12

Martedì 1º luglio 2014

Ore 23.28

L’ultima volta che aveva sentito la squadra della Protezione Testimoni, era ancora bloccata sulla M25. Uno degli agenti di custodia aveva messo il telefono sul bancone così che potessero tutti guardare il servizio della BBC News sull’incidente che aveva causato quel ritardo. A quanto sembrava, un camion si era ribaltato di traverso sulle corsie. Due elicotteri ambulanza erano atterrati sull’autostrada, c’era almeno un morto confermato.

La corrente era ritornata nel braccio delle celle di custodia, che, a mano a mano che il temporale peggiorava, era sembrato sempre più accogliente. Finlay si era riaddormentato seduto su una sedia di plastica. Un agente era a guardia della cella di Rana e gli altri due si scambiavano sguardi esasperati alle spalle di Walker. Erano giunti alla quindicesima ora di servizio su dodici previste e si sentivano prigionieri tanto quanto le persone rinchiuse dentro le celle.

Wolf vagava nei paraggi della porta sul retro, in attesa di Elizabeth. Anche lei era parecchio in ritardo per colpa del temporale senza precedenti. L’ultimo sms che aveva ricevuto da lei diceva che era a cinque minuti di distanza e gli chiedeva di prepararle il tè.

Wolf sbirciò dallo spioncino sulla porta e vide il parcheggio allagato, i tombini intasati che rigettavano acqua sozza e la tempesta che guadagnava forza a ogni istante. Due coni di luce dei fanali di un’auto si mossero con cautela attorno all’angolo, poi il taxi rimase fermo per più di un minuto davanti all’ingresso. Una sagoma scura con una valigetta in mano sbarcò dal sedile posteriore, corse rapida sugli scalini e bussò con urgenza sulla porta di metallo.

«Chi è?» chiese Wolf, non riuscendo a vedere il volto sotto il cappuccio.

«Secondo te?» gli urlò di rimando la voce roca di Elizabeth.

Wolf tirò la porta e fu investito dalla pioggia quasi orizzontale, sospinta da un vento fortissimo, proprio come da previsioni meteo, che fece volare per aria le carte e i poster nella stanza. Ci volle tutta la sua forza per richiuderla.

Elizabeth si tolse il soprabito sgocciolante. Aveva cinquantotto anni e si legava sempre i capelli grigi in una coda. Wolf l’aveva vista indossare gli stessi tre abiti. Ciascuno sembrava essere stato eccessivamente costoso all’epoca dell’acquisto, almeno vent’anni prima, ma adesso appariva consunto e fuori moda. Ogni volta che si incontravano lei aveva smesso per l’ennesima volta di fumare, eppure odorava sempre di sigaretta, e sembrava che si fosse messa il rossetto brillante rosa al buio. Un sorriso caloroso e giallastro spuntò sul suo volto quando alzò lo sguardo su Wolf.

«Liz» disse lui, salutandola.

«Ciao, bellezza» disse lei, gettando il soprabito sulla sedia più vicina per poi abbracciarlo piantandogli due baci sonori sulle guance. Lo tenne stretto per tempo lievemente superiore al normale. Wolf immaginò che lo facesse per trasmettergli la sua preoccupazione materna.

«Che tempo da schifo» disse ai presenti, nel caso non se ne fossero già accorti.

«Vuoi da bere?» le propose Wolf.

«Muoio dalla voglia di un tè, grazie» gli disse con un fare teatrale che avrebbe meritato un pubblico ben più numeroso.

Wolf si allontanò per prepararglielo, lasciando che fossero Walker e i suoi agenti a perquisirla. Si sentiva a disagio all’idea di far subire una perquisizione a una collega che conosceva da tanti anni, un’amica. Così almeno avrebbe dato l’idea di non aver niente a che fare con quel procedimento. Prese più tempo possibile e poi tornò nel braccio di custodia cautelare e trovò Elizabeth che scherzava con Finlay, il quale stava esaminando il contenuto della sua valigetta. Sollevò un accendino istoriato (che lei conservava solo per ragioni sentimentali) e due penne a sfera costose.

«Tutto a posto!» sorrise Finlay.

Chiuse la valigetta e la fece scivolare sul tavolo verso Elizabeth, che bevve il tè tiepido in poche sorsate.

«Allora, dov’è il mio cliente?»

«Ti porto da lui» rispose Wolf.

«Avremo bisogno di un po’ di privacy.»

«Ci sarà qualcuno alla porta.»

«È un colloquio confidenziale, tesoro.»

«Allora meglio che parliate a bassa voce» disse Wolf.

Elizabeth sorrise.

«Sempre lo stesso, eh, Will?»

Erano arrivati davanti alla porta della cella di Rana quando il cellulare di Wolf squillò. L’agente di piantone lasciò passare Elizabeth e poi richiuse la porta. Wolf, soddisfatto, tornò in corridoio per rispondere alla chiamata. Era Simmons, con due notizie. L’avevano appena informato che la squadra della Protezione Testimoni era finalmente riuscita a rimettersi in moto e sarebbe arrivata entro mezz’ora. Poi passò al secondo punto, decisamente più controverso: Wolf e Finlay non avevano il permesso di accompagnare Rana.

