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Mercoledì 9 luglio 2014
Ore 2.59
L’orologio di Edmunds suonò alle tre di notte in punto. Lui era seduto al centro di una pozza di luce proiettata da una lampadina ronzante appesa al soffitto alto del magazzino centrale. Era la quarta visita agli archivi e si rese conto che iniziava ad apprezzare quelle notti solitarie.
Trovava tranquillizzante la perpetua oscurità e la temperatura controllata dai climatizzatori era piacevole: sufficientemente calda da potersi togliere la giacca ma abbastanza fresca da tenerlo sveglio e attento. Mentre inspirava una boccata d’aria polverosa, osservando le particelle vorticare attorno a sé, si sentì sopraffatto dall’enorme quantità di storia seppellita lì dentro.
Era come un gioco senza fine. Dentro ciascuno delle decine di migliaia di scatoloni c’era un enigma in attesa di essere verificato, se non addirittura risolto per la prima volta. Era più facile concentrarsi sulla sfida che lo attendeva invece che sull’angosciante realtà dei fatti: ognuno di quegli scatoloni rappresentava una vita perduta, altre vite rovinate, e tutto era ordinato in file meticolose, in un rispettoso silenzio, come sepolcri dentro catacombe.
Gli eventi di quel giorno avevano confermato i suoi sospetti oltre ogni dubbio. Ancora una volta, il killer aveva scoperto dove si nascondeva, in teoria al sicuro, il suo obiettivo designato.
Baxter era un’ingenua.
Era vero, qualcuno all’ambasciata poteva aver fatto trapelare la notizia della posizione di Ford; solo che non era un incidente isolato. Era la quarta occasione, ormai, in cui erano stati traditi e, cosa ancor peggiore, nessuno se n’era accorto tranne lui.
Aveva mentito a Tia di nuovo, dicendole che gli era toccata in sorte una sorveglianza pur di assicurarsi un’altra preziosa notte in cui dare la caccia al passato del killer. Lui era lì, da qualche parte in quell’enorme archivio. Edmunds ne era certo. I primi, esitanti passi del mostro che adesso si scagliava contro di loro a piena velocità erano lì.
Lunedì notte era incappato in un caso irrisolto risalente al 2008, in cui un fondamentalista islamico nato e cresciuto in Gran Bretagna era morto dentro una cella di sicurezza. Nessuno risultava essere entrato o uscito dall’edificio nel lasso di tempo attorno all’epoca della morte, e le registrazioni delle telecamere di sicurezza l’avevano confermato. Il corpo di quel ventitreenne in piena salute mostrava segni di soffocamento; tuttavia, non c’erano altre prove a suffragare quell’ipotesi e la morte alla fine era stata attribuita a cause naturali.
Le sue ricerche su Internet avevano fatto emergere anche la morte sospetta di un marine in una base militare. Dopo la promettente identificazione di Joe dell’impronta di uno stivale da soldato, Edmunds aveva presentato formale richiesta scritta alla polizia militare, chiedendo l’intero fascicolo del caso, ma non aveva ancora ottenuto risposta.
Aveva trascorso l’ultima ora esaminando le prove di un omicidio avvenuto nel 2009. L’erede di una multinazionale di elettronica era misteriosamente scomparso dalla suite di un albergo, nonostante le due guardie del corpo che sedevano a meno di sei metri, nella camera adiacente. Sulla scena era presente sangue in quantità sufficiente da dichiarare morto l’uomo, ma il corpo non era mai stato ritrovato. Non c’erano impronte utilizzabili, niente DNA né riprese delle telecamere di sicurezza che consentissero alla polizia anche solo di iniziare la ricerca di un assassino, il che voleva anche dire che non c’era nulla che permettesse a Edmunds di collegare quel caso alla Ragdoll. Si segnò la data e rimise tutto dentro lo scatolone.
L’aria fresca lo spinse ad andare avanti. Non si sentiva per nulla stanco, ma si era ripromesso di andarsene alle tre di notte al massimo e di tornare a casa per dormire almeno un paio d’ore prima di andare al lavoro. Ricontrollò l’elenco di altri cinque casi che aveva sperato di esaminare e sospirò. Si mise in piedi, infilò lo scatolone al suo posto sullo scaffale e iniziò la lunga camminata nel corridoio buio.
