3

Il tenente Vincent D’Agosta aveva imparato da tempo ad arrivare in ritardo agli appuntamenti all’obitorio della Ventiseiesima Strada. L’esperienza gli aveva insegnato che la puntualità aveva degli svantaggi, tra cui assistere alle operazioni finali dell’autopsia, inevitabilmente le peggiori.

Gli avevano assicurato che si sarebbe abituato. Ma non era stato così.

Questa volta, lo sapeva, sarebbe stata peggiore di molte altre. Una giovane consulente informatica di Boston in viaggio d’affari era stata massacrata e smembrata in un hotel di lusso. Le telecamere di sicurezza avevano ripreso il killer, che sembrava un modello, e anche la vittima era altrettanto bella. La natura del crimine – che aveva tutti i tratti di un omicidio casuale, compiuto per piacere, forse con una componente libidinosa – prometteva di suscitare un forte interesse nell’opinione pubblica.

Da un certo punto di vista, anche se odiava ammetterlo, non gli dispiaceva trovarsi lì. Il capitano gli aveva assegnato il caso, mettendolo a capo della squadra. Era il suo crimine, la sua creatura.

Attraversò le porte con sopra inciso il monito: Taceat colloquia. Effugiat risus. Hic locus est ubi mors gaudet succurrere vitae. «Smettete di parlare. Fate scomparire il riso. Questo è il luogo in cui la morte ama aiutare i vivi.» Queste parole lo fecero riflettere, con una certa soddisfazione, su quanto le cose stessero andando bene nella sua vita. Il problema al cuore era quasi completamente risolto, la relazione con Hayward procedeva, l’ex moglie era scomparsa dalla sua vita, si teneva regolarmente in contatto con il figlio e le lettere di richiamo sul lavoro appartenevano ormai al passato. L’unica questione irrisolta era Pendergast. Ma senza ombra di dubbio l’agente dell’Fbi sapeva badare a se stesso.

Poi la sua attenzione tornò sul caso di cui si stava occupando. Era più di una semplice opportunità: avrebbe segnato una svolta nella sua carriera, sarebbe stato un nuovo inizio. Forse era persino il primo passo per diventare capitano.

Accompagnato da quei pensieri percorse il corridoio principale dell’obitorio, mostrò il distintivo a un’infermiera, firmò e si avviò nella stanza numero 113. Indossò il camice e, entrando, scoprì che il tempismo era perfetto.

Il corpo smembrato giaceva su un tavolo autoptico. Su un altro, disposti in fila con precisione, c’erano i pezzi, grandi e piccoli, che erano stati asportati dal cadavere, insieme ai contenitori Tupperware in cui erano stati riposti i vari organi rimossi dal patologo nel corso dell’autopsia.

Il patologo forense stava pesando il fegato, prima di riporlo nel suo contenitore.

Intorno al cadavere c’erano due persone della sua squadra: Barber, l’investigatore del distretto, e l’agente della Scientifica con quel nome strano che non riusciva a ricordare. Barber era in forma, sempre allegro, con gli occhi castani da bambino che osservavano tutto. Il tipo grosso delle impronte – come diavolo si chiamava? – aveva l’espressione di uno che avesse grandi notizie. Ma nessuno dei due sembrava minimamente a disagio. Come accidenti ci riuscivano?

D’Agosta provò a evitare di soffermarsi sui dettagli; si guardò in giro, senza indugiare su niente in particolare. Nonostante la situazione, si sentiva piuttosto bene: quella mattina, con rammarico della fidanzata Laura, aveva rifiutato la sua colazione preferita: french toast con pane challah e succo d’arancia, o magari caffè, accontentandosi di un bicchierone di acqua minerale italiana.

Un mormorio di saluti, cenni del capo. Non riconobbe la patologa forense con il camice, che stava ancora dettando alcuni dati. Era difficile immaginarsela senza mascherina, ma intuiva che era giovane e piuttosto bella, con i lucidi capelli neri pettinati all’indietro, e anche molto nervosa.

«Dottoressa? Sono il tenente D’Agosta, il comandante della squadra» la salutò.

«Dottoressa Pizzetti» si presentò. «Sono la nuova patologa.»

Bene. Italiana. Un buon segno. L’aggettivo «nuova» spiegava il suo nervosismo.

«Quando ha tempo può aggiornarmi sulla situazione, dottoressa Pizzetti?» le chiese.

«Naturalmente.» Dettando le ultime osservazioni, il medico cominciò a mettere in ordine il cadavere, che giaceva sul tavolo come un puzzle assemblato sommariamente; sistemò gli organi che si erano spostati durante l’autopsia, restituendo al corpo sembianze umane. Sigillò i coperchi dei contenitori ancora aperti. Poi l’assistente le sussurrò qualcosa all’orecchio e le passò un lungo ago dall’aspetto inquietante.

D’Agosta si irrigidì. A cosa serviva? Odiava gli aghi.

La Pizzetti si chinò sulla testa. Il cranio era già aperto, il cervello rimosso. Non era finita? Cosa diavolo stava facendo?

Mentre lui guardava, lei allungò la mano, aprì l’occhio del cadavere con il pollice e inserì l’ago.

D’Agosta avrebbe dovuto distogliere lo sguardo più in fretta: la vista dell’ago che penetrava nell’occhio azzurro gli strinse lo stomaco in una morsa. Di solito i campioni di fluido oculare per i test tossicologici li raccoglievano all’inizio dell’autopsia, non alla fine.

D’Agosta finse di tossire nella mascherina, guardando a terra.