«Io vado con loro» disse deciso Wolf.

«Hanno delle procedure rigide da seguire» controbatté Simmons.

«Non me ne frega un... Non possiamo mollarglielo e lasciare che lo portino chissà dove come se niente fosse.»

«Possiamo e dobbiamo.»

«E tu hai accettato queste condizioni?» disse Wolf, mostrando tutta la sua delusione.

«Esatto.»

«Ci parlo io con loro.»

«Non esiste.»

«Sarò educato, giuro. Fammi solo spiegare la situazione. Dammi il numero.»

L’orologio digitale da quattro soldi di Wolf segnò la mezzanotte mentre discuteva con l’uomo a capo della squadra che li stava raggiungendo. Si stava irritando sempre più con quella testa dura che rifiutava di infrangere le regole, quali che fossero le circostanze. Sentendo che avrebbe avuto più soddisfazione affrontandolo faccia a faccia, Wolf lo apostrofò «stronzo» e riappese.

«È un miracolo che tu abbia qualche amico» disse Finlay. Stava guardando le previsioni meteo con Walker e un altro agente.

«Venti a novanta miglia all’ora» li ammonì una voce distorta.

«Quei ragazzi sono ben addestrati» continuò Finlay. «Devi smetterla di fare il maniaco del controllo.»

Wolf stava per dire qualcosa che avrebbe messo a repentaglio una delle poche amicizie che gli rimanevano quando udì l’agente aprire la porta della cella di Rana. Elizabeth uscì in corridoio. Stava ancora rivolgendo un secco saluto al suo cliente quando la porta venne chiusa a chiave. I suoi passi a piedi nudi risuonarono sul pavimento beige (Walker le aveva confiscato le scarpe dal tacco assurdamente alto) mentre percorreva il corridoio. Superò Wolf senza dirgli una parola e prese le sue cose dalla scrivania.

«Liz?» disse lui, confuso da quel repentino cambiamento d’umore. «Va tutto bene?»

«Come no» replicò lei, rimettendosi il soprabito. Mentre armeggiava coi bottoni, le mani presero a tremarle. Poi, con stupore di Wolf, si asciugò delle lacrime dagli occhi. «Vorrei uscire, per favore.»

Si avvicinò alla porta.

«Ti ha detto qualcosa che ti ha sconvolto?» chiese Wolf. Sentiva la rabbia montargli. Provava un istinto di protezione verso quella donna, che doveva vedersela con l’umanità peggiore giorno dopo giorno. Sapeva che aveva la pelle dura, e che quindi ci volevano parole davvero maligne per sconvolgerla.

«Ho le spalle grosse, William» sbottò lei. «La porta. Adesso, per favore.»

Wolf la raggiunse e rimosse la sbarra. Una nuova folata di vento forte e pioggia accompagnò i tuoni in lontananza. Elizabeth fece un passo fuori.

«La valigetta!» disse Wolf, rendendosi conto che doveva averla lasciata nella cella con Rana.

Elizabeth parve terrorizzata.

«Te la prendo io. Non sei costretta a rivederlo.»

«La riprendo domattina.»

«Non essere ridicola.»

«Cristo, Will, lascia perdere!» urlò lei, e poi scese di gran lena gli scalini.

«Che cos’aveva?» chiese Finlay, senza distogliere lo sguardo dal piccolo schermo.

Wolf osservò Elizabeth svoltare l’angolo della via principale. Lentamente, una sensazione d’inquietudine gli pervase il petto. Guardò l’orologio: mezzanotte e sette minuti.

«Apri la porta!» urlò, correndo nel corridoio.

L’agente di piantone, allarmato, fece cadere le chiavi. Walker ebbe il tempo di raggiungerlo. La serratura scattò sonoramente e Wolf diede una spallata alla porta, spalancandola. Rana era seduto sul materasso. Wolf udì Walker emettere un sospiro di sollievo dietro di lui.

E poi un singulto quando guardò bene il prigioniero seduto.

La testa di Rana era abbandonata in avanti, il volto con le ecchimosi blu e viola dei cadaveri, gli occhi iniettati di sangue che strabuzzavano in modo innaturale. Quella che sembrava una corda di pianoforte era stata avvolta parecchie volte attorno al suo collo, tagliandogli la pelle scura. Altra corda da pianoforte sporgeva evidente dalla valigetta, ora che non era più nascosta in piena vista.

«Chiamate un’ambulanza!» gridò Wolf, ripercorrendo a grandi falcate il corridoio per poi uscire all’aperto.

Si lanciò sui gradini scivolosi, calpestò le pozzanghere del parcheggio e svoltò l’angolo, mentre la pioggia torrenziale gli inondava il volto. Erano passati meno di trenta secondi eppure Elizabeth non si vedeva da nessuna parte sul marciapiedi deserto. Corse sfilando accanto a vetrine buie, consapevole di avere lo svantaggio del rumore del temporale. Ogni auto che passava sembrava più un aereo in fase di decollo, con il fragore dell’acqua che le ruote facevano schizzare ovunque. Il rumore di milioni di gocce veniva amplificato dal metallo delle auto che colpivano.

