Ottantadue ore dopo
Pendergast parcheggiò la Eldorado ammaccata e fumante in una stazione di servizio fuori dalla cittadina di Palominas, in Arizona. Aveva percorso più di tremila chilometri, fermandosi solo per fare rifornimento.
Uscì dall’auto, appoggiandosi alla portiera. Era notte fonda e l’immenso cielo del deserto era cosparso di stelle. Non c’era la luna.
Entrò nel negozio di alimentari annesso alla stazione di servizio, dove acquistò una cartina stradale dello Stato messicano di Sonora, cinque o sei bottiglie d’acqua, qualche confezione di manzo essiccato, biscotti, carne in scatola, un paio di canovacci, garze, una pomata antibiotica, una bottiglietta di ibuprofene, compresse di caffeina, nastro adesivo e una torcia. Mise il tutto in un sacchetto di plastica, che riportò alla macchina. Si sedette a esaminare la cartina che aveva comprato, imprimendosi i dettagli nella memoria.
Lasciò la stazione di servizio e si diresse a est sulla Route 92, attraversando il fiume San Pedro su un piccolo ponte. Giunto dall’altro lato, svoltò a destra su una strada sterrata che si dirigeva a sud. Procedendo lentamente, con l’auto che sobbalzava lungo il sentiero dissestato, attraversò il boschetto di mezquite e unghie di gatto, con i fanali che trafiggevano gli arbusti dai rami spinosi. Il fiume, invisibile, si snodava alla sua destra, delimitato da una folta fila di pioppi scuri.
A circa ottocento metri dal confine, Pendergast accostò l’auto fuori dalla strada in una macchia di mezquite, nascondendola il più possibile tra la vegetazione. Spense il motore, uscì dal veicolo con il sacchetto di plastica, poi rimase in ascolto nell’oscurità. Un paio di coyote ululavano in lontananza, ma per il resto non c’erano segni di vita.
Sapeva che si trattava di un’illusione. Quella parte del confine tra il Messico e gli Stati Uniti, delimitata soltanto da una rete di cinque fili spinati, brulicava di sofisticati sensori, telecamere a infrarossi e un radar satellitare; una pattuglia della polizia di confine era pronta a intervenire tempestivamente.
Ma Pendergast non si preoccupava. Aveva un vantaggio di cui pochi trafficanti e criminali di confine godevano: lui era diretto a sud. In Messico.
Legò i manici del sacchetto, trasformandolo in un rozzo zaino; se lo mise in spalla e s’incamminò.
Il movimento gli fece sanguinare di nuovo la ferita. Si fermò, si sedette e tolse la benda alla luce della torcia, cospargendola di pomata antibiotica; poi la fasciò di nuovo, con garze pulite e canovacci. Infine inghiottì quattro compresse di ibuprofene e di caffeina.
Gli ci vollero diversi minuti per rialzarsi. Non ce l’avrebbe fatta a percorrere ancora tutta quella strada. Mangiò un po’ di manzo essiccato e bevve un sorso d’acqua. Tenendosi lontano dalla strada sterrata e dal fiume, sperava di evitare le trappole elettroniche e i sensori. L’enorme dirigibile che volava mimetizzandosi nel cielo notturno sopra di lui avrebbe potuto notare la sua presenza, ma, poiché lui si muoveva verso sud, sperava di non provocare nessuna reazione; non ancora, almeno.
L’aria della sera, persino d’estate, era fresca. I coyote avevano smesso di latrare: il silenzio adesso era totale. Pendergast proseguì.
La strada disegnava un angolo di novanta gradi per poi procedere parallela a una recinzione di filo spinato: il confine vero e proprio. Attraversò, certo di avere attivato diversi sensori, e nel giro di qualche secondo aveva tagliato i fili e si era intrufolato nella parte messicana. Zoppicò nell’oscurità, oltrepassando un tratto abbandonato cosparso di ciottoli, punteggiato di unghie di gatto.
Poco dopo vide i fanali avvicinarsi al lato americano. Continuò a procedere, deviando verso i pioppi lungo il fiume, muovendosi più in fretta possibile. Diversi proiettori si accesero e coni di luce squarciarono la notte del deserto, perlustrando il paesaggio finché non si fissarono su di lui, inondandolo di un bianco brillante.
Non si fermò. Una voce amplificata dal megafono riecheggiò nei campi, parlando prima in inglese e poi in spagnolo, intimandogli di fermarsi, di voltarsi, di alzare le mani e identificarsi.
Pendergast non si arrestò e ignorò gli ordini. Non c’era nulla che potessero fare. Non potevano seguirlo e sarebbe stato inutile chiamare i poliziotti messicani. A nessuno interessava il traffico clandestino diretto a sud.
Proseguì verso il filare di pioppi. I fanali lo seguirono per un po’ e gli ordini provenienti dal megafono si diradarono, via via che si inoltrava tra gli alberi. Poi si arresero.
Nascosto dai rami, si sedette a riposare sulle rive del basso torrente San Pedro. Provò a mangiare, ma il cibo gli sembrava cartone; si sforzò di masticare e inghiottire. Bevve altra acqua e resistette all’impulso di togliere le bende già zuppe di sangue.
