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Mercoledì 2 luglio 2014

Ore 5.43

Karen Holmes attendeva impazientemente il prossimo bollettino del traffico. Non riusciva mai a dormire bene prima di quelle levatacce e in più, durante la notte, era stata svegliata parecchie volte dal forte temporale. Aveva lasciato il suo bungalow a Gloucester quando era ancora buio, trovando il suo bidone della spazzatura nel mezzo della strada e un pezzo dello steccato appoggiato alla portiera dell’auto del vicino. Rimise al suo posto il pesante pannello di legno più silenziosamente che poté e pregò che il suo antipatico vicino di casa non si accorgesse dei nuovi graffi sulla carrozzeria.

Karen detestava la visita mensile agli uffici principali della ditta, nella capitale. I suoi colleghi mettevano alberghi e cene in nota spese, ma lei non aveva nessuno a cui chiedere di curare i suoi cani su base regolare, e il loro benessere era la sua priorità.

Il traffico sull’autostrada iniziava a infittirsi, e gli apparentemente infiniti controlli di velocità con il tutor la costrinsero a rallentare l’andatura, per proteggere chilometri e chilometri di coni di plastica piazzati tanto per dare l’idea che prima o poi, da qualche parte, qualcuno avrebbe forse cominciato dei lavori stradali.

Karen abbassò lo sguardo per regolare la radio, temeva di essersi persa un aggiornamento sul traffico. Quando rialzò gli occhi sulla strada, notò una grossa sacca nera che giaceva in mezzo alle barriere centrali. C’era qualcosa di insolito nelle dimensioni e nella forma. Mentre passava accanto, a circa ottanta chilometri all’ora, le parve di vederla muoversi. Guardando nello specchietto retrovisore, vide solo una Audi che inspiegabilmente aveva deciso di accelerare fin quasi a sfiorarle il paraurti posteriore, per poi superarla a oltre centoquaranta all’ora. O era troppo ricco oppure troppo stupido per preoccuparsi degli autovelox nascosti.

Continuò sull’autostrada, notando che c’era una piazzola di sosta dopo quattro chilometri. Non aveva tempo di fermarsi, anche se fosse stata sicura di aver visto qualcosa, e non lo era affatto. La sacca probabilmente era stata sospinta lì dal vento forte e quando le era passata accanto la corrente creata dalla sua auto l’aveva fatta muovere. Eppure, Karen non riusciva a scacciare la sensazione che ci fosse qualcosa, lì dentro, per via del modo in cui si era spostata.

Entrambi i suoi Staffordshire bull terrier erano trovatelli, rinvenuti insieme, abbandonati a morire in un cassone dei rifiuti. Al solo pensiero, si sentiva male fisicamente. Quando finalmente oltrepassò i lavori, una BMW la superò a oltre centosessanta all’ora e Karen fu sicura che chiunque vi fosse lì dentro non sarebbe rimasto vivo a lungo.

D’un tratto, svoltò e la sua vecchia Fiesta sobbalzò sui dossi stradali, poi si fermò nella rampa d’accesso. Avrebbe ritardato di un quarto d’ora se fosse tornata indietro a controllare. Fece il giro della rotonda e riprese l’autostrada in direzione opposta.

Era difficile ricordare esattamente il punto di quella strada tutta uguale in cui si trovava la sacca, perciò Karen rallentò quando pensò di essere in prossimità. La scorse, più avanti, accese le quattro frecce e accostò nella corsia d’emergenza, fermandosi accanto alla sacca. La osservò per oltre un minuto, sentendosi stupida, si arrabbiò con se stessa: era immobile, solo il passaggio dei veicoli la faceva muovere. Mise la freccia a destra e stava per reimmettersi nel traffico quando di colpo la sacca fece un balzo in avanti.

Il cuore di Karen batteva all’impazzata. Attese una pausa nel traffico, scese dall’auto e attraversò di corsa le tre corsie, poi scavalcò il guard rail. Sentiva le ventate delle altre auto che le sfrecciavano accanto, schizzandola di acqua e sporco. Si chinò ed esitò.

«Fa’ che non siano serpenti, ti prego, i serpenti no» sussurrò.