«Elizabeth!» gridò, ma il vento portò via la sua voce.

Scattò lungo un vicolo tra due negozi e si fermò. Ripercorse i suoi passi e rimase al buio all’imboccatura dello stretto passaggio, scrutando nell’oscurità. Si sporse un poco, ascoltando la pioggia colpire bottiglie di vetro, confezioni vuote e altri rifiuti che ingombravano l’asfalto invisibile.

«Elizabeth?» chiamò a bassa voce. Avanzò ancora. Sentiva qualcosa scricchiolare sotto i suoi piedi. «Elizabeth?»

Udì un movimento improvviso e poi si sentì spingere contro la gelida parete di mattoni. Allungò un braccio e riuscì quasi ad afferrarla per i vestiti, ma Elizabeth gli sfuggì e corse in strada.

Wolf emerse pochi secondi dietro di lei, sotto la luce granulosa e arancio di un lampione. Elizabeth reagì con panico e si mise a correre per strada. Una familiare inchiodò scivolando sull’asfalto bagnato e si arrestò a pochi centimetri da lei, suonando furiosamente il clacson nella notte già piena di rumori assordanti. Elizabeth adesso era parecchi metri avanti a lui. Stranamente, prese il cellulare, mentre rallentava il passo, e se lo portò all’orecchio. Wolf la stava raggiungendo rapidamente e vide il sangue e lo sporco che le coprivano le piante dei piedi dopo che aveva corso scalza nelle pozzanghere oleose e nel fango al ciglio della strada. Quando fu a portata d’orecchio, la udì ansimare al telefono.

«L’ho fatto! L’ho fatto!»

Si allungò per prenderla, ma lei di colpo tornò sulla strada. D’istinto la seguì, senza controllare se arrivassero dei veicoli. Elizabeth raggiunse barcollando l’isolotto pedonale nel mezzo dell’ampio viale e inciampò sul bordo. Cadde, si mise carponi sulle ginocchia e sulle mani e vide che Wolf si era fermato in mezzo alla strada. Scorse l’espressione colma di orrore sul suo volto e si girò seguendo il suo sguardo proprio nell’istante in cui l’autobus a due piani la colpiva.

Non ebbe nemmeno il tempo di urlare.

Wolf si avvicinò lentamente alla sagoma contorta che giaceva contro un cordolo a dieci metri di distanza. Udì altre auto frenare dietro di lui, illuminando coi fanali il corpo informe. Sentì le lacrime appannargli la vista. Era troppo traumatizzato ed esausto per chiedersi in quel momento come mai la sua amica avesse fatto quello che aveva fatto.

L’autista del bus, sconvolto, lo raggiunse con passo malfermo mentre gli altri passeggeri fissavano la scena seduti comodi dentro. Sulla sua faccia c’era speranza, speranza che la donna si rimettesse in piedi, che non fosse nemmeno ferita, speranza che la propria vita non fosse appena cambiata per sempre. Wolf non aveva né la voglia di consolarlo né quella di riconoscere la sua presenza. Nessuno poteva biasimarlo per non aver visto una donna a terra in quelle condizioni climatiche, ma era stato lui a porre fine alla vita di Elizabeth, comunque, e Wolf non si fidava della sua capacità di autocontrollo in quelle circostanze.

Quando un’altra auto si mise in coda, illuminò una nuova porzione di asfalto e Wolf notò il telefono di Elizabeth. Era caduto nell’esatto punto in cui lei era stata investita dal bus. Lo raggiunse lentamente e lo girò, scoprendo che la chiamata era ancora in corso. Lo serrò tra le mani e se lo portò all’orecchio. All’altro capo sentì dei fruscii e un respiro calmo.

«Chi sei?» La voce di Wolf si incrinò mentre pronunciava quelle parole.

Non ebbe risposta, ci fu solo il respiro regolare di qualcuno che ascoltava e il rumore di una specie di macchinario industriale in funzione in sottofondo.

«Sono il detective Fawkes della Metropolitan Police. Chi sei?» chiese di nuovo, anche se aveva la sensazione di conoscere già la risposta.

Dei lampeggianti blu erano in avvicinamento, ma Wolf rimase seduto per terra, immobile, ad ascoltare l’assassino che ascoltava lui. Wolf avrebbe voluto minacciarlo, spaventarlo, provocare in qualche modo una reazione, ma sapeva che non sarebbe mai riuscito a trovare le parole per dar voce alla rabbia pura e all’odio cieco che provava in quel momento. Perciò continuò ad ascoltare, ignorando le attività frenetiche attorno a lui. Non sapeva perché avesse rallentato il proprio respiro per sincronizzarlo con quello del killer, ma poco dopo udì un sonoro fruscio statico dall’altra parte e, di colpo, la linea divenne muta.