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Giovedì 3 luglio 2014

Ore 15.20

Wolf dovette prendere l’Overground fino al commissariato di Peckham Rye, cosa che gli parve uno sforzo eccessivo. Per premiarsi, comprò un cappuccino doppio ultrabollente con sciroppo senza zucchero, ma poi sentì la propria mascolinità precipitare sotto i tacchi quando l’uomo dietro di lui ordinò semplicemente un caffè.

Si rimise in cammino verso un agglomerato di tre palazzoni popolari che svettavano orgogliosi su tutto il quartiere circostante, indifferenti o beatamente inconsapevoli del fatto che tutti gli altri abitanti li consideravano una bruttura tutt’altro che benaccetta e che se ne avessero avuto anche la minima occasione li avrebbero rasi al suolo senza pensarci due volte. Per lo meno, gli architetti che avevano progettato quelle mostruosità avevano deciso di intonacarli in «grigio cielo di Londra», cioè un colore spento, deprimente e da smog che però li rendeva invisibili per il novanta per cento del tempo.

Wolf si avvicinò a quello denominato «Shakespeare Tower», convinto che lo scrittore l’avrebbe considerato tutt’altro che un onore, e sospirò quando si trovò immerso in uno spettacolo di colori e suoni fin troppo familiare. Ad almeno una decina di finestre erano appese bandiere con la croce di san Giorgio, a dichiarare sempiterna fedeltà alla nazione, o meglio a undici giocatori di calcio che certamente li avrebbero delusi. Un cane, forse uno Staffordshire bull terrier o un pastore tedesco, abbaiava incessantemente dal balcone di un metro quadro in cui era stato rinchiuso, accanto a una schiera di indumenti intimi dall’aria putrescente esposti in bella vista ad asciugare sotto la pioggia, come una sorta di opera d’arte contemporanea.

Qualcuno avrebbe potuto accusarlo di essere bigotto o classista, ma solo qualcuno che non avesse trascorso metà della carriera a lavorare in edifici identici sparsi per tutta la città. Sentiva di esserselo guadagnato, il diritto di detestarli.

Avvicinandosi all’ingresso principale, udì delle grida provenire dal retro del palazzo. Fece il giro attorno e fu sorpreso di incontrare un uomo dall’aria sporca, con addosso soltanto una vestaglia e delle mutande, appeso a un balcone sopra di lui. Due poliziotti stavano cercando invano di farlo rientrare, mentre parecchi vicini si erano avventurati sui propri balconi, con il cellulare pronto a riprendere nel caso fossero stati tanto fortunati da vederlo cadere. Wolf osservò divertito quella scena assurda, finché una dei vicini in pigiama lo riconobbe.

«Tu non sei mica quel detective della televisione?» gli urlò dall’alto, con voce roca.

Wolf ignorò quella ficcanaso. L’uomo appeso al balcone d’improvviso smise di urlare e abbassò lo sguardo su di lui, che stava sorseggiando il caffè con nonchalance.

«Andrew Ford, presumo?» disse Wolf.

«Detective Fawkes?» chiese Ford, con un accento irlandese.

«Già.»

«Devo parlarle.»

«Va bene.»

«Non qui. Venga su.»

«Va bene.»

Wolf si diresse con indifferenza verso l’ingresso principale, mentre Ford scavalcava goffamente la ringhiera. Quando fu salito, Wolf incontrò un’attraente poliziotta asiatica davanti alla porta.

«Come siamo contenti di vederla» gli disse.

Quando parlò, Wolf notò uno spazio vuoto nel suo sorriso e sentì la rabbia montargli dentro.

«È stato lui a farle quello?» disse, indicandosi la bocca.

«Non l’ha fatto apposta. Si stava dimenando, avrei dovuto lasciarlo fare. Stupida io.»

«Un po’ instabile per essere una guardia giurata, eh?»

«È da un anno che non lavora. Adesso non fa altro che bere e lamentarsi.»

