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Giovedì 10 luglio 2014

Ore 7.07

Il sole entrava splendente dalla porta aperta, stagliando ombre dorate sul letto. Wolf aprì gli occhi. Era da solo nella camera da letto di Baxter, con tutti i vestiti addosso, sdraiato sopra le coperte. A svegliarlo era stato il battere ritmico dei piedi sul tapis roulant nell’altra stanza.

Con grande sforzo, si alzò e prese le scarpe da dove le aveva lasciate, ai piedi del letto. Entrò nell’assolato soggiorno e fece un pigro cenno di saluto a Baxter, che indossava indumenti da ginnastica e portava ancora i capelli raccolti nella coda storta che le aveva fatto lui la sera prima. Se non avesse saputo della serataccia, avrebbe detto che sembrava distesa e rivitalizzata. Era sempre stata capace di recuperare in fretta. Era parte del motivo per cui era riuscita a nascondere quel problema a molte persone per molto tempo.

Lei non diede nemmeno cenno di averlo visto. Lui entrò nella cucina a vista e si mise a preparare il caffè.

«Ce l’hai ancora un...» iniziò a dire.

La pelle di Baxter era lucida di sudore. L’andatura era sostenuta. Parve scocciata dal doversi togliere le cuffiette per ascoltarlo.

«Ce l’hai ancora uno spazzolino di riserva?» chiese Wolf.

Tra di loro c’era sempre stato un tacito accordo per cui Baxter conservava sempre un corredo d’emergenza nel caso Wolf dovesse trattenersi senza preavviso. A un certo punto della loro vita era diventata un’occorrenza regolare. Per quanto fosse una cosa innocente, non c’era da sorprendersi che Andrea fosse diventata così sospettosa del loro rapporto.

«In bagno, cassetto in fondo» replicò lei, secca, per poi rimettersi le cuffiette.

Wolf sentiva che lei era in cerca di una lite, ma era deciso a non abboccare all’amo. Tipico di Baxter. Era imbarazzata dal suo comportamento e reagiva mostrandosi irritante e sgradevole.

L’acqua bollì e Wolf sollevò una tazza per chiederle silenziosamente se lei ne volesse una. Baxter sbuffò sonoramente e si strappò le cuffiette dalle orecchie.

«Che c’è ancora?»

«Ti ho soltanto chiesto se vuoi un caffè.»

«Io non bevo caffè. E tu lo sai meglio di chiunque altro. Io bevo soltanto vino e cocktail dall’aspetto assurdo.»

«Quindi è un no?»

«È questo che pensi di me, vero? La povera ubriacona che non sa neanche prendersi cura di sé. Ammettilo.»

La decisione di Wolf iniziava a vacillare.

«No, non lo penso» rispose. «Allora, il caffè...»

«Non avevo bisogno di te, capito? E comunque adesso puoi anche andartene soddisfatto e contento della tua nobiltà e superiorità. Ma fammi un favore: la prossima volta non disturbarti.»

Più predicava e più le mancava il fiato.

«Vorrei non essermi disturbato questa volta!» urlò lui. «Avrei dovuto lasciarti a terra in quel cesso invece di rovinarmi la cena.»

«Ah, certo, la cenetta con Ashley Lochlan. Che teneri. Ho un certo presentimento sulla vostra relazione. Sarà eccezionale, certo, a meno che uno di voi due non venga brutalmente assassinato nei prossimi quattro giorni!»

«Io vado al lavoro» disse Wolf, muovendosi verso la porta. «E comunque: prego, non c’è di che.»

«E comunque non so perché ti fai del male così» urlò Baxter nella sua direzione. «È come affezionarsi a una mucca da macello!»

La porta sbatté, facendo cadere a terra una fotografia dello skyline di New York incorniciata e appesa alla parete del salotto. Fremente di adrenalina, Baxter aumentò la velocità del tapis roulant, si rimise le cuffie e alzò il volume.

Quando raggiunse l’ufficio e andò dritto alla scrivania di Finlay, Wolf era di pessimo umore. Finlay non vedeva l’ora di sapere com’era andato l’appuntamento con Ashley.

«Ma si può sapere perché mi hai fatto questo?» sbottò Wolf.

«Come, scusa?»

«Perché hai detto a Baxter della mia cena con Lochlan?»

«Ho provato a non dirglielo, ma lei ha capito che nascondevo qualcosa.»

«E non potevi inventarti una balla?»

«Dovevo?»

