Sei ore dopo
Un medico con il camice sgualcito fece capolino nella sala d’attesa del reparto di terapia intensiva del Lenox Hill. «È sveglio, se vuole parlargli.»
«Grazie a Dio.» Il tenente Vincent D’Agosta, del NYPD, infilò in tasca il taccuino che stava consultando e si alzò. «Come sta?»
«Non presenta complicazioni.» Un lampo di irritazione attraversò il viso del dottore. «Sebbene i medici siano sempre i pazienti peggiori.»
«Ma non è…» cominciò D’Agosta, ma poi tacque. Seguì il dottore verso l’interno.
L’agente speciale Pendergast sedeva sul letto, attaccato a cinque o sei macchine. Aveva una flebo nel braccio e un tubicino nelle narici. Sparpagliato sulle lenzuola c’erano i documenti della cartella clinica, e in mano teneva una lastra. Il colorito dell’agente dell’Fbi era sempre un po’ pallido, ma ora era simile a porcellana. Un dottore era chino sul letto, immerso nella conversazione con il paziente. Anche se D’Agosta riusciva a sentire a malapena le risposte di Pendergast, era chiaro che i due stessero discutendo.
«Non se ne parla neanche» stava dicendo il medico mentre D’Agosta si avvicinava al letto. «È ancora sotto shock per la ferita d’arma da fuoco e la perdita di sangue. La ferita – per non parlare delle due costole incrinate – avrà bisogno di cure e di rimanere sotto costante osservazione.»
«Dottore» replicò Pendergast. Di norma, l’agente incarnava la tipica gentilezza del Sud, ma ora la sua voce era glaciale. «Il proiettile ha appena sfiorato il muscolo gastrocnemio. Né la tibia né il perone sono stati danneggiati. La ferita era pulita; non è stata necessaria un’operazione.»
«Ma la perdita di sangue…»
«Sì» intervenne Pendergast. «La perdita di sangue. Di quante unità ho avuto bisogno?»
Silenzio.
«Una.»
«Un’unità. A causa del danno ad affluenti minori della vena di Giacomini. Niente di grave.» Sventolò la lastra come una bandiera. «Quanto alle costole, l’ha detto anche lei: incrinate, non rotte. La quinta e la sesta, all’inizio, a circa due millimetri dalla colonna vertebrale. Ma guariranno in fretta.»
Il medico era furioso. «Dottor Pendergast, non posso permetterle di lasciare l’ospedale in queste condizioni. Lei, tra tutti…»
«Al contrario, dottore, non può impedirlo. I miei parametri vitali sono accettabili. Le ferite non sono gravi e posso occuparmene io stesso.»
«Annoterò sulla cartella clinica che sta lasciando l’ospedale contro il mio parere.»
«Perfetto.» Pendergast posò la lastra sul tavolino accanto al letto come fosse una carta da gioco. «E ora vuole scusarmi?»
Il medico gli lanciò un ultimo sguardo esasperato, poi girò sui tacchi e lasciò la stanza, seguito dal dottore che aveva accompagnato D’Agosta.
Pendergast si voltò verso il tenente, come se lo vedesse per la prima volta. «Vincent.»
D’Agosta si avvicinò rapido al comodino. «Pendergast. Mio Dio. Mi dispiace tanto…»
«Perché non sei con Constance?»
«È al sicuro. Al Mount Mercy hanno raddoppiato le misure di sicurezza. Volevo…» si fermò un momento «… venire a vedere come stavi.»
«Molto rumore per nulla, ti ringrazio.» Pendergast si tolse la cannula nasale e la flebo, poi staccò il misuratore della pressione sanguigna e l’ossimetro. Scostò le lenzuola, rimettendosi a sedere. I movimenti erano lenti, quasi robotici; D’Agosta capì che a sostenerlo era soltanto una ferrea forza di volontà.
«Spero davvero che tu non voglia uscire di qui.»
Pendergast si voltò di nuovo a guardarlo; il bagliore nei suoi occhi – carboni ardenti in quel volto altrimenti mortalmente pallido – lo ammutolì all’istante.
«Come sta Proctor?» chiese Pendergast, lasciando dondolando le gambe dal bordo del letto.