«Dove lavorava?»

«Da Debenhams, credo.»

«Cosa vuole da me?»

«Dice che la conosce.»

Wolf si sorprese. «Probabilmente l’ho arrestato.»

«Probabilmente.»

L’agente fece entrare Wolf nell’appartamento pieno di cianfrusaglie. Dvd e riviste sparsi sul pavimento del corridoio, la camera da letto che sembrava una discarica. Entrarono nell’angusto salotto, disseminato ovunque di bottiglie di vodka e lattine di birra lager extra forte. L’unico divano era nascosto sotto un piumino coperto di bruciature di sigaretta, e nell’aria c’era un sentore di vomito, sudore, cenere e spazzatura.

Andrew Ford aveva quasi dieci anni meno di lui, eppure sembrava molto più vecchio. I suoi capelli arruffati spuntavano in ciocche sul cranio aggredito dalla calvizie. Era mal proporzionato, scheletrico ma con una piccola e definita pancia da birra, e la sua pelle aveva un colorito giallastro e malsano. Wolf gli fece un cenno di saluto. Non aveva alcuna intenzione di toccarlo, nemmeno per stringergli la mano, tanto era sporco.

«Detective della Metropolitan Police, incaricato delle indagini sul caso Ragdoll, detective William Oliver Layton-Fawkes» recitò Ford eccitato, facendogli un breve applauso. «Ma è Wolf, giusto? Nome figo. Un lupo fra gli agnelli, vero?»

«O i maiali» disse Wolf, rude, guardandosi attorno in quella stanza rivoltante.

Ford parve sul punto di scagliarglisi addosso, ma poi invece scoppiò a ridere.

«Perché sei un poliziotto, capisco» disse, senza aver capito.

«Volevi parlare con me?» chiese Wolf, augurandosi che Baxter volesse incaricarsi personalmente anche di lui.

«Non con tutti questi...» Urlò le parole seguenti: «Questi maiali attorno!»

Wolf fece un cenno col mento ai due poliziotti, che uscirono dalla stanza.

«Siamo compagni d’armi, io e te, vero?» disse Ford. «Due cittadini al servizio della legge.»

Wolf ritenne che fosse un po’ un’esagerazione che l’altro si definisse «cittadino al servizio della legge», ma lasciò correre. Tuttavia, stava perdendo la pazienza.

«Di cosa mi devi parlare?» chiese.

«Io voglio aiutarti, Wolf.» Ford inclinò la testa all’indietro e ululò forte.

«Non mi stai aiutando per niente.»

«Ti sei perso qualcosa» disse Ford, l’aria furba. «Qualcosa di importante.»

Wolf attese che l’altro continuasse.

«Io so qualcosa che tu non sai» canticchiò Ford, in modo infantile, godendosi quell’inusuale momento di potere.

«La bella poliziotta a cui hai staccato un dente...»

«L’indiana?» disse Ford, con un gesto di disprezzo.

«Ha detto che mi conosci.»

«Oh, sì che ti conosco, Wolf, ma tu non ti ricordi affatto di me, vero?»

«Dammi un indizio.»

«Abbiamo trascorso quarantasei giorni nella stessa stanza, ma non abbiamo mai parlato.»

«Ok» disse Wolf, incerto, sperando che i due agenti non si fossero allontanati troppo.

«Non ho sempre lavorato al grande magazzino. Un tempo ero qualcuno.»

Wolf non ricordava nulla.

«E vedo che hai ancora indosso qualcosa che ti ho dato io.»

Wolf si guardò la camicia e i pantaloni, confuso. Si frugò le tasche, osservò l’orologio al polso.

«Fuochino!»

Wolf sollevò la manica della camicia, esponendo le grandi ustioni al braccio sinistro e l’orologio digitale. Era un modello economico che sua madre gli aveva regalato a Natale.

«Fuoco! Fuoco!»

