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D’Agosta guidò a tutta velocità su Park Avenue nel traffico della sera, con i lampeggianti accesi; ogni tanto attivava la sirena per i figli di puttana che non si spostavano. L’urgenza quasi maniacale della telefonata dell’agente l’aveva spaventato. Non avrebbe saputo dire se Pendergast stesse diventando pazzo o se avesse davvero scoperto qualcosa, ma aveva trascorso abbastanza tempo con quell’uomo per sapere che ignorare le sue richieste poteva essere pericoloso.
Adesso, mentre sfrecciavano a sud verso il Murray Hill Hotel, D’Agosta lo guardò di sottecchi.
Dal giorno della morte della moglie l’agente speciale era passato dall’apatia al torpore indotto dalle droghe a quello scintillio negli occhi e a quella tensione del corpo.
«Dici che ci sarà un altro omicidio?» cominciò D’Agosta. «Puoi essere più preciso? Come fai a saperlo?»
«Vincent, abbiamo pochissimo tempo e quello che devo dirti ti sembrerà strano, se non folle.»
«Mettimi alla prova.»
Una pausa brevissima. «Ho un figlio di cui non conoscevo nemmeno l’esistenza. Si chiama Alban. È lui l’assassino, non Diogenes come sospettavo. Su questo non ho alcun dubbio.»
«Wow, ehi, aspetta un attimo, santo cielo…»
Un brusco cenno di Pendergast mise a tacere D’Agosta. «Con questi omicidi l’assassino sta mandando un messaggio a me. Il movente non mi è ancora chiaro.»
«Trovo difficile…»
«Non c’è tempo per entrare nei dettagli. Posso dirti che gli indirizzi degli hotel e l’ora degli omicidi seguono uno schema, una sequenza. Il passo seguente sarà il ventuno. È c’è soltanto un albergo di Manhattan che si trova al numero ventuno: il Murray Hill, al ventuno di Park Avenue. Ho già controllato.»
«Questo è…»
«E hai notato l’orario degli omicidi? Segue un altro schema, più semplice. Il primo è avvenuto alle sette e trenta del mattino. Il secondo alle nove di sera. Il terzo, di nuovo alle sette e trenta. Segue orari alternati. E adesso sono quasi le nove.»
Sfrecciarono attraverso il tunnel di Helmsley Building, intorno al viadotto, facendo stridere le gomme. «Non me la bevo» rispose D’Agosta mentre cercava di mantenere il controllo del veicolo. «Un figlio sconosciuto, questo tuo schema… È una pazzia.»
Pendergast fece uno sforzo evidente per controllarsi. «So quanto debba suonarti strano. Ma almeno per il momento, devo insistere perché tu abbandoni completamente le tue perplessità.»
«Perplessità? È un eufemismo. Lo trovo del tutto assurdo.»
«Lo scoprirai presto. Ci siamo.»
D’Agosta si fermò davanti all’hotel. A differenza dei primi tre alberghi, questo era vecchio e piuttosto trascurato, con la facciata di mattoni marroni striata di fuliggine. Lasciò l’auto nella zona di carico e scarico e Pendergast corse nella hall, tenendo in mano il distintivo dell’Fbi. «Ufficio della sicurezza!» esclamò.
Il portiere si precipitò verso di lui in preda al panico; li guidò oltre il banco della hall, in un piccolo ufficio interno con una parete ricoperta da schermi collegati alle telecamere a circuito chiuso. L’agente della sicurezza in servizio balzò in piedi quando irruppero nella stanza.
«Fbi» si presentò Pendergast, sventolando il distintivo. «Quante telecamere di sorveglianza sono attive nella hall?»
«Mmm, una» rispose l’agente, sconcertato.
«Mandi indietro la registrazione di mezz’ora. Adesso.»
«Sì, ehm, sì signore, subito.» La guardia fece il più veloce possibile. Per fortuna, notò D’Agosta, si trattava di un sistema recente e abbastanza aggiornato, e l’uomo sembrava competente. Nel giro di un minuto il video tornò indietro. D’Agosta guardò il monitor, sempre più scettico. Era ridicolo: il killer degli hotel non avrebbe mai scelto un postaccio come quello. Non rientrava nel suo modus operandi. Lanciò un’occhiata furtiva a Pendergast: la morte della moglie doveva averlo sconvolto ancor più di quanto credesse.
«Avanti veloce» ordinò Pendergast.
L’uomo obbedì. Guardarono tesi e concentrati le figure passare rapidamente nella hall.
«Fermo! Eccolo.»
Il video fu bloccato e poi fatto procedere a velocità normale. Mostrava un uomo che camminava disinvolto nella hall, si fermava, si aggiustava la cravatta e si dirigeva infine verso gli ascensori. D’Agosta si sentì stringere lo stomaco. L’aspetto dell’uomo, il suo modo di muoversi… era lui.
«Maledizione» mormorò.
«Si sposti alla telecamera dell’ascensore» disse Pendergast.
Seguirono l’uomo salire al quinto piano, dove scese, percorse il corridoio e attese. Poi, proprio mentre una donna girava l’angolo, riprese a camminare, seguendola finché entrambi non uscirono dal campo visivo della telecamera. L’indicatore dell’orario mostrava che la ripresa risaliva ad appena tre minuti prima.
«Oh Cristo» esclamò D’Agosta. «Ne ha presa un’altra.»
«Mandi indietro di cinque secondi.» Pendergast indicò l’immagine della donna: «La riconosce? In quale stanza si trova? Faccia in fretta!»
«È arrivata oggi.» Il portiere tornò alla reception, premendo i tasti del computer. «Stanza 516.»