Calcolò che Helen e i rapitori avrebbero attraversato il confine più o meno nello stesso momento, o forse l’avevano fatto poco prima di lui. Era un paesaggio ostile, arido e brullo, coperto di arbusti e mezquite, segnato da strade sterrate usate da clandestini e trafficanti di armi e droga. Der Bund aveva di certo organizzato il trasporto nel territorio messicano lungo una di quelle strade che portavano a Cananea, cinquanta chilometri a sud del confine. Avrebbe dovuto raggiungerli prima che arrivassero in città. Se non ce l’avesse fatta, le possibilità di ritrovare Helen sarebbero state quasi nulle.
Si alzò e zoppicò nel letto del fiume, in gran parte in secca, attraversando ogni tanto pozze di acqua stagnante di pochi centimetri. Poteva già essere troppo tardi.
Circa ottocento metri a sud, tra gli alberi, scorse alcune luci in lontananza. Spostandosi verso l’argine, scrutando davanti a sé, vide quello che sembrava un ranch isolato nella vasta pianura desertica. Era abitato.
La notte senza luna gli permise di avvicinarsi indisturbato. Deboli luci gialle illuminavano le finestre dell’edificio principale di mattoni, una vecchia struttura dipinta di bianco circondata da recinti per il bestiame divelti e dépendance in rovina. I nuovissimi Suv scintillanti parcheggiati all’esterno erano la prova che quel luogo ora veniva usato per qualcosa di ben diverso dall’allevamento del bestiame.
Pendergast si avvicinò al parcheggio e si acquattò. Vide il bagliore di una sigaretta e notò un uomo davanti all’ingresso principale, che sorvegliava i veicoli e la strada che conduceva al ranch, fumando con in mano un fucile d’assalto.
Trafficanti di droga, senza dubbio.
Sempre protetto dall’ombra, Pendergast fece il giro della casa. Parcheggiata da un lato c’era una moto: una Ducati Streetfighter S.
Muovendosi con estrema prudenza, Pendergast si avvicinò al lato senza finestre dell’edificio. Un basso muro di mattoni separava le sterpaglie dal cortile polveroso. Si accovacciò e lo oltrepassò con un balzo. Attese un momento che il dolore lancinante alla gamba si smorzasse. Poi, prese dalla tasca un coltello piccolo ma estremamente affilato, continuando a procedere rasente il muro.
Restò un attimo in ascolto. Si udivano un mormorio di voci e ogni tanto qualche colpo di tosse dell’uomo che fumava all’esterno. Dopo un momento, la guardia gettò il mozzicone e lo calpestò con il piede. Poi vide il lampo di un accendino, la luca fioca nel cortile buio, mentre l’uomo si accendeva un’altra sigaretta. Lo sentì aspirare rumorosamente, espirare, schiarirsi la gola.
Acquattato nell’angolo, Pendergast frugò tra la ghiaia alla ricerca di un sasso grande almeno quanto un pugno. Lo picchiettò a terra, poi rimase in attesa. Niente. Graffiò il terreno, facendo un rumore un po’ più forte.
Dietro l’angolo, l’uomo si immobilizzò.
Pendergast raschiò ancora, rumorosamente.
Ancora silenzio. Poi, lo scricchiolio dei passi della guardia, che si avvicinò all’angolo dell’edificio e si fermò. Pendergast riuscì a sentire il suo respiro, avvertì il rumore metallico del fucile mentre veniva imbracciato per sparare.
Lentamente, Pendergast si abbassò ancora, resistendo al dolore. All’improvviso la guardia comparve dietro l’angolo, con l’arma spianata. Con un movimento fulmineo, l’agente balzò in piedi, recidendo con la punta del coltello il tendine dell’indice destro dell’avversario, mentre contemporaneamente scostava il fucile e colpiva con la pietra la tempia dell’uomo, che cadde privo di sensi, senza un suono. Pendergast afferrò il fucile, un M4. Scivolò fino alla Ducati. La chiave era nel blocchetto di accensione. La moto con il telaio a traliccio in vista non aveva bisacce, per cui dovette mettersi in spalla lo zaino improvvisato, insieme all’M4. Restando nell’ombra, raggiunse i tre Suv parcheggiati e affondò la punta del coltello in ogni pneumatico.
Tornò alla Streetfighter, montò in sella e mise in moto. Senza perdere nemmeno un secondo, appena il potente motore si fu acceso rombando, Pendergast innestò la frizione e diede gas.
Sollevò un’enorme nuvola di polvere nel vialetto, portando i giri a oltre ottomila al minuto, quando – era ancora in prima – vide nello specchietto laterale i trafficanti che sciamavano come api fuori dal ranch, con le armi in mano. Cambiò subito marcia e inserì la seconda mentre risuonava una salva di colpi. Le luci dei Suv si accesero, poi altri spari e grida infuriate… si lasciò tutto alle spalle, scomparendo nel buio.
Continuò a procedere verso sud, sfrecciando attraverso il deserto. Doveva intercettarli prima di Cananea…
Spinse la Streetfighter ancora più veloce, mentre l’immenso cielo notturno, punteggiato di stelle, scorreva sopra di lui.