Wolf guardò Finlay, l’unico sempre allegro e gioviale del dipartimento, trasformarsi nel duro poliziotto di Glasgow che era un tempo. Sfilò le mani dalle tasche nel caso dovesse reagire velocemente: il gancio sinistro di Finlay era leggendario.

«Un amico l’avrebbe fatto» disse Wolf.

«Io sono amico anche di Emily.»

«Ragione in più. Adesso hai urtato i suoi sentimenti.»

«Ah, io avrei urtato i suoi sentimenti? Io?» Finlay parlava con calma, cosa che non era mai un buon segno. «Sono anni che ti vedo prendere in giro quella povera ragazza. Qualsiasi cosa stia succedendo fra voi due ti è già costata il matrimonio eppure tu continui, il che significa che o la vuoi davvero ma sei troppo codardo per fare qualcosa oppure non la vuoi e sei troppo codardo per lasciarla stare. In ogni caso, hai solo quattro giorni per diventare un uomo.»

Wolf rimase senza parole. Finlay era sempre stato dalla sua parte a prescindere.

«Ho una pista da seguire. Me ne vado» disse Finlay, alzandosi.

«Vengo con te.»

«No.»

«Abbiamo una riunione di aggiornamento alle dieci» disse Wolf.

«Coprimi» disse Finlay con un sorriso amaro.

Diede a Wolf una forte pacca sulla schiena e si allontanò.

Alle 9.05 Wolf ignorò l’ennesima chiamata della dottoressa Preston-Hall e aspettò di udire il telefono della comandante squillare da un momento all’altro. Finlay se n’era andato arrabbiato e lui aveva già sentito Baxter urlare a qualcun altro al capo opposto dell’ufficio.

Edmunds non si accorgeva di nulla. Aveva trascorso gli ultimi dieci minuti preparando i documenti di cui voleva discutere con Wolf ed era ansioso di vedere la sua reazione. Raccolse i fogli e mentre andava alla scrivania di Wolf ripassò le prime parole del discorsetto che si era preparato in mente.

«Gabriel Poole Junior, 2009» annunciò.

Gli parve di scorgere un lampo di riconoscimento, ma Wolf poi sospirò e lo guardò spazientito.

«Dovrebbe dirmi qualcosa?»

La mancanza di reazione di Wolf lo deluse, ma Edmunds proseguì con entusiasmo.

«Speravo di sì, in effetti» disse. «Erede di un impero dell’elettronica, scomparso da una camera d’albergo, cadavere mai ritrovato. Niente che ti ricordi qualcosa?»

«Senti, non voglio essere maleducato, ma non hai qualcun altro a cui parlarne? Non sono molto in vena oggi.»

La sicurezza di Edmunds fu scossa dal disinteresse di Wolf. Si rese conto di non essersi spiegato a sufficienza.

«Aspetta, ricominciamo. Ho controllato dei vecchi casi...»

«Pensavo di averti detto di non farlo.»

«Sì, ma ti garantisco che l’ho fatto nel tempo libero. Comunque, ho trovato qualco...»

«No, niente ’comunque’. Se un superiore ti ordina di non fare qualcosa, tu non lo fai e basta!» gridò Wolf, attirando l’attenzione di tutto l’ufficio con quella reprimenda. Si mise in piedi.

«Ma se s-solo potessi spiegare» balbettò Edmunds. Non riusciva a capire come una conversazione innocente fosse degenerata in modo tanto rapido quanto drastico, ma non era pronto a rinunciare. Aveva delle domande importanti da fare, e aveva bisogno di risposte. «Ho trovato una traccia promettente.»

Wolf fece il giro della scrivania. Edmunds lo prese come un segno che aveva intenzione di ascoltarlo e gli porse il primo documento. Wolf gli diede una manata facendo finire a terra tutto il fascicolo. Ci furono delle risatine da cortile scolastico. Baxter si stava avvicinando a loro e Simmons, ritornando per un istante nel ruolo di capo, era già in piedi.

«Devo sapere perché hai preso le prove del caso Poole dal magazzino» disse Edmunds. Aveva alzato la voce, ma il tremito rivelava il suo nervosismo.

«Non mi piace il tuo tono» disse Wolf, parandosi di fronte al ragazzo.

«E a me non piace la tua risposta!» replicò Edmunds, sorprendendo tutti, incluso se stesso. «Perché hai indagato su quel caso?»

Wolf prese Edmunds alla gola e lo mandò a sbattere contro la parete della sala riunioni. Crepe nere si sprigionarono sul vetro oscurato.

«Ehi!» urlò Simmons.

«Wolf!» gridò Baxter, correndo da loro.