«Abbiamo quasi finito, tenente» spiegò la Pizzetti. «Ci serve solo un ultimo campione. Quello che abbiamo prelevato la prima volta non era sufficiente.»

«Va bene, non c’è problema.»

La dottoressa gettò l’ago tra i rifiuti sanitari e porse la siringa, piena di un fluido giallo-arancio, all’assistente. Si tolse i guanti sporchi, buttandoli nell’apposito contenitore, si scostò la mascherina dal viso e rimosse l’auricolare. L’assistente le porse una cartellina.

Era davvero tesa. D’Agosta si intenerì: era giovane, una nuova assunta, probabilmente al suo primo caso di alto profilo e preoccupata di commettere qualche errore. Ma, a quanto pareva, aveva fatto un lavoro molto scrupoloso.

La dottoressa iniziò la relazione con la consueta litania: altezza, peso, età, causa del decesso, segni particolari, vecchie ferite, salute, malattie, patologie. La sua voce era gradevole, benché tesa. L’uomo delle impronte prendeva appunti. D’Agosta preferiva ascoltare e memorizzare; scrivere spesso lo distraeva.

«La causa della morte è la ferita alla gola» chiarì il medico. «Non ci sono tracce di tessuti sotto le unghie. I test tossicologici preliminari sono tutti negativi. Nessun segno di lotta.»

Proseguì con una descrizione meticolosa della profondità e dell’angolazione di ogni singola pugnalata. Era un assassino organizzato, intelligente, pensò D’Agosta, quando sentì che la donna era stata uccisa con un solo colpo inferto da un coltello a doppia lama affilatissimo, di circa dieci centimetri, costringendola subito al silenzio e dissanguandola rapidamente.

«La morte» concluse «è sopraggiunta nel giro di trenta secondi. Tutti gli altri tagli sono stati inferti successivamente.»

Una pausa.

«Il corpo è stato smembrato usando una sega Stryker, o una molto simile.» Indicò un modello appoggiato su uno scaffale accanto al corpo. «La Stryker ha una lama cuneiforme che si muove avanti e indietro ad alta velocità, spinta dall’aria compressa. È progettata proprio per tagliare le ossa e fermarsi non appena incontra un tessuto molle. È fatta appositamente per non spruzzare frammenti o fluidi mentre taglia. Sembra che l’assassino sappia usarla molto bene. In maniera insolitamente accurata.»

Tacque di nuovo.

D’Agosta si schiarì la voce. Il groppo alla gola non era passato, ma almeno non rischiava più di vomitare. «Quindi l’assassino potrebbe essere un medico legale o un chirurgo ortopedico?» domandò.

Un lungo silenzio. «Non sta a me fare supposizioni.»

«Desidero soltanto la sua opinione estemporanea, dottoressa. Non le chiederei mai una conclusione scientifica. Che ne pensa?» Il tenente tentò di parlarle con gentilezza, per non farla sentire sotto pressione.

Un’altra esitazione. D’Agosta iniziò a capire perché fosse tanto tesa: forse si stava chiedendo se l’assassino non fosse un collega. «Ho l’impressione che chi ha fatto questo abbia una preparazione professionale» rispose d’un fiato.

«Grazie.»

«L’assassino ha usato anche attrezzi chirurgici per tagliare, con notevole precisione, fino all’osso i retrattori per asportare la carne – ci sono i segni – e, come ho detto, la Stryker per segare l’osso. Tutte le ferite sono molto accurate, senza sbavature, senza errori, come farebbe un chirurgo amputando un arto. L’unica differenza, naturalmente, è che i vasi sanguigni non sono stati cauterizzati.»

Si schiarì la gola. «Il corpo è stato smembrato in modo simmetrico: un taglio sette centimetri sotto il ginocchio, uno sette centimetri sopra, uno cinque centimetri sopra il gomito e un altro cinque centimetri sotto. E poi le orecchie, il naso, le labbra, il mento e la lingua sono stati rimossi. Il tutto, lo ripeto, con una precisione chirurgica.»

Indicò le parti del corpo, disposte su un secondo tavolo accanto al cadavere. Le orecchie, il naso, le labbra e altre piccole porzioni erano state lavate e sembravano fatte di cera.

D’Agosta si sentì stringere lo stomaco; sentiva di nuovo un groppo alla gola. Cristo, anche il bicchiere d’acqua minerale a colazione era stato un errore.

«E poi c’era questo.» La Pizzetti si voltò e indicò una foto 20×25 attaccata a una lavagnetta di sughero, insieme a molte altre scattate sulla scena del crimine. D’Agosta l’aveva già vista, ma ne fu sconvolto di nuovo.

Sullo stomaco della vittima, un messaggio era stato tracciato con il sangue:

Sei orgoglioso di me?

D’Agosta guardò l’uomo della Scientifica. Come si chiamava? Era il suo turno e, dallo scintillio negli occhi, il tenente capì che aveva qualcosa da dire e gli diede la parola: «Dica pure, signor…».

«Kugelmeyer» aggiunse prontamente l’uomo. «Grazie. In pratica, dal corpo abbiamo ricavato una serie completa di impronte digitali: pollice e indice destro e sinistro, anulare destro, alcune parziali del palmo. E poi ci sono due meravigliose impronte raccolte grazie al messaggio scritto con il sangue della vittima, nientedimeno che con l’indice sinistro.»

«Molto bene» commentò D’Agosta. Era soddisfatto. Il killer era stato incredibilmente imprudente: si era fatto riprendere da cinque o sei telecamere di sicurezza e aveva lasciato impronte su tutta