Pendergast si rivolse a D’Agosta. «Rimani qui» mormorò. «Tieni d’occhio il video. Quando le telecamere lo inquadreranno di nuovo, segui ogni suo movimento. Io vado a cercarlo. E ricordati: non dire a nessuno che è mio figlio.»
«Oh!» esclamò D’Agosta. «Aspetta un attimo. Non dirlo a nessuno? Pendergast, mi dispiace, ma penso che tu stia esagerando…»
«Non dirlo a nessuno» ripeté Pendergast con determinazione. Poi, in un lampo, sparì.
Pendergast salì di corsa i cinque piani di scale e percorse il corridoio fino alla stanza 516. La porta era chiusa, ma con la calibro 45 fece esplodere la serratura e la aprì con un calcio.
Era troppo tardi. La donna che aveva visto nel video giaceva sul pavimento dell’angusta camera, morta ma non ancora smembrata. Pendergast esitò solo un istante, con gli occhi argentati che si muovevano rapidi, osservando ogni cosa. Poi, balzando oltre il cadavere, spalancò la porta del bagno. La finestra in fondo alla piccola stanza era in frantumi e si affacciava su una scala antincendio. Pendergast saltò fuori e guardò giù appena in tempo per scorgere un giovane – Alban – che scendeva l’ultima rampa.
L’agente si lanciò verso la scala antincendio scendendo tre gradini per volta, seguendo Alban con lo sguardo mentre il ragazzo percorreva di corsa Park Avenue e scompariva dietro l’angolo della Trentacinquesima Strada, verso il fiume.
Pendergast gli corse dietro. Quando svoltò l’angolo della Trentacinquesima, vide il giovane a quasi due isolati di distanza che procedeva a una velocità impressionante: era un corridore fenomenale. L’agente proseguì, ma quando ebbe raggiunto la Lexington di Alban, lui era ormai lontano, aveva già attraversato la Seconda Avenue e stava correndo lungo St. Vartan Park. Anche se sapeva che non l’avrebbe mai raggiunto, Pendergast continuò a correre, sperando almeno di riuscire a vedere dove era diretto. La sagoma, appena visibile, oltrepassò la Prima Avenue e si lanciò verso FDR Drive, saltando una rete metallica e arrampicandosi su una barriera di cemento. Arrivò sulla strada, dove scomparve nell’oscurità.
Pendergast superò St. Vartan Park, attraversando la Prima Avenue abbagliato dalla luce dei lampioni. Si arrampicò sulla rete metallica, scavalcò la barriera di cemento e scattò verso FDR Drive, facendo lo slalom tra le auto in mezzo a un improvviso coro di clacson e stridore di freni. Raggiunse l’altro lato della strada e si fermò, guardando in entrambe le direzioni, ma senza vedere nulla: Alban era sparito nella notte. L’East River si snodava di fronte, l’approdo dei traghetti di Hunter’s Point si trovava alla sua destra, il Queensboro Bridge alla sua sinistra, scintillanti di luci. Dritto davanti a lui, due banchine abbandonate e malandate si inoltravano nell’East River, allungandosi da una riva semidistrutta di pietrame, sotto a un molo ridotto in pezzi e sommerso da un intrico di vegetazione, vecchie tife, canne, giunchi e rovi: un groviglio secco e scuro alla luce fredda della luna.
Era un posto ideale per far prendere le proprie tracce, e Alban lo sapeva. Era chiaro: conosceva la geografia di quei luoghi e aveva pianificato la fuga in anticipo. Non c’erano speranze. Pendergast si voltò e si avviò lungo FDR Drive, verso un passaggio pedonale a cinque isolati di distanza, per riattraversare la strada principale. Ma, mentre camminava, vide una sagoma con la coda dell’occhio: un giovane, in piedi sulla prima banchina in rovina, illuminato dalla luce fioca del ponte dietro di lui.
Era Alban. Suo figlio lo stava guardando. E, quando Pendergast si bloccò per la sorpresa, alzò una mano e gli fece un piccolo cenno.
Pendergast scavalcò immediatamente il guardrail e atterrò sull’argine sotto di lui, facendosi strada tra gli arbusti. Arrivò sul molo di cemento solo per accorgersi che Alban era sparito di nuovo.
Immaginò che doveva essersi diretto verso l’argine, e scattò verso nord. Un istante dopo vide dei movimenti di fronte a sé: Alban procedeva verso la seconda banchina, dove si fermò a metà strada, si voltò e attese, con le braccia incrociate sul petto.
Mentre correva, Pendergast estrasse la calibro 45. Per raggiungere la seconda banchina fu costretto ad aggirare una serie di bitte in rovina e ad attraversare altra vegetazione; per qualche momento perse di nuovo di vista Alban. Proprio mentre arrivava ai piedi della banchina, sbucando dalla vegetazione, provò un dolore incredibile alla gamba e cadde in avanti. Mentre finiva a terra, sentì un secondo colpo alla mano, che fece volare via la calibro 45. Provò ad alzarsi con una capriola, ma Alban anticipò la mossa e lo colpì alla testa con il ginocchio, inchiodandolo al cemento.
Poi, in fretta come era stato bloccato, fu liberato. Pendergast saltò in piedi, pronto a combattere.
Ma Alban non lo affrontò. Si limitò a indietreggiare, incrociando di nuovo le braccia.
Pendergast rimase impietrito, si fissarono come due animali; ognuno attendeva che l’altro facesse la prima mossa.
Poi Alban si rilassò. «Endlich» disse. «Finalmente. Possiamo scambiare due parole faccia a faccia… da padre a figlio… Da quanto tempo attendevo questo momento.» E gli rivolse un sorriso gentile.