Wolf rimosse l’orologio rivelando il resto della sottile cicatrice bianca che gli correva attorno al polso.

«L’agente di sicurezza del tribunale?» chiese Wolf, a denti stretti.

Ford non rispose subito. Agitato, si strofinò il volto e andò in cucina a prendere una bottiglia di vodka.

«Così mi sminuisci» replicò alla fine, simulando offesa. «Io sono Andrew Ford, l’uomo che ha salvato la vita al Cremation Killer!»

Arrabbiato, bevve direttamente dalla bottiglia, e il liquido gli colò sul mento.

«Se non fossi stato così eroico da tirarti via da lui, non sarebbe sopravvissuto. E non avrebbe ucciso l’altra ragazza. Che santo che sono, eh? Ecco cosa voglio che scrivano sulla mia tomba. Santo Andrew, assistente infanticida.»

Ford iniziò a piangere. Si lasciò cadere come un ammasso di carne molle sul divano, tirandosi addosso il disgustoso piumino e rovesciando sul pavimento un posacenere pieno che era in precario equilibrio sul bracciolo.

«Ecco, adesso è chiaro. Manda via i maiali. Non voglio essere salvato. Volevo soltanto dirtelo... per aiutarti.»

Wolf fissò il relitto umano che aveva di fronte, lo vide bere un’altra sorsata di vodka e accendere la televisione. La sigla di una trasmissione per bambini risuonò potente alle spalle di Wolf mentre usciva.

Andrea osservò in un silenzio stupefatto il suo cameraman, Rory, vestito come il capitano di un’astronave, decapitare un alieno (che assomigliava in modo sospetto al suo amico Sam) con un Pulse-Bō (un bastone coperto di carta argentata). Un ammasso di schiuma verde esplose dal moncone, mentre il resto del corpo, in un eccesso di recitazione, impiegava un’eternità a smettere di muoversi.

Rory mise in pausa.

«Che ne pensi?»

Rory aveva circa trentacinque anni ma si vestiva come un adolescente trasandato. Era un po’ sovrappeso, aveva una folta barba rossiccia e un volto amichevole.

«Il sangue era verde» disse Andrea, ancora lievemente scossa dalla violenza del filmato. Era stato girato a basso costo, ma era efficace.

«Era un Kruutar... Un alieno.»

«Giusto. Lo capisco. Ma Emily ha bisogno di vedere del sangue rosso se vogliamo convincerla a farlo.»

Andrea aveva chiesto a Baxter e Garland di vedersi allo studio di registrazione di Rory, la StarElf Pictures – in realtà, un garage sul retro della stazione della metropolitana di Brockley. Anche se in modo non collegato al piano discusso la sera prima, lei, Garland, Rory e il suo coproduttore/attore/migliore amico Sam stavano discutendo del miglior modo di simulare la morte di una persona, in attesa dell’arrivo di Baxter.

Dopo aver osservato una ventina di scene del catalogo della StarElf, avevano raggiunto la conclusione che gli sbudellamenti erano problematici, le decapitazioni erano realistiche ma forse un po’ eccessive e che le esplosioni a volte non andavano per il verso giusto (l’alluce di Sam, in mostra dentro un vasetto sopra la consolle di regia, lo testimoniava). Fu deciso che un semplice proiettile al petto sarebbe stato la cosa migliore.

Baxter, affannata, arrivò finalmente, con quaranta minuti di ritardo, e non fu affatto colpita quando trovò Rory e Sam a sprecare tempo provando la scena dello sparo per compiacere Garland. Dopo un buon quarto d’ora di discussione, con Garland che minacciò parecchie volte di gestirsela da solo, Baxter controvoglia accettò di smetterla di urlare quanto bastava per ascoltarli. Ispezionò l’ambiente con aria sospettosa e Garland capì che era comprensibilmente scettica riguardo alla competenza della StarElf. Per fortuna, non aveva ancora notato la bottiglietta con l’alluce.

