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Osservando il lampo di luce nel folto della foresta, in risposta al suo, Pendergast capì che il colonnello aveva ricevuto il messaggio. Gettò via lo specchio che aveva preso nei bagni degli alloggi, e scese dalla postazione d’artiglieria a metà della merlatura della fortezza. Per forza di cose, la sua ricognizione era stata incompleta, ma malgrado tutto era stato in grado di identificare i principali punti d’ingresso, i bastioni difensivi, la disposizione generale della struttura. Ora il suo compito sarebbe stato individuare la parte più debole e vulnerabile delle antiche mura. Nel piano che aveva discusso con il colonnello avevano previsto di trovare il deposito di munizioni del forte, o l’armeria centrale, e di farlo saltare in aria, aprendo un varco nelle mura esterne, ma non ce l’aveva fatta. C’erano troppi soldati, infuriati come uno sciame di api, perché riuscisse nell’impresa.
Ma non importava. Nello zaino aveva una valida alternativa: un paio di taniche di ossiacetilene, quasi piene.
Scese una vecchia scala a chiocciola e si fermò in ascolto. La vastità della fortezza e gli ampi corridoi si erano rivelati una benedizione: gli permettevano di sentire in anticipo il rumore pesante degli stivali dei soldati. In effetti Pendergast era rimasto sorpreso dalla goffaggine delle guardie che difendevano la struttura, dal loro modo di reagire e dalla mancanza di strategia. Era l’unico dettaglio che gli sembrava strano.
Comunque fosse, intendeva approfittarne il più possibile.
Scendendo ai piani più antichi della fortezza, trovò un tunnel che correva all’interno del perimetro delle mura. Lo costeggiò, illuminando le pareti con la torcia, saggiandole con la punta del coltello. La malta si sgretolava come sabbia, ma i blocchi di pietra erano molto solidi e troppo vicini l’uno all’altro per poter essere spostati. In alcuni punti c’erano delle crepe, ma non erano abbastanza grandi per essere utilizzate come varchi.
Oltrepassò una serie di porte d’acciaio che si aprivano nella parete interna, porte nuove che erano state aggiunte a quelle che probabilmente un tempo erano le prigioni della fortezza; sembrava che avessero convertito le stanze in laboratori. Alcune porte erano spalancate, con la luce ancora accesa, come se il laboratorio fosse stato abbandonato in fretta dagli scienziati al lavoro, forse al frastuono dell’artiglieria.
Appena superate, trovò quello che stava cercando. Nella parete esterna vide una larga crepa a raggiera; i blocchi di pietra erano spostati lungo i margini. In alcuni punti, le fenditure erano larghe addirittura venti o trenta centimetri. Anche il pavimento era danneggiato allo stesso modo. Interessante. Quelle crepe non erano state causate da normali scosse d’assestamento. Al contrario. La forma a raggiera indicava che il vulcano si stava risvegliando, creando grossi punti instabili che si estendevano lungo tutta la base della parete spessa sei metri.
Lavorando rapido con il coltello, per prima cosa Pendergast eliminò la muratura intorno a un blocco staccato seguendo il bordo della crepa più grande, poi fece leva per spostarlo con la punta del piccone. Infine, riuscì a rimuoverlo, creando un passaggio. Allungando la mano, constatò che l’interno della massiccia parete era una tradizionale costruzione di calcinacci spagnola del Diciottesimo secolo: la pietra lavorata era stata usata solo per la facciata delle pareti, mentre l’interno era stato riempito di pietrisco e sabbia. Con coltello e piccone, ricavò uno spazio tra le macerie abbastanza largo per inserire i cilindri gemelli di ossigeno e acetilene. Li dispose con attenzione e controllò l’orologio che aveva sottratto a una delle guardie. Se tutto fosse andato secondo i piani, gli uomini di Souza in quel momento avrebbero iniziato a invadere la città, preparandosi a impadronirsi delle barche per l’assalto alla fortezza. Stando alla tempistica prestabilita, nel giro di circa venti o trenta minuti diverse imbarcazioni sarebbero attraccate al molo dell’isola, mettendo in atto un finto attacco, mentre quelle con a bordo la maggior parte degli uomini di Souza nel frattempo sarebbero approdate nella baia dietro la fortezza.
Dunque doveva attendere per quindici minuti. Avrebbe potuto approfittarne per dare un’occhiata ai laboratori nel tunnel.
Il primo era chiuso con un meccanismo rudimentale risalente alla Seconda guerra mondiale che resistette al suo coltello solo per un momento. Si ritrovò in un laboratorio non all’avanguardia per gli standard moderni, ma adeguato allo scopo: la dissezione e l’autopsia di resti umani.
Esaminando lo spazio con attenzione, notò una differenza piccola ma significativa tra quella stanza e il classico laboratorio di un patologo in ospedale. C’erano cinghie, manette e altre attrezzature simili.
Pendergast capì che il locale non veniva usato per le autopsie, ma per la vivisezione.
Proseguì lungo il corridoio, puntando la torcia all’interno delle porte aperte o sulle finestrelle di quelle chiuse. La maggior parte dei laboratori era in uso. Diversi non erano neanche stati puliti: c’erano capelli, sangue e frammenti di ossa segati che ingombravano le barelle. In quei luoghi dovevano essere stati effettuati esperimenti raccapriccianti; nonostante l’apparente stato di abbandono, ebbe l’impressione che un lungo progetto fosse appena stato concluso.
Qualcosa in uno dei laboratori chiusi a chiave attirò la sua attenzione. Si fermò, sbirciando all’interno della stanza. Anche questa volta, riuscì ad aprire la serratura in un attimo. Il raggio della torcia illuminò un campione di capelli. Altre prove, incluse larve morte di insetti, dimostravano che i resti disposti su quella barella erano in decomposizione.
Avanzò molto lentamente, guardando ancora i capelli. Notò che erano della stessa tonalità biondo rame di quelli di Helen, un colore che gli aveva sempre ricordato il miele selvatico. D’istinto, allungò la mano per toccarli, ma poi si trattenne.
Su un tavolo c’era una scatola di plastica; si avvicinò e, dopo una breve esitazione, tolse il coperchio. All’interno trovò i resti del vestito di Helen, bottoni, qualche effetto personale. Mentre ne esaminava il contenuto, facendosi luce con la torcia, vide guizzare un lampo di luce viola. Spostò un pezzo di tessuto e vide un anello d’oro, in cui era incastonato uno zaffiro stellato.
Si irrigidì. Per dieci minuti, forse più, non si mosse, con gli occhi fissi sulla scatola. Alla fine prese l’anello e se lo mise nella tasca dei rozzi pantaloni da prigioniero.
Uscì dalla stanza in silenzio, si fermò per ascoltare l’eco lontana dei passi e delle grida autoritarie. Poi tornò rapidamente alla crepa nel muro esterno e alla bomba artigianale di ossiacetilene che aveva inserito al suo interno, tenendo d’occhio l’orologio. Era in ritardo.