui. Ancora non siamo riusciti a capire come abbia fatto a metterne insieme a sufficienza da...» Si bloccò, rendendosi conto che stava riflettendo a voce alta.
«Come giustificava gli omicidi?» chiese Edmunds, passando la mano sulla croce più grossa.
«Non lo faceva. Non direttamente. Joel aveva la convinzione che un demone, forse perfino Satana in persona, avesse reclamato le loro anime per conto suo.»
«Un demone?»
«Me l’ha chiesto lei» disse la donna, facendo spallucce. «Le sue allucinazioni erano totali, pervasive. Era irrevocabilmente convinto di aver stretto un patto col diavolo e che fosse soltanto questione di tempo prima che Satana venisse a riscuotere il debito.»
«E cioè?»
«La sua anima, detective» rispose lei, controllando l’orologio. «Faustiano, vero?»
«Faustiano?» chiese Edmunds, cercando di ricordare dove altro avesse udito quell’espressione.
«Come nella storia: Robert Johnson si incammina su una strada polverosa, con nient’altro che i vestiti e una vecchia chitarra...»
Edmunds annuì, cogliendo il riferimento. Sapeva che la sua mente gli stava giocando brutti scherzi, ma molte delle croci sbiadite adesso sembravano più scure rispetto a quando erano entrati.
«Già che sono qui, potrei vedere la vecchia camera di William Fawkes?» chiese in tono casuale, spostandosi verso la porta nella fretta di andarsene.
La dottoressa fu palesemente sorpresa dalla richiesta. «Non vedo cos’abbia a che...»
«Un minuto solo» insistette Edmunds.
«E va bene» sbuffò lei, adirata. Lo precedette lungo il corridoio e poi aprì la porta di un’altra stanza imbiancata. Sui pochi mobili essenziali erano sparsi vestiti e oggetti personali. «Come le ho detto, siamo pieni.»
Edmunds fece il giro della camera, esaminando il pavimento per poi chinarsi, appoggiare la fronte a terra e spiare sotto il letto di metallo. Si raddrizzò, si avvicinò alla parete spoglia e iniziò a passare le mani metodicamente sulla vernice bianca e immacolata.
La dottoressa parve a disagio. «Posso chiederle cosa sta cercando?»
«Le tracce che non riuscite a ripulire del tutto» borbottò Edmunds. Salì in piedi sul letto per esaminare la parete posteriore.
«Ogni volta che una camera si libera, facciamo un rapporto completo dei danni. Se avesse lasciato dietro qualcosa, l’avremmo scoperto.»
Edmunds spostò il letto rumorosamente sul pavimento e si chinò per scrutare lo spazio lasciato libero, in cerca di qualche traccia invisibile di Wolf. Le sue dita scovarono una serie di dentellature che prima erano coperte dal letto.
«Penna?» chiese, rifiutandosi di distogliere lo sguardo per paura di non ritrovare il punto esatto.
La dottoressa si avvicinò e gli porse una penna prelevandola dal taschino del camice. Edmunds gliela strappò di mano e iniziò a tratteggiare la zona interessata.
«Detective, mi scusi!»
Forme scure apparvero dal nulla: lettere, parole. Alla fine, lasciò cadere la penna, si sedette sul bordo del letto e prese il telefono.
«Che cos’è?» chiese la donna, preoccupata.
«Dovrete trovare un altro posto a questo paziente.»
«Come le ho già spiegato...»
Edmunds non la lasciò finire. «Ho bisogno che chiuda questa porta e mi garantisca che non verrà aperta da nessuno e per nessuna ragione fino a che non arriva la Scientifica, sono stato chiaro?»
Wolf e Ashley erano all’ultimo chilometro dei loro seicentocinquanta chilometri di viaggio. Si erano fermati solo per cambiare la Ford Escort con l’anonimo furgone che Wolf aveva lasciato nel parcheggio durante la notte. Era stato un modo rumoroso e scomodo per risalire il Paese, ma per sole trecento sterline li aveva portati dove dovevano arrivare, e con ben venti minuti di anticipo. Parcheggiarono in un’area di sosta temporanea davanti al terminal e corsero nell’ingresso principale dell’aeroporto di Glasgow.
La radio aveva blaterato incessantemente in sottofondo per sette ore di fila. C’erano parecchie discussioni sull’imminente omicidio di Ashley, e una sala scommesse del centro era stata costretta a scusarsi dopo che era stato rivelato che accettava scommesse sull’ora in cui il cuore di Ashley avrebbe cessato di battere.
«Bastardi» aveva riso Ashley, sorprendendo un’altra volta Wolf con il suo atteggiamento coraggioso.
Lo stesso servizio era stato mandato in onda a ripetizione, e Wolf faceva una smorfia di sofferenza ogni volta che era costretto a rivivere il momento in cui Andrew Ford impattava contro il terreno sottostante. Un’intervista esclusiva con la «migliore amica» di Ashley l’aveva sorpresa, soprattutto perché non aveva idea di chi fosse quella donna. Wolf fu lieto di sentire che i notiziari le escogitavano tutte per riempire le trasmissioni, voleva dire che la polizia non aveva ancora reso nota la sua fuga con la prossima vittima.