«So che ha delle riserve, ma possiamo farcela» disse Rory con entusiasmo, mentre preparava la presentazione. Si erano incrociati di sfuggita cinque giorni prima, quando Baxter aveva accidentalmente presentato la sua telecamera all’asfalto di Kentish Town. Per fortuna Rory non era tipo da risentimenti e sembrava sinceramente eccitato all’idea di quell’incarico clandestino.

Lui e Sam spiegarono con fervore che l’effetto incredibilmente realistico utilizzato nei film di tutto il mondo poteva essere ottenuto nascondendo un sacchettino sottile (di solito un preservativo) pieno di sangue finto sotto il vestito della vittima. Un piccolo esplosivo, chiamato in gergo «petardo», che aveva il preoccupante aspetto di un candelotto di dinamite in miniatura, veniva attaccato dietro il sacchettino per far esplodere il sangue verso l’esterno. Avrebbero usato la pila di un orologio per fornire la corrente all’innesco, alimentato da una trasmittente progettata dallo stesso Rory. Infine, tra l’esplosivo e la pelle bisognava indossare una spessa cinta di gomma per proteggersi da ustioni e schegge.

Mentre Andrea usciva a fare una telefonata, Rory borbottò qualcosa sul saldare la Glock 22 che voleva usare per sparare a Garland, e con fare casuale gli porse la pesante arma come se fosse un sacchetto di patatine. Garland parve a disagio, mentre in modo del tutto inesperto esaminava la pistola, e Baxter fece una smorfia quando lo vide puntare innocentemente l’occhio dentro la canna.

«Sembra vera» disse Garland, facendo spallucce.

«Perché lo è» sorrise Rory. «Sono le pallottole a essere false.»

Rovesciò una manciata di proiettili a salve nel palmo di Garland.

«Cartucce riempite con polvere da sparo, per generare il flash dalla canna e lo scoppio, ma senza il proiettile sopra.»

«Ma dalle pistole di scena tolgono il percussore, giusto?» chiese Baxter, chinandosi istintivamente quando Garland agitò distratto l’arma nella sua direzione.

«Di solito sì» disse Rory, evitando di rispondere alla vera domanda.

«E da questa?» insistette Baxter.

«No, da questa no.»

Baxter si prese la testa fra le mani.

«È del tutto legale» disse Rory, sulla difensiva. «Ho il porto d’armi. Sappiamo quello che facciamo. Non c’è pericolo. Guardi...»

Si voltò verso Sam, che stava sistemando una delle videocamere.

«Stai riprendendo?» gli chiese.

«Sì?» disse Sam, preoccupato.

Senza avvertimento, Rory tolse la sicura e tirò il grilletto. Ci fu un’esplosione assordante e uno schizzo di sangue rosso scuro fuoriuscì dal petto di Sam. Andrea entrò di corsa. Baxter e Garland fissarono orripilati la chiazza di sangue che si allargava. Sam scagliò a terra il cacciavite e fissò Rory, furioso.

«Dovevo cambiarmi la maglietta, prima. Idiota» disse, e poi ritornò a sistemare la videocamera.

«È stato incredibile!» esclamò Garland.

Guardarono tutti Baxter, colmi d’aspettativa, ma l’espressione della poliziotta rimase decisamente impassibile.

Si voltò verso Garland. «Possiamo uscire a parlare un minuto?»

Baxter aprì l’auto così che potessero conferire in privato. Spazzò sul tappetino lo sporco del sedile anteriore.

«Voglio essere chiara una volta per tutte» iniziò a dire. «Non esiste che simuliamo la tua morte. È la cosa più stupida che abbia mai sentito in vita mia.»

«Ma...»

«Ti ho detto che ho un piano.»

«Ma non...»

«Ci stiamo già fidando fin troppo di questa gente. Riesci a immaginare cosa succederebbe se si venisse a sapere che la Metropolitan Police si è ridotta a fingere la morte delle persone per tenerle vive?»