Wolf lasciò andare Edmunds, che aveva un filo di sangue scuro che colava sul collo. Baxter si frappose tra loro.

«Wolf, che diavolo!» gli urlò in faccia.

«Di’ al tuo cagnolino di stare alla larga da me!» sbraitò Wolf.

Baxter a stento riconosceva l’uomo dagli occhi folli davanti a lei.

«Non è più con me. Stai perdendo il controllo, Wolf» gli disse.

«Io sto perdendo il controllo?» urlò lui, rosso in volto, ferino.

Baxter colse la minaccia sottintesa. Wolf era a un passo dal rivelare il segreto che lei nascondeva da anni. Si fece forza, scoprendosi quasi sollevata di poter finalmente smettere di fingere.

Ma lui esitò.

«Digli che è meglio che abbia qualcosa di concreto, se ha intenzione di fare accuse in giro» disse.

«Ma che accuse di cosa?» chiese Baxter.

«Non ti stavo accusando di niente» sbottò Edmunds. «Ti stavo chiedendo un aiuto!»

Vanita, essendosi persa l’inizio della lite, emerse dal suo ufficio.

«Aiuto su cosa?» abbaiò Baxter a entrambi.

«Ha sprecato tempo sui miei vecchi casi invece di fare il suo lavoro!»

«Oh, ma vaffanculo» sbottò Edmunds. Non era da lui. Il sangue colava fra le dita nel punto in cui si teneva la testa.

Wolf si lanciò in avanti, ma Simmons lo bloccò. Baxter si avvicinò e sussurrò a Edmunds: «È vero?»

«Ho scoperto qualcosa.»

«Ti avevo detto di lasciar perdere» sbottò lei.

«Ma ho scoperto qualcosa!» ripeté lui.

«Non riesco a crederci, che prendi le sue difese» disse Wolf.

«Non lo faccio, penso che siate entrambi due idioti!» urlò Baxter.

«Adesso basta!»

Nell’ufficio piombò un silenzio mortale. Vanita era furiosa. Marciò in direzione del gruppetto di litiganti.

«Edmunds, vai a farti vedere la testa in infermeria. Baxter, vai dalla tua squadra. Fawkes, tu sei sospeso con effetto immediato.»

«Non può sospendermi» disse lui, indifferente.

«Scommettiamo? Fuori di qui!»

«Comandante, devo dichiararmi d’accordo con Wolf» disse Edmunds, accorrendo in difesa del suo aggressore. «Non può sospenderlo. Abbiamo bisogno di lui.»

«Non ho alcuna intenzione di lasciarti fare a pezzi il mio dipartimento dall’interno» disse Vanita a Wolf. «Vattene. Qui hai chiuso.»

Ci fu un momento carico di tensione in cui tutti trattennero il fiato in attesa della reazione di Wolf. Ma lui li deluse: fece un’amara risata, si sfilò strattonando dalla presa di Simmons e diede una spallata a Edmunds mentre usciva.

Solo Simmons e Vanita erano presenti alla riunione di aggiornamento prevista per le dieci. I dodici nomi elencati sul tabellone, che si stagliava orgoglioso al centro della stanza, completavano un puzzle. Sfortunatamente, l’identificazione dell’ultima vittima, Ronald Everett, non era stata la rivelazione che Simmons aveva sperato. Mancava ancora qualcosa.

«Siamo solo noi allora» disse Simmons, sorridendo.

«Dov’è il detective Shaw?»

«Non ne ho idea. Finlay non risponde al telefono. Edmunds è in infermeria a farsi dare i punti, e Fawkes l’hai appena sospeso.»

«E dillo che secondo te ho sbagliato, Terrence.»

«Non hai sbagliato» rispose Simmons. «Hai avuto coraggio.»

«È un pericolo. Non gli si può dar torto, tutto considerato, ma adesso siamo arrivati al punto in cui fa più danni che altro.»

«Sono completamente d’accordo, ma non posso coordinare tutto da solo» rispose lui. «Ridammi Baxter.»

«Non posso. Non dopo il fiasco di Garland. Ti assegnerò qualcun altro.»

«Non abbiamo tempo. Ashley Lochlan muore tra due giorni, Fawkes due giorni dopo ancora. Baxter conosce il caso. Tenerla lontana, questa sì che sarebbe una decisione sbagliata.»

Vanita scosse il capo e borbottò un’imprecazione.

«E va bene, ma metto a verbale le mie obiezioni. Lei è sotto la tua esclusiva responsabilità adesso.»