Scommettendo che i suoi colleghi non avessero ancora diramato un’allerta a tutti gli aeroporti e i porti, aveva parlato con il capo della sicurezza aeroportuale dieci minuti prima e, come richiesto, l’uomo attendeva il loro arrivo quando entrarono nel terminal alle otto e venti di sera.
Era un bell’uomo di colore sui quarantacinque anni e indossava un completo elegante con un badge della sicurezza appeso al taschino come un accessorio scelto con cura. Wolf notò che, con buonsenso, l’uomo aveva piazzato due guardie armate nei paraggi a seguito di quella insolita telefonata.
«Ah, detective Fawkes, è proprio lei. Non ne ero sicuro» disse l’uomo, stringendogli la mano con una presa sicura. «Karlus DeCosta, capo della sicurezza.»
DeCosta si rivolse ad Ashley, porgendole la mano.
«E la signorina Lochlan, naturalmente.» La sua espressione trasmetteva partecipazione per la difficile situazione attuale. «Come posso esservi d’aiuto?»
«C’è un aereo che parte per Dubai tra diciassette minuti» disse Wolf, brusco. «Ho bisogno che lei ci salga.»
Se DeCosta fu sorpreso dalla richiesta, non lo diede a vedere.
«Ha il passaporto?» chiese ad Ashley.
Lei lo prese dalla borsa e glielo passò. Nonostante il tempo a disposizione fosse breve, lui lo ispezionò con professionalità.
«Venga con me» disse poi.
Superarono i controlli di sicurezza e fermarono uno dei veicoli elettrici per accelerare il passaggio attraverso il gate. Una voce femminile robotica annunciò l’ultima chiamata del volo per Dubai dagli altoparlanti.
DeCosta, che sembrava abituato a quelle richieste d’emergenza, svoltò all’improvviso a destra e fece salire il veicolo su un tappeto mobile. Wolf lo ritenne esagerato, visto che l’altro aveva già comunicato via radio al gate di non chiudere fino al loro arrivo. Tuttavia, sembrava divertirsi.
«C’è un aereo che parte per Melbourne due ore dopo l’atterraggio a Dubai» disse Wolf ad Ashley, a bassa voce.
«Melbourne?» chiese lei, colpita. «È questo il tuo piano? Andare in vacanza? No. Non posso. E Jordan, cosa ne sarà di lui? E mia madre? Non mi hai lasciato chiamarla, ci sono tutte quelle cose che dicono i telegiornali e...»
«Devi continuare a muoverti.»
Ashley sembrava disperata, ma dopo un istante assentì.
«Non dovremmo dirlo a Karlus?» chiese, indicando la loro scorta, che adesso si sporgeva dal veicolo come l’eroe di un film d’azione mentre procedevano sul tappeto mobile.
«No. Chiamo io, prima che atterri. Nessuno tranne noi due deve sapere dove stai andando» disse Wolf. «Quando scenderai dall’aereo a Melbourne saranno le 5.25 del mattino. Domenica mattina. Sarai salva.»
«Grazie.»
«Quando arrivi, vai dritta al consolato generale e dichiara la tua identità.» Wolf prese la sua mano delicata e scrisse un numero di telefono sul dorso. «Fammi solo sapere che ce l’hai fatta.»
Arrivarono al gate pochi minuti prima del decollo. DeCosta andò a parlare con il personale, mentre Wolf e Ashley scesero. Si guardarono.
«Vieni con me» disse lei.
Wolf scosse il capo. «Non posso.»
Ashley si aspettava quella risposta. Si avvicinò, si strinse a lui e chiuse gli occhi.
«Signorina Lochlan» la chiamò DeCosta dal banco del controllo biglietti. «Deve salire adesso.»
Ashley fece un timido sorriso a Wolf e si voltò.
«A dopo, Fawkes» gli disse.
«A dopo, Lochlan.»
Quando lei fu a bordo, DeCosta chiuse il gate e richiese alla torre di controllo di dare priorità al decollo dell’aereo. Wolf lo ringraziò per l’aiuto e gli disse di rimanere dov’era. Se la sarebbe cavata da solo con i controlli. Il suo passaporto era ancora infilato dentro la tasca interna della giacca. Non sapeva nemmeno perché l’avesse preso. Aveva soltanto reso più difficile rifiutare l’offerta di Ashley quando lei, prevedibilmente, gli aveva chiesto di fuggire insieme finché poteva, scappare dal caos che lo aspettava di ritorno a Londra.
Osservò con malinconia l’aereo di Ashley prendere posizione sulla pista, ruggire sull’asfalto e poi innalzarsi nel cielo colorato della sera, lontano dal pericolo, lontano da lui.