«Dove ’tenerle vive’ è la parte importante della frase» disse Garland, che iniziava ad agitarsi. «Stai pensando solo come poliziotta.»

«Ma io sono una poliziotta!»

«La vita è mia, la decisione è mia.»

«Io non lo faccio» disse Baxter, «e questa è la mia risposta definitiva. Se non vuoi il mio aiuto, bene. Ma ho un piano, e ti sto chiedendo di fidarti di me.»

Fece una smorfia, sconvolta dalle parole che le erano appena uscite di bocca. Garland parve altrettanto sorpreso. Non essendo tipo da lasciarsi sfuggire un’opportunità di approccio, benché scaturita dal suo possibile futuro omicidio, allungò la mano verso quella di Baxter.

«Va bene... Mi fido di te» disse, poi emise un patetico lamento quando Baxter gli storse il polso.

«Ok, ok!» singhiozzò, finché lei lo lasciò andare. «Andiamo a cena?» chiese poi, per nulla turbato.

«Te l’ho detto, non sei il mio tipo.»

«Non ti piacciono quelli di successo? Determinati? Belli?»

«No, non mi piacciono i morituri» disse Baxter con un ghigno, osservando l’espressione soddisfatta dell’altro andare in pezzi.

Di norma non avrebbe mai tollerato le sue viscide avance, ma dopo il disastroso tentativo fallito di sedurre Wolf la sera prima doveva ammettere che quelle attenzioni la lusingavano.

«Ma sarebbe un’ottima rete di sicurezza nel caso tu non volessi un secondo appuntamento» disse Garland, riprendendo prontamente la propria sicurezza.

«Immagino di sì» disse Baxter.

«Quindi è un sì?» chiese Garland, speranzoso.

«No» rispose lei con un sorriso.

«Ma non è nemmeno un no, vero?»

Baxter ci pensò su un istante. «No.»

Un riflettore torreggiava dall’alto proiettando una finta luce lunare sugli archivi sotterranei, apparentemente infiniti, disegnando lunghe ombre su file e file di scaffali metallici, ombre che sporgevano come dita dall’oscurità negli stretti corridoi. Edmunds aveva completamente perso il senso del tempo. Seduto a gambe incrociate sul duro pavimento del magazzino, leggeva incartamento dopo incartamento. Sparsi attorno a lui c’erano i contenuti dei sette scatoloni di prove sulla sua lista: fotografie, campioni di DNA, dichiarazioni di testimoni.

Dato che Baxter e Wolf erano impegnati a fare altro, lui ne aveva approfittato per fare visita al magazzino dell’archivio centrale, situato in un edificio di sicurezza ai margini di Watford. Ci avevano messo cinque lunghi e duri anni, ma alla fine l’inconcepibile impresa di scansionare, registrare e fotografare ogni rapporto conservato dalla Metropolitan Police era stato portato a termine. Ma le prove fisiche dovevano comunque essere conservate.

Mentre gli oggetti relativi a crimini minori potevano essere restituiti alle famiglie, oppure distrutti dopo un lasso di tempo stabilito dalla corte, tutte le prove concernenti omicidi o crimini gravi venivano conservate per un tempo indefinito. Dapprima venivano archiviate presso il commissariato di competenza, in funzione della disponibilità di spazio e risorse, per poi essere trasferite agli archivi, sotto sicurezza e a temperatura controllata. Spesso venivano riaperti dei casi quando spuntavano nuove prove o venivano presentate richieste d’appello, oppure quando un avanzamento tecnologico rivelava qualcosa di nuovo. Di fatto, quei souvenir di morte venivano preservati tanto a lungo da sopravvivere alle persone coinvolte.

