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Il dottor John Felder salì i gradini dell’ingresso principale dell’imponente edificio gotico. Era una luminosa mattina di autunno inoltrato, l’aria era frizzante, il cielo senza nuvole. La facciata esterna della residenza era stata recentemente ripulita e i vecchi mattoni risplendevano alla luce del sole. Persino le sbarre nere alle finestre decorate erano state tirate a lucido. L’unica cosa che, a quanto sembrava, non era lustra era una placca di bronzo appesa alla facciata: MOUNT MERCY HOSPITAL, MANICOMIO CRIMINALE.
Felder suonò il campanello e rimase in attesa. Andò ad aprire il dottor Ostrom in persona, il direttore dell’istituto. Felder ignorò l’espressione fredda e seccata sul viso del medico. Non era contento di vederlo.
Ostrom indietreggiò, permettendo a Felder di entrare. Poi fece un cenno a una guardia, che richiuse immediatamente la porta a chiave.
«Dottor Ostrom» cominciò Felder. «Grazie per avermi concesso questa visita.»
«Ho provato a contattare Pendergast per chiedergli la sua approvazione» rispose Ostrom. «Tuttavia non ci sono riuscito e non vedo alcuna buona ragione per negarle l’autorizzazione, data la sua posizione – tecnicamente, almeno – di psichiatra forense.» Condusse Felder dall’altro lato della sala d’aspetto e abbassò la voce. «Naturalmente ci sono alcune regole fondamentali a cui dovrà attenersi.»
«Certamente.»
«La sua visita, e anche quelle future, saranno di soli dieci minuti.»
Felder annuì.
«Non dovrà in alcun modo turbare la paziente.»
«No, naturalmente.»
«E non saranno permesse uscite…»
«Dottore, la prego» interruppe Felder, come se solo farvi cenno fosse doloroso.
Ostrom sembrò soddisfatto. «In questo caso, venga con me. È sempre nella stessa stanza, anche se abbiamo aumentato le misure di sicurezza.»
Felder e Ostrom seguirono un inserviente per un lungo corridoio, che aveva su entrambi i lati porte senza scritte. Mentre camminava, Felder avvertì un brivido corrergli lungo la schiena. Era passato davvero poco tempo da quando quell’edificio aveva subìto l’umiliazione e l’onta peggiori di tutta la sua storia. Una paziente era riuscita a scappare. No, non a scappare, si corresse mentalmente: era stata rapita, da un uomo che fingeva di essere uno psichiatra. Al solo pensiero, Felder si sentì avvampare. Si era fatto ingannare, non aveva avuto il minimo sospetto. Se la paziente non fosse stata riportata immediatamente al Mount Mercy, la sua carriera sarebbe stata a rischio. Se l’era cavata con un mese di permesso obbligatorio. C’era mancato poco, davvero poco. Adesso però era tornato. Cosa lo spingeva verso quella paziente?
Attesero mentre l’inserviente apriva una pesante porta d’acciaio, poi procedettero lungo un altro corridoio, fermandosi infine davanti a una porta identica a tutte le altre, tranne per il fatto che era sorvegliata da una guardia. Ostrom si rivolse a Felder.
«Vuole che rimanga con lei?»
«Grazie, non sarà necessario.»
«Molto bene. Ricordi: dieci minuti.» Ostrom aprì la porta con una chiave appesa a una pesante catena.
Felder entrò, poi attese che la porta venisse richiusa a chiave dietro di lui. Lasciò che gli occhi si abituassero alla luce fioca. Lentamente, i contorni della stanza divennero più definiti: il letto, il tavolo e la sedia, tutti inchiodati al suolo; la libreria piena di vecchi volumi, molti rilegati in pelle, il vaso di plastica. E lì, dietro al tavolo, sedeva composta Constance Greene. Davanti a lei non c’erano libri o quaderni. Felder pensò che forse stesse meditando. A ogni modo, gli occhi freddi che incontrarono i suoi non avevano nulla di inerte o sognante. Senza accorgersene, Felder trattenne il respiro.
«Constance» disse, torcendosi le dita come un ragazzino imbarazzato.
Per un attimo, la donna non rispose. Con un lieve movimento del capo fece ondeggiare i capelli a caschetto. «Dottor Felder.»
Felder aveva immaginato quel momento per due settimane. E tuttavia, udire quella voce bassa e antica sembrò far incrinare il discorso che si era preparato con cura. «Ascolta, Constance. Volevo solo dirti… be’, mi dispiace tanto. Mi dispiace per tutto.»
Constance lo guardò con un’espressione inquietante, ma non rispose.
«Posso solo ipotizzare quanto dolore, sofferenza – e mortificazione – io debba averti causato. Ma devi capire che era davvero l’ultima cosa che volevo per un paziente.» In particolare per una paziente tanto speciale, pensò il medico.
«Le sue scuse sono accettate» rispose.
«Per l’impazienza di aiutarti, ho abbassato la guardia. Mi sono lasciato ingannare. In realtà siamo stati ingannati tutti quanti.»
Questo estremo tentativo di salvare la faccia non suscitò alcuna reazione.
«Ti senti bene, Constance?» aggiunse con tono premuroso.
«Per quanto possibile.»
Felder sussultò. Per un istante, il silenzio calò nella piccola stanza, mentre rifletteva su cosa dire.
«Ho commesso un errore» concluse. «Ma ho imparato da quell’errore. Mi ha ricordato una cosa. C’è una regola che ci insegnano all’università: non ci sono scorciatoie per le cure efficaci.»
Constance si spostò lievemente sulla sedia, muovendo le mani. Per la prima volta, Felder notò la fasciatura al pollice destro.
«Non è un segreto che abbia particolarmente a cuore il tuo caso» proseguì. «In effetti, potrei affermare che nessuno più di me si sforza di capire la tua condizione.»
Queste parole suscitarono un sorriso glaciale. «Condizione» ripeté lei.
«Vorrei chiederti se fosse possibile ricominciare la cura da dove l’abbiamo interrotta, ricominciando a lavorare nello spirito di…»
«No» interruppe Constance. La sua voce era debole, ma aveva una tale fermezza che bloccò Felder.
Lui deglutì. «Come?»
Lei parlò tranquillamente ma con determinazione, senza mai distogliere lo sguardo da lui. «Come può anche solo pensare di continuare la sua cosiddetta terapia? A causa della sua mancanza di giudizio, sono stata rapita e aggredita. A causa della sua ansia di intrecciare un rapporto professionale con una paziente che riteneva esotica, sono stata tenuta prigioniera e ho rischiato di morire. Non insulti la mia intelligenza rendendomi complice del suo fallimento. Come può aspettarsi che mi fidi ancora di lei? La fiducia è una parte essenziale della terapia. Naturalmente, presupponendo che io abbia bisogno di cure: una supposizione alquanto offensiva da parte sua.»
La collera scemò in fretta. Felder aprì la bocca, ma non c’era nulla da dire.
Nel silenzio udirono bussare. «Dottor Felder?» La voce di Ostrom risuonò dall’altra parte della porta. «I dieci minuti sono terminati.»
Felder tentò di dirle addio, ma non ci riuscì. Poi si voltò verso l’uscita.
«Dottor Felder» lo richiamò Constance tranquilla.
Lui si girò.
«Forse sono stata troppo dura con lei. Potrà farmi visita di tanto in tanto, ma in veste di conoscente, non come medico.»
Felder avvertì un sollievo improvviso e totale. «Grazie» rispose, meravigliandosi della forza dei suoi sentimenti, mentre usciva nel debole chiarore del corridoio.