«Si rimetterà. Ha qualche costola rotta dove i colpi hanno raggiunto il giubbotto antiproiettile.»
«Judson?»
D’Agosta scosse la testa.
«Portami i vestiti» disse Pendergast con un cenno verso l’armadio.
D’Agosta esitò, ma poi si rese conto che protestare era inutile e obbedì.
Con una smorfia di dolore, Pendergast si alzò. Barcollò per un istante, poi ritrovò l’equilibrio. D’Agosta gli porse i vestiti e lui tirò la tenda del séparé.
«Hai idea del casino che è successo nel parco?» domandò D’Agosta. «È su tutti i notiziari: cinque morti, la Omicidi sta impazzendo.»
«Non ho tempo per le spiegazioni.»
«Mi dispiace, ma non uscirai di qui senza avermi raccontato cos’è successo.» Il tenente riprese il taccuino.
«Molto bene. Ti parlerò mentre mi vesto. Dopodiché uscirò di qui.»
D’Agosta scrollò le spalle. Si sarebbe accontentato.
«È stato un rapimento ben pianificato, estremamente ben pianificato. Hanno ucciso Judson e catturato mia moglie.»
«Di chi stai parlando?»
«Si tratta di un oscuro gruppo di nazisti, o di loro discendenti, chiamati Der Bund.»
«Nazisti? Dio mio, perché?»
«Non conosco le loro motivazioni.»
«Devo sapere con precisione cos’è accaduto.»
La voce di Pendergast arrivò da dietro la tendina. «Sono andato alla rimessa per incontrare Judson e Helen: dovevo prendere mia moglie e nasconderla a questo gruppo. È arrivata alle sei, come d’accordo. Ben presto mi sono reso conto che eravamo stati scoperti. Uno dei modellisti vicino al lago era sospetto: non sembrava un esperto di modellini di yacht ed era nervoso, sudava nonostante il freddo. Mi sono avvicinato e gli ho detto di alzarsi. E lì le cose sono precipitate.»
D’Agosta prendeva appunti. «Quante persone sono coinvolte?»
Una pausa. «Almeno sette. Il modellista. I due innamorati su una panchina del parco… quelli che hanno ucciso Judson. Un falso senzatetto, che ha sparato a Proctor. Voi burocrati avrete probabilmente già ricostruito la dinamica della sparatoria. Ce n’erano almeno altri tre: due tizi che facevano jogging e che hanno rapito Helen mentre tentava di scappare, e il conducente del finto taxi su cui l’hanno costretta a salire.»
Pendergast scostò la tendina. Il suo abito solitamente impeccabile era un disastro: la giacca era macchiata d’erba e la parte inferiore di una gamba dei pantaloni era lacerata e incrostata di sangue rappreso. Fissò D’Agosta che si sistemava la cravatta. «Ti saluto, Vincent.»
«Aspetta. Come diavolo ha fatto questo… questo Bund a sapere del vostro incontro?»
«Ottima domanda.»
Pendergast afferrò una stampella e si voltò per andarsene. D’Agosta lo sorresse per un braccio. «È una pazzia uscire dall’ospedale in queste condizioni. Non c’è nulla che possa fare per aiutarti?»
«Sì.» Pendergast prese il taccuino e la penna dalla mano di D’Agosta, lo aprì e scarabocchiò in fretta qualcosa. «Questo è il numero di targa del taxi che ha portato via Helen. Non sono riuscito a memorizzare le ultime due cifre. Usa tutte le tue risorse per trovarlo. Qui c’è la mia ipotesi, ma non farci troppo affidamento.»
D’Agosta riprese il taccuino. «Contaci.»
«Emetti un avviso a tutte le unità per trovare Helen. Potrebbe essere complicato, perché ufficialmente è morta, ma provaci lo stesso. Ti manderò una fotografia: risale forse a quindici anni fa, usa il software della Scientifica per invecchiarla.»
«C’è altro?»
Pendergast scosse la testa bruscamente. «Trova quel taxi.» Poi uscì dalla stanza senza aggiungere altro, zoppicando sempre più velocemente lungo il corridoio.