Giunto quasi alla fine degli alti scaffali, notò che le date sulle etichette indicavano dicembre 2009, il mese del successivo omicidio sulla sua lista. Abbassò gli occhi sull’orologio: le 3.07.
Un altro e poi basta, si disse, poi individuò lo scatolone che gli interessava e lo prelevò dal ripiano.
Alle 8.27 Wolf entrò in un quartiere tutt’altro che invitante, lungo una strada laterale che si diramava dalla via principale di Plumstead. Aveva rinunciato ancora una volta a dormire, principalmente perché adesso alla lunga lista di ottime ragioni per cui non chiudere mai gli occhi si era aggiunta l’immagine inquietante della maschera da lupo. La dimostrazione di enorme sicurezza di sé del killer l’aveva scosso. Aveva corso un rischio notevole presentandosi all’ambasciata per unirsi alla protesta che lui stesso aveva organizzato. E affrontare Wolf in quel modo era un gesto tanto narcisistico quanto autodistruttivo.
Wolf ricordava che Edmunds aveva detto che il killer non avrebbe resistito alla tentazione di avvicinarsi sempre di più all’indagine a mano a mano che il tempo passava, spinto dal bruciante desiderio di essere, alla fine, catturato. Tuttavia, Wolf si chiedeva se quanto era accaduto davanti all’ambasciata non fosse invece una richiesta d’aiuto dell’assassino, se non fosse stata la disperazione, e non l’arroganza, a muovere le sue azioni.
Salì delle scale infangate, cercando di ricordarsi se avesse piovuto dopo la tempesta della settimana precedente. Giunto al terzo piano, aprì una porta tagliafuoco per entrare in un corridoio dalle pareti ingiallite. Non c’era traccia dei due agenti che in teoria avrebbero dovuto trovarsi appostati davanti alla porta di Ashley Lochlan.
Si avvicinò all’appartamento 16, che sembrava avere l’unica porta ritinteggiata di fresco dell’intero piano, e stava per bussare quando i due agenti spuntarono nel corridoio, con panini e tazze di caffè in mano. Furono entrambi sorpresi di trovarsi davanti l’imponente detective.
«Buongiorno» disse l’agente donna masticando un boccone di pane e pancetta.
Lo stomaco di Wolf gorgogliò.
Lei gli offrì l’altra metà della sua colazione, ma Wolf rifiutò educatamente.
«Sa già quando la trasferiranno?» domandò il collega più giovane.
«Non ancora» disse Wolf, un po’ brusco.
«No, non intendevo quello» si corresse rapidamente l’uomo. «Anzi, a dire il vero intendevo l’esatto contrario. È una ragazza deliziosa. Ne sentiremo la mancanza.»
La sua collega annuì, a confermare l’opinione. Wolf ne fu sorpreso. L’affidabile dotazione di stereotipi che non l’avevano mai tradito l’avevano indotto ad aspettarsi una gattara in pigiama con la sigaretta sempre in bocca dall’altra parte di quella porta, eppure i due poliziotti non avevano alcuna fretta di liberarsene.
«È appena andata sotto la doccia. La faccio entrare io.»
La poliziotta aprì la porta e lo fece entrare in un appartamento ordinato e pulito, che odorava di caffè appena fatto e pancetta. Una corrente d’aria tiepida faceva ondeggiare le tende d’organza sopra i fiori colorati del tavolo in salotto. Il locale arioso era decorato con gusto, con tinte pastello e un parquet naturale dello stesso legno dei mobili. Un’intera parete era coperta di fotografie. Pentole e posate erano disposte ordinatamente ad asciugare accanto al lavello in cucina. Udì lo scroscio dell’acqua nella stanza accanto.
«Ashley!» gridò la poliziotta.
L’acqua si fermò.
«Il detective Fawkes è qui per vederti.»
«È bello come sembra in televisione?» rispose una voce con un lieve accento di Edimburgo.
L’agente parve in imbarazzo e poi addirittura sconvolta quando Ashley proseguì: «Sono d’accordo con te, avrebbe bisogno di darsi una bella lavata prima di essere presentabile...»
«In realtà, sembra sul punto di addormentarsi da un momento all’altro» urlò la poliziotta, interrompendola.
«Allora digli che c’è del caffè in cucina, quando lo fai entrare.»
«Ashley...»
«Sì?»