Quando parlò, la cosa dentro il sacco fece un altro movimento intenzionale verso di lei, e le parve di udire un lamento. Con cautela, afferrò il rivestimento di carta e aprì un piccolo buco da un lato. Lentamente, lo allargò, preoccupata che qualsiasi cosa ci fosse lì dentro potesse scappare e infilarsi nel traffico. Nelle sue condizioni di stress, strappò accidentalmente un lungo pezzo e cadde indietro per l’orrore quando una testa con i capelli biondi e sporchi sbucò sull’asfalto e la donna, legata e imbavagliata, cercò di capire dove si trovasse. Alzò lo sguardo implorante verso Karen e perse conoscenza.

Edmunds aveva un passo allegro mentre superava i controlli a New Scotland Yard. Era arrivato a casa in tempo per riuscire a portar fuori Tia a cena, facendo ammenda per la sera precedente. Si erano entrambi vestiti eleganti e, per un paio d’ore, furono contenti di far finta che uscite come quella fossero d’abitudine. Mangiarono tre portate, Edmunds ordinò perfino una bistecca. L’illusione fu rovinata soltanto dall’irascibile cameriera, che aveva urlato al suo superiore da una parte all’altra del ristorante dicendo che non aveva idea di come far passare in cassa i voucher della Tesco Clubcard.

L’umore di Edmunds era migliorato anche perché aveva finalmente trovato lo smalto giusto. Non era ancora sicuro che sarebbe stata un’informazione utile, ma era un passo importante verso l’identificazione del braccio femminile della Ragdoll. Entrò in ufficio e vide che Baxter era già alla sua scrivania, al lavoro. Fin dall’altra parte della stanza capì che invece il suo umore era pessimo.

«Buongiorno!» provò Edmunds, con un sorriso.

«Che cavolo hai da sorridere?» ribatté lei.

«Una bella serata» disse Edmunds, facendo spallucce.

«Non per Vijay Rana, per niente.»

Edmunds si mise a sedere per ascoltare. «È...»

«Né per una donna che conoscevo da anni e che si chiamava Elizabeth Tate. E nemmeno per Wolf.»

«Wolf sta bene? Che cos’è successo?»

Baxter riassunse a Edmunds gli eventi della notte e la scoperta della ragazza quella mattina.

«La sacca è in mano alla Scientifica, ma quando l’ambulanza è arrivata hanno trovato questa appesa al suo piede.»

Baxter porse a Edmunds una bustina di plastica trasparente contenente un cartellino da piedi dell’obitorio.

«Detective William Fawkes» lesse Edmunds. «Lui lo sa?»

«No» rispose lei. «Wolf e Finlay sono stati svegli tutta la notte. Sono di riposo per il resto della giornata.»

Un’ora dopo un’agente scortò la donna, terrorizzata, dentro l’ufficio affollato. Era stata portata lì direttamente dall’ospedale ed era ancora coperta di sozzura. Aveva la faccia e le braccia piene di tagli e lividi e i suoi capelli sporchi variavano di colore dal biondo ossigenato al nero. Reagiva con allarme a ogni rumore improvviso e ogni voce che non conosceva.

Al dipartimento era già arrivata la notizia dell’identificazione: si trattava di Georgina Tate, la figlia di Elizabeth. A quanto pareva, era mancata al lavoro per due giorni di fila e sua madre aveva chiamato per suo conto adducendo motivi personali per la sua assenza. Nessuna denuncia di scomparsa era stata presentata. Bastavano quelle poche informazioni per capire cos’era successo. Baxter fu sconvolta da quanto fosse facile costringere all’omicidio una donna che lei conosceva bene, una donna forte, piena di risorse e dalla moralità incrollabile.

«Lei non sa ancora nulla» disse Baxter in tono solenne quando Georgina Tate fu portata dentro la sala interrogatori appena rimessa a nuovo.

«Non mi sembra in condizioni di ricevere una notizia simile, no?»

Baxter iniziò a raccogliere le proprie cose.

«Stiamo andando da qualche parte?»