«La bella giurata sporca di sangue» disse Samantha Boyd, guardando la famigerata fotografia che la ritraeva all’esterno dell’Old Bailey. «Così mi chiamano. Come se ce l’avessi scritto sul biglietto da visita.»

Finlay riusciva a malapena a riconoscere nella persona dall’altra parte del tavolo la stessa donna della fotografia. Non c’era dubbio che fosse ancora attraente, ma i suoi lunghi capelli biondo platino adesso erano corti e castano scuro. Aveva un trucco pesante che nascondeva i suoi occhi azzurri, così intensi da apparire anche nelle fotografie in bianco e nero. E i suoi vestiti costosi erano eleganti ma di certo non attiravano l’attenzione.

La terza persona più famosa nel processo più famoso della storia recente aveva accettato di incontrarlo in un locale alla moda di Kensington. Quand’era arrivato, aveva pensato che fosse chiuso per ristrutturazione, ma né le clienti con i sacchetti dei negozi e le borsette, né il personale tutto tatuato sembrava minimamente preoccupato dalle tubature esposte, le lampadine nude appese al soffitto e le pareti grezze.

L’uscita di Finlay dall’ufficio non era stata provocata dalla discussione con Wolf. Aveva preso quell’appuntamento la sera prima. Per quanto fossero efficaci le tecniche di analisi delle impronte dei piedi, delle macchie di sangue e dei flussi di denaro, era sua ferma convinzione che il modo più efficace di raccogliere prove fosse semplicemente quello di fare le domande giuste alle persone giuste. Sapeva che i suoi colleghi lo ritenevano uno vecchio stile, un dinosauro. Ed era più che contento di ammettere che preferiva fare le cose alla vecchia maniera e non aveva alcuna intenzione di cambiare, non quando mancavano due anni alla pensione.

«Mi sono sforzata in tutti i modi di lasciarmi alle spalle questa faccenda» gli disse Samantha.

«Non può essere stato solo un problema. Deve aver fatto anche un gran bene agli affari, o no?»

Bevve un sorso di caffè e quasi si strangolò. Aveva il gusto di una delle robacce che piacevano a Wolf.

«Senza dubbio. Non riuscivamo a star dietro agli ordini, specialmente per quel vestito bianco. Alla fine abbiamo dovuto mandar via i clienti.»

«Eppure?» chiese Finlay.

Lei soppesò attentamente le parole prima di rispondere.

«Quel giorno non ero in posa per una foto. Stavo cercando aiuto. Non ho mai voluto essere famosa, men che meno per qualcosa di così... orribile. Ma di colpo ero La Bella Giurata Sporca di Sangue, e tutti vedevano solo quello in me.»

«Capisco.»

«Con tutto il rispetto, non credo che possa capirlo. La verità è che mi vergogno della mia parte in quello che è successo quel giorno. A quel punto eravamo tutti influenzati dalle indiscrezioni sul conto del detective Fawkes e dalle accuse contro la polizia, tanto che secondo me hanno condizionato la nostra decisione. Quella di molti di noi, in ogni caso. Dieci su dodici hanno commesso un errore irreparabile, e non passa giorno senza che io pensi alle ripercussioni.»

Non c’era alcuna traccia di autocompatimento nella sua voce, soltanto l’accettazione di una responsabilità. Finlay prese una foto recente di Ronald Everett e la mise sul tavolo fra di loro.

«Riconosce quest’uomo?»

«E come potrei non riconoscerlo? Ho dovuto rimanere seduta accanto a quel vecchio pervertito per quarantasei giorni. Non direi che sono una sua fan.»

«Le viene in mente qualche motivo per cui qualcuno abbia voluto far del male al signor Everett?»

«È chiaro che lei non l’ha mai conosciuto. Tiro a indovinare: probabilmente ha allungato le mani sulla moglie dell’uomo sbagliato. Perché? Gli è successo qualcosa?»

«È confidenziale.»

«Non lo dirò a nessuno.»

«Nemmeno io» disse Finlay, chiudendo l’argomento. Pensò a lungo prima di fare la domanda seguente. «Quando ripensa al signor Everett, c’è qualcosa che lo rendeva diverso da lei e dal resto dei giurati?»

«Diverso?» chiese lei. Fece un’espressione vacua e Finlay si chiese se non avesse sprecato tempo. «Oh, una cosa... Ma non l’abbiamo mai dimostrata.»

«Dimostrato cosa?»

«Io e altri giurati siamo stati avvicinati da giornalisti che si offrivano di comprare informazioni per somme assurde. Volevano sapere di cosa discutevamo a porte chiuse, chi votava come.»