«È già entrato.»
«Oh. E ha sentito...?»
«Sì.»
«Merda.»
La poliziotta non vedeva l’ora di trarsi d’impiccio per cui sfrecciò via a raggiungere il collega. Wolf udì dei fruscii, uno spray, sportellini che sbattevano dietro la sottile parete che li separava, e intanto cercò di annusarsi, imbarazzato, mentre stava ritto davanti alla parete di fotografie. Erano semplici e autentiche: una bella donna in spiaggia con amici, seduta al parco con un anziano, a Legoland con quello che sembrava essere il figlio piccolo. Sentì il cuore sprofondargli osservando quei due volti radiosi di felicità in quello che evidentemente era stato un giorno perfetto.
«Quello è Jordan. Ha sei anni adesso» disse una voce alle sue spalle, con un accento attraente che sembrava a milioni di chilometri di distanza da quello roco di Finlay.
Wolf si voltò e vide la stessa bellissima donna delle fotografie strizzarsi i capelli in un asciugamano sulla soglia del bagno. Si era appena messa un paio di jeans corti aderenti e un top grigio chiaro. Lo sguardo di Wolf indugiò sulle sue lunghe gambe ancora umide prima di tornare a rivolgersi alle fotografie, imbarazzato.
«Non fare il fesso» sussurrò a se stesso.
«Come?»
«Dicevo, dov’è adesso?»
«A me sembra proprio che abbia detto: ’Non fare il fesso’.»
«No, no.» Wolf scosse il capo, innocente.
Ashley gli diede una strana occhiata.
«L’ho mandato da mia mamma dopo... Be’, dopo che un pazzo serial killer ha minacciato di ucciderci tutti, per essere chiara.»
Wolf si sforzò eroicamente di non fissarle le gambe.
«Ashley» disse lei, porgendogli la mano.
Lui fu costretto dal gesto ad avvicinarsi. Avvertì l’odore dello shampoo alle fragole che aveva appena lavato via dai capelli, notò gli occhi color nocciola chiaro e le chiazze scure del top dove la sua pelle ancora umida aveva bagnato la stoffa leggera.
«Fawkes» disse, dopo averle quasi stritolato la mano delicata con la sua. Fece un passo indietro più velocemente che poté.
«Non William?»
«Non William.»
«Allora può chiamarmi Lochlan» disse lei con un sorriso malizioso, prima di squadrarlo da capo a piedi.
«Che c’è?»
«Niente, è solo che... Lei sembra diverso di persona.»
«Be’, la stampa tende a fotografarmi solo quando mi trovo accanto a un cadavere, quindi... Faccia triste.»
«Non vorrà dirmi che questa invece sarebbe la sua faccia felice?» chiese Ashley, ridendo.
«Questa?» disse Wolf. «No. Questa è la faccia di uno sveglio da una settimana, eroe incompreso, probabilmente l’unica persona abbastanza intelligente e coraggiosa da prendere un serial killer.»
Ashley rise ancora. «Oh, davvero?»
Wolf fece spallucce. Lei lo guardò, intrigata.
«Colazione?» suggerì.
«Cosa c’è di buono?»
«Il miglior caffè del mondo è in fondo alla strada.»
«Uno: il miglior caffè del mondo lo fanno da Sid’s, all’angolo di casa mia. Due: lei è a casa sotto protezione, non se ne può andare.»
«Ma c’è lei a proteggermi» disse Ashley, liquidando la questione, mentre chiudeva le finestre.
Wolf era combattuto. Sapeva di non doverla accontentare, ma gli piaceva la loro conversazione e non voleva fare niente che potesse rovinarla.
«Vado solo a mettermi le scarpe» disse lei, andando verso la camera da letto.
«Anche dei pantaloni, non sarebbe una cattiva idea» suggerì lui.
Ashley si fermò e lo fissò fingendo di essersi offesa. Lo sorprese a guardarle ancora le gambe prima di distogliere gli occhi.
«E perché? Le mie gambe la rendono nervoso?»
«Tutt’altro» rispose Wolf con tono indifferente. «È che non sta per niente bene, un orrore, mica posso portarla fuori con me conciata così.»