«Noi no» disse Baxter. «Io sì. Senza Wolf e Finlay, indovina un po’ a chi tocca sbrigare le loro faccende? Come se non ne avessi abbastanza di mio. Chi è il numero quattro della lista?»

«Andrew Ford, la guardia giurata» rispose subito Edmunds, sorpreso che lei non se lo ricordasse.

«Un coglione assoluto. Ubriacone. È riuscito a rompere un dente a una collega ieri sera quando lei ha cercato di impedirgli di fare a pezzi tutto.»

«Vengo con te.»

«Me la cavo da sola. E poi devo vedere Jarred Garland, il giornalista, che deve morire tra...» Baxter contò sulle dita, «tre giorni. Ha deciso di trascorrere la sua ultima settimana scrivendo quanto siamo tutti inutili e come ci si sente a essere sulla lista di un serial killer. Mi è stato chiesto di ’calmarlo’ e ’rassicurarlo’.»

«E l’hanno chiesto a te?» domandò Edmunds, incredulo. Per fortuna, Baxter scambiò la sua incredulità per un complimento. «Cosa vuoi che faccia io?»

«Scopri se Georgina Tate ricorda qualcosa di utile. Continua le ricerche sull’anello, dobbiamo scoprire per chi è stato fatto. Vedi se il medico legale ha qualcosa di nuovo per noi. E impossessati del cellulare di Elizabeth Tate non appena la Scientifica lo molla.»

Baxter abbandonò l’ufficio e Edmunds si rese conto di non averle neppure riferito le novità sullo smalto per unghie. Posò il piccolo flacone sulla scrivania, sentendosi stupido per essersi tanto emozionato per un’indagine così banale mentre Wolf era là fuori a dare la caccia a serial killer elusivi, a far consegnare donne rapite in dipartimento e a parlare con le élite criminali. Erano cose orribili, naturalmente, ma dovette ammettere di essere un po’ invidioso.

«È meravigliosa» rise Elijah, eccitato, quando la fotografia che aveva appena acquistato per duemila sterline fu proiettata sulla parete della sala riunioni. «Davvero meravigliosa.»

Andrea aveva la mano davanti alla bocca e fu grata che nessun altro, nella sala buia, potesse vedere le lacrime che le scendevano sulle guance. La fotografia era tutto tranne che meravigliosa. Anzi, probabilmente era la cosa più triste che avesse mai visto in vita sua. Era in bianco e nero e ritraeva Wolf in ginocchio, sotto la luce di un lampione, la pioggia scintillante e i fanali delle auto che si riflettevano nelle pozzanghere e nelle vetrine dei negozi sembravano luci da palcoscenico. Aveva visto Wolf piangere a malapena due o tre volte durante il loro matrimonio, e ogni volta le aveva spezzato il cuore.

Ma quella era ancora peggio.

Era a terra, sulla strada allagata, accanto al corpo scomposto di una donna più anziana, le teneva con premura la mano insanguinata fra le sue e aveva lo sguardo fisso nel vuoto, gli occhi pieni di sconfitta.

Era un uomo a pezzi.

Andrea si guardò attorno, osservando i volti dei suoi colleghi: sorrisi, applausi, risate. Sentì la rabbia e il disgusto montarle dentro. In quel momento disprezzò ciascuno di loro, senza eccezioni, e si chiese se avrebbe avuto la medesima espressione estasiata se quello nella foto non fosse stato l’uomo che un tempo amava. Fu sconvolta nello scoprire che sì, avrebbe potuto.

«Chi è la tipa stesa?» chiese Elijah a nessuno in particolare, incontrando una serie di scuotimenti di capo. «Andrea?»

Andrea si concentrò sull’immagine, cercando di nascondere agli altri i suoi occhi.

«E come faccio a sapere chi è quella povera donna?»

«Il tuo ex marito sembra tenere molto a lei» disse Elijah.

«Molto, forse pure troppo» disse il produttore calvo nell’angolo della stanza, suscitando risate.

«Pensavo la riconoscessi» concluse Elijah.

«Mi dispiace, ma no» rispose Andrea, più educatamente che poté, anche se parecchie persone si scambiarono sguardi sorpresi.