«E lei crede che Everett abbia accettato l’offerta.»

«No, non lo credo, ne sono sicura. Alcune delle cose che finivano sui giornali non potevano che venire direttamente dalla giuria e il povero Stanley, che si era dannato per farci votare la colpevolezza fin dall’inizio, un mattino si è svegliato scoprendo il suo volto sulle prime pagine di tutti i giornali, con articoli che dicevano che era fortemente islamofobo e che la sua famiglia era imparentata con gli scienziati nazisti e altre assurdità ancora.»

«Ma non dovreste evitare i giornali durante il processo?»

«Ma se lo ricorda quel processo? Sarebbe stato più facile evitare l’aria.»

Di colpo Finlay ebbe un’idea. Scartabellò il fascicolo in cerca di una cosa, poi mise una seconda foto sul tavolo.

«Per caso, lui è uno dei giornalisti che vi ha avvicinato?»

La donna studiò attentamente la foto.

«Certo!» esclamò.

Finlay si raddrizzò, attento.

«Questo è l’uomo che è morto in diretta, vero? Jarred Garland. Oddio, non l’avevo riconosciuto. Aveva i capelli lunghi e unti e la barba quando l’ho conosciuto.»

«È sicura che sia lo stesso uomo?» chiese Finlay. «Guardi ancora.»

«Non ho dubbi. Riconoscerei quel sorrisino da carogna dovunque. Ma se non mi crede, dovrebbe essere facile controllare. Ho dovuto chiamare la polizia per farlo allontanare da casa mia quando lui mi ha seguito una sera rifiutandosi di andarsene.»

Edmunds non riusciva a smettere di toccarsi il bernoccolo sulla testa. L’infermiera gli aveva incollato la pelle. Aveva trascorso ore in sala d’attesa ripensando alla conversazione con Wolf e l’aveva trascritta quasi parola per parola sul taccuino. Non riusciva a capire come mai Wolf avesse frainteso così gravemente le sue parole.

Era stanco. Forse, senza volerlo, era sembrato mancargli di rispetto o accusarlo. Ma accusarlo di cosa? Edmunds si chiese se Wolf avesse mentito sul riconoscere il caso e se invece sapesse benissimo di aver dimenticato di includere il rapporto aggiornato della Scientifica. Forse la sua reazione così eccessiva era in realtà autodifesa.

L’unica cosa positiva del suo soggiorno al pronto soccorso era che Tia era stata costretta a rispondere ai suoi messaggi. Si era perfino offerta di chiedere un permesso al lavoro per raggiungerlo, ma lui le aveva assicurato che stava bene. Avevano concordato che lei sarebbe rimasta con sua madre per il resto della settimana, visto che lui sarebbe a stento passato da casa, e lui le aveva promesso che avrebbe fatto di tutto per farsi perdonare, a cose finite.

Con la coscienza a posto, riattraversò la città fino a Watford e poi prese un taxi verso gli archivi. Come un robot, passò i soliti controlli per accedere al magazzino ma si fermò davanti al piccolo ufficio in fondo alle scale. Di solito passava davanti alla porta con la targhetta «Amministratore» senza fermarsi, ma quella volta bussò educatamente sul vetro ed entrò.

La piccola donna di mezz’età dietro al vecchio computer aveva esattamente l’aspetto che lui si era immaginato: pelle pallida al limite del cadaverico, occhiali enormi e aria arruffata. Lo salutò con entusiasmo, come un’anziana parente ansiosa di fare conversazione, e lui si domandò se non fosse il primo a farle visita da chissà quanto tempo. Accettò di mettersi a sedere ma rifiutò l’offerta di qualcosa da bere, temendo che gli sarebbe costata un’ora di tempo prezioso.

Dopo avergli raccontato tutto sul suo defunto marito, Jim, e sul fantasma amichevole che, era pronta a giurarlo, infestava quel mausoleo sotterraneo, fu gentilmente guidata da Edmunds sull’argomento che interessava a lui.

«Quindi ogni cosa passa da questo ufficio?» le chiese.

«Ogni cosa. Facciamo la scansione dei codici a barre in entrata e in uscita. Se fai un solo passo fuori da quella porta senza un codice valido, partono tutti gli allarmi!»

«Il che significa che lei può dirmi chi ha controllato cosa» disse Edmunds.

«Ma certo.»

«Allora avrei bisogno di vedere tutte le scatole che il detective William Fawkes ha portato fuori.»

«Tutte quante?» chiese lei, sorpresa. «Sicuro? Will veniva qui spessissimo.»

«Tutte, nessuna esclusa.»