Ashley rise ancora. Si avvicinò al porta-abiti, si abbassò il top in modo che le coprisse i fianchi e poi si tolse i pantaloncini. Wolf fu colto troppo alla sprovvista per pensare di guardare altrove. La donna poi infilò un paio di jeans scoloriti aderentissimi e, con un gesto tanto aggraziato quanto rapido, si legò i capelli in una coda arruffata che la faceva apparire ancora più attraente.
«Meglio, così?»
«Non molto» rispose lui, sincero.
Lei sorrise. Non si comportava mai in quel modo, ma la probabilità di avere davanti soltanto tre giorni di vita le rendeva piacevole flirtare con uno che ne aveva davanti solo cinque. Infilò ai piedi un paio di Converse All Star e afferrò le chiavi di casa dal tavolo della cucina.
«Cosa ne pensa delle altezze?» gli chiese a bassa voce.
«Purché non ci sia rischio di cadere...» rispose lui confuso.
Ashley sorrise di nuovo. Passò in punta di piedi davanti alla porta, uscì sul terrazzo e si voltò verso Wolf.
«Andiamo?»
Wolf ebbe l’impressione che Ashley avesse esaltato un po’ troppo quel mesto locale. La pancetta sembrava possedere vita propria, visto che i pezzi scivolavano su tutto il piatto sopra uno strato di unto. Ashley non era nemmeno riuscita a finire il tuo toast. Wolf sospettava che avesse semplicemente voluto una scusa per uscire dall’appartamento e che non fosse mai stata lì dentro prima, perché lui non riteneva possibile che qualcuno sano di mente potesse fare due volte quell’errore.
«Senza offesa, Lochlan, ma questo posto è...»
«Io qui ci lavoro.»
«...ottimo. Davvero ottimo.»
Nel breve tragitto lungo la strada principale avevano attirato parecchie occhiate, anche se Wolf non avrebbe saputo dire se li avevano riconosciuti o semplicemente fissavano Ashley. Avevano scelto un tavolino accanto alla vetrina, il più lontano possibile dagli altri clienti panzuti, e chiacchierarono amabilmente del nulla per più di venti minuti.
«Ero preoccupata per te» si lasciò scappare Ashley. Wolf era ancora convinto che stessero parlando dei loro album dei Bon Jovi preferiti.
«Scusa?»
«Come stai prendendo... tutto questo?»
«Vediamo di chiarirci. Tu dovresti morire fra tre giorni e ti preoccupi di me?» chiese Wolf, cogliendo l’occasione per metter giù le posate.
«Tu dovresti morire tra cinque giorni» disse lei.
Questo lo colse alla sprovvista. Era tanto preso dalle indagini da non essersi reso conto di quanto velocemente si avvicinasse il suo gran giorno.
«Ho guardato un sacco di telegiornali» disse Ashley. «Non c’è molto altro da fare chiusi in quattro stanze. È come guardare un gatto che gioca col topo, e più tu sembri distrutto, più chiunque ci sia dietro a tutto questo sembra prenderti in giro.»
«Non sapevo di sembrare distrutto» scherzò Wolf.
«Lo sembri eccome» rispose Ashley, con semplicità. «Quello che è successo a quelle persone, qualsiasi cosa succederà a me... Non è colpa tua.»
Wolf si lasciò scappare uno sbuffo. Se voleva cercare di farlo sentire meglio, stava sprecando il suo tempo.
«Tu invece sembri assurdamente in pace con te stessa» disse.
«Sono una forte sostenitrice del fato.»
«Non per spezzare l’incantesimo, ma da ciò che ho visto, se anche esiste un Dio non mi pare stia dalla nostra parte.»
«È un bene che io non mi riferisca a Dio, allora. Dico solo che... Le cose hanno uno strano modo di andare a finire.»
«Tipo?»
«Tipo che la vita ti ha portato da me stamattina: due persone che non avrebbero dovuto mai incrociarsi, così che io possa finalmente espiare una cosa che ho fatto anni fa.»
Wolf fu incuriosito. D’istinto, si voltò a controllare che nessuno li stesse ascoltando. Era stato talmente assorto da Ashley che si era quasi dimenticato dov’erano. Quella donna perfetta sembrava mostruosamente fuori posto in un ambiente squallido come quello. Era un’immagine esattamente opposta a quella di Andrew Ford circondato dal lusso dell’ambasciata.
«Promettimi che mi farai finire di parlare prima di... Promettimelo e basta.»