Edmunds stiracchiò le braccia e sbadigliò. Un paio d’ore prima aveva udito un’altra persona muoversi lì dentro con un carrello, ma adesso era da solo nell’enorme magazzino. Rimise a posto con cura le prove dentro la scatola, non avendo trovato nessun collegamento tra quella vittima decapitata e gli omicidi della Ragdoll. Risistemò la scatola sullo scaffale e depennò quel caso dalla sua lista. Solo in quel momento si rese conto dell’ora: le diciannove e quarantasette. Imprecando ad alta voce, si incamminò a passo svelto verso l’uscita, che era lontana.

Dopo che ebbe passato i controlli, gli restituirono il cellulare e, salendo le scale fino al pianterreno, scoprì di avere cinque chiamate perse da parte di Tia. Doveva riportare la macchina di servizio a New Scotland Yard e passare dall’ufficio prima di poter anche solo pensare di tornare a casa. Chiamò il numero di Tia e si fece forza, temendo la sua reazione.

Wolf stava per terminare la seconda pinta di Estrella, seduto davanti al Dog & Fox lungo la via centrale di Wimbledon. Era l’unica persona che aveva avuto il coraggio di sfidare l’aria fredda rimanendo ai tavoli esterni, specialmente ora che una nube minacciosa si stagliava sopra di lui, ma non voleva correre il rischio di non vedere Baxter mentre tornava a casa, nel suo bell’appartamento dall’altra parte della strada.

Alle otto e dieci vide la sua Audi nera sfiorare un pedone all’angolo, per poi parcheggiare lungo il marciapiedi. Abbandonò l’avanzo di birra ormai tiepido e iniziò ad avvicinarsi. Era a dieci metri da lei quando Baxter scese dall’auto ridendo. Poi si aprì la portiera del passeggero e scese un uomo che Wolf non riconobbe.

«Ci dev’essere un posto qui che venda lumache, quindi io lo faccio» disse l’uomo.

«In teoria l’idea non è farti vomitare il tuo ultimo pasto» disse Baxter con un sorrisetto.

«Mi rifiuto di andarmene senza prima essermi messo in bocca un mollusco sporco, viscido e disgustoso.»

Baxter aprì il bagagliaio, prese le sue borse e poi chiuse l’auto. Wolf li vide avvicinarsi a lui e, presentendo una situazione potenzialmente imbarazzante, andò in panico e si accovacciò dietro una cassetta delle lettere. Baxter e il suo amichetto lo superarono quasi del tutto prima di accorgersi dell’uomo alto che strisciava a terra.

«Wolf?» chiese Baxter, incredula.

Wolf si rialzò con nonchalance e sorrise, come se fosse il loro modo abituale di vedersi.

«Ciao» disse, per poi porgere la mano all’uomo vestito elegante. «Wolf. O Will.»

«Jarred» disse Garland, stringendogliela.

Wolf parve sorpreso. «Ah, sei...»

Lasciò cadere la domanda quando notò l’espressione impaziente di Baxter.

«Che cosa ci facevi qui? E perché ti nascondevi?»

«Non volevo creare imbarazzi» borbottò Wolf, indicando Garland.

«E adesso non ce ne sono?» disse lei, arrossendo. «Puoi darci un attimo?» chiese a Garland, che si allontanò di qualche passo lungo la strada.

«Volevo scusarmi per ieri sera e stamattina e, be’, per tutto, in realtà» disse Wolf. «Ho pensato che magari potevamo andare a mangiare qualcosa, ma mi sa che hai già dei... piani.»

«Non è come sembra.»

«Non sembra niente.»

«Bene, perché non è niente.»

«Mi fa piacere.»

«Ti fa piacere?»

Con tutte le cose non dette, quella conversazione stava diventando straziante.

«Meglio che vada» disse Wolf.

«Meglio» replicò Baxter.

Wolf si girò e andò nella direzione opposta, verso la metropolitana, tanto per fuggire. Baxter imprecò sottovoce, arrabbiata con se stessa, e raggiunse Garland in fondo alla via.