«Non importa. È lo stesso oro puro, questa foto, per la tv» disse Elijah, senza curarsi del tono di voce di Andrea. «Apriamo con la fotografia e il conto alla rovescia delle ore che Rana, o come si chiama, ha ancora da vivere. Facciamo un aggiornamento sulle ricerche e poi torniamo alla fotografia e inventiamo alla grande.»

Tutti nella sala ridacchiarono, tranne Andrea.

«Chi è questa donna? Perché il detective incaricato del caso Ragdoll si trova a un incrocio invece di darsi da fare per rintracciare la prossima vittima? O forse c’è un collegamento con gli omicidi? La solita roba.» Elijah rimase in attesa. «C’è altro?»

«L’hashtag #nonsullalista è in trending topic in questo momento» disse un antipatico ragazzotto. Andrea non l’aveva mai visto senza un telefono in mano. «E la nostra app con il conto alla rovescia ha già avuto cinquantamila download.»

«Merda. Avremmo dovuto metterla a pagamento» imprecò Elijah. «Come sta venendo l’emoji della Ragdoll?»

Un altro uomo fece scivolare esitante un foglio sul tavolo, verso di lui. Elijah lo prese e lo fissò, confuso.

«È difficile rappresentare tutto l’orrore in un disegno» disse l’uomo nervoso, sulla difensiva.

«Va bene così» gli disse Elijah, rilanciandogli il foglio. «Ma cancellate le tette. Un po’ inappropriate per i bambini, no?»

Evidentemente soddisfatto di aver svolto il proprio dovere per un decennio almeno, Elijah aggiornò la seduta. Andrea fu la prima ad alzarsi e uscire dalla sala riunioni. Non sapeva nemmeno lei se andare dritta giù alla sala trucco o proseguire verso l’uscita e non voltarsi più. Sapeva soltanto che aveva un disperato bisogno di vedere Wolf.

Simmons era in piedi davanti all’enorme collage rappresentante la Ragdoll, sulla parete della sala riunioni. Aveva un aspetto elegantissimo, indossava la divisa delle grandi occasioni, perfetta in tutto tranne che per il graffio sulla scarpa destra che non era riuscito a lucidare. Aveva danneggiato la pelle prendendo a calci con foga la cassettiera di metallo nel suo ufficio pochi minuti dopo aver visto il suo amico giacere arrostito e immobile nella sala interrogatori allagata. Per qualche ragione, gli sembrava giusto indossarla quel pomeriggio, come simbolo personale della perdita e dell’amicizia, anche se stava per affrontare una faccenda del tutto formale e irreggimentata.

Il funerale per il sindaco Turnble avrebbe avuto luogo a St Margaret, nel cimitero di Westminster Abbey, alle tredici in punto. La famiglia della vittima aveva chiesto un funerale privato in seguito, una volta che il corpo fosse stato restituito dal medico legale. Prima di ciò, Simmons avrebbe dovuto tenere una conferenza stampa per confermare i decessi di Vijay Rana ed Elizabeth Tate. Si stava sforzando di mantenere il controllo, mentre quelli delle relazioni pubbliche discutevano su come conferire un «tono positivo» alle sue dichiarazioni.

Simmons osservò Georgina Tate venire accompagnata fuori dalla saletta interrogatori, nella quale lui stesso non aveva ancora avuto il coraggio di tornare, e forse non l’avrebbe mai avuto. Non avrebbe mai dimenticato lo spettacolo orrendo del volto ustionato del suo amico, coperto di pustole, e sentiva ancora nelle narici l’odore di carne bruciata ogni volta che ci ripensava.

«Ok, che ne dite di questo: ci concentriamo sul fatto che siamo riusciti a fermare quella donna, la Tate» suggerì un uomo giovane e allampanato, che a Simmons sembrava avere quindici anni e non di più. «Un’assassina in meno sulle nostre strade, giusto?»

Simmons si voltò lentamente per affrontare le tre persone della squadra, armate di diagrammi e schemi, ritagli di giornale di quel mattino con frasi evidenziate che spiccavano come rifiuti tossici, quali in effetti erano. Fece per dire qualcosa, poi scosse il capo con evidente disgusto e uscì dalla stanza.