Wolf incrociò le braccia in atteggiamento difensivo e raddrizzò la schiena, appoggiandola allo schienale della sedia. Sapevano entrambi che Edmunds aveva scoperto le cinquemila sterline provenienti dal conto di Vijay Rana.
«Quattro anni fa lavoravo in un pub a Woolwich. Era un periodo difficile per noi. Jordan aveva solo un anno e io stavo cercando di separarmi dal padre, che non era per niente una persona a modo. Potevo solo lavorare part-time, mentre mia mamma si prendeva cura di Jordan.
«Vijay era un cliente abituale. Veniva a pranzo quasi ogni giorno ed eravamo in rapporti amichevoli. In più di un’occasione mi aveva visto piangere perché non avevo soldi o per il divorzio. Era un uomo gentile. Mi lasciava mance da dieci sterline, io cercavo di restituirgliele ma lui voleva aiutarmi. Significava molto per me.»
«Forse voleva qualcosa in più di aiutarti e basta» disse Wolf, amaro. Non provava certo affetto per il fratello di Khalid.
«Non era il tipo. Aveva una famiglia. Ma un giorno è arrivato e mi ha fatto una proposta. Mi ha detto che un suo amico era nei guai con la polizia ma lui era certo che fosse innocente. Mi ha offerto cinquemila sterline per dichiarare di averlo visto andare verso casa a un certo orario di un certo giorno. Tutto qui.»
«Hai testimoniato il falso?» chiese Wolf, scuro in volto.
«Ero disperata. E mi vergogno a dirlo ma sì, ho accettato di farlo. Non credevo che potesse davvero fare la differenza, e poi in quel periodo io e Jordan avevamo quindici sterline al massimo.»
«Ha fatto la differenza, invece. Eccome.»
Wolf aveva perso qualsiasi traccia di compassione per Ashley e ora la guardava con occhi accesi di rabbia.
«È questo il problema. Non appena mi sono resa conto di aver mentito per il caso del Cremation Killer, sono andata in panico.» Ashley aveva gli occhi umidi. «Non avrei aiutato qualcuno accusato di quelle cose, non l’avrei aiutato a uscirne indenne, nemmeno per tutto l’oro del mondo. Sono andata dritta a casa di Vijay, devi credermi, e gli ho detto che non potevo farlo. Gli ho promesso che non avrei parlato di lui, né dei soldi. Avrei soltanto detto di essermi sbagliata.»
«E lui come ha reagito?»
«Ha cercato di convincermi a non farlo, ma credo che avesse capito. Di ritorno a casa, ho chiamato lo studio di avvocati che erano presenti alla mia testimonianza.»
«Collins & Hunter.»
«E mi hanno passato uno dei soci.»
«Michael Gable-Collins?»
«Sì!» rispose Ashley, sorpresa.
La notizia della sua morte non era ancora stata resa pubblica.
«Gli ho detto che dovevo ritrattare la mia dichiarazione, e lui ha iniziato a minacciarmi. Ha elencato i reati di cui ero colpevole: oltraggio alla corte, intralcio delle indagini, forse addirittura complicità in omicidio! Mi ha chiesto se volevo davvero andare in prigione, e quando gli ho detto di Jordan mi ha risposto che i servizi sociali me l’avrebbero tolto.»
Ashley era palesemente scossa dal ricordo di quella conversazione spaventosa e, nonostante tutto, Wolf le porse un fazzoletto.
«Era un caso troppo importante perché gli avvocati lo perdessero, a qualsiasi costo» disse.
«Mi ha detto di ’tener chiusa la mia stupida boccaccia’ e che avrebbe fatto qualsiasi cosa in suo potere per tenermi alla larga dal tribunale. Quella è stata l’ultima cosa che ho sentito di prima persona. Poi ho osservato gli eventi, ho visto cos’hai cercato di fare per fermare quell’uomo che io avevo contribuito a liberare e... E mi dispiace tanto.»
In silenzio, Wolf si alzò dal tavolo, prese il portafogli e lasciò cadere una banconota da dieci sterline accanto al suo piatto ancora mezzo pieno.
«Non è con me che devi scusarti» le disse.
Ashley scoppiò a piangere.
Wolf uscì dal locale, abbandonando in un angolo, da sola, la donna in pericolo che avrebbe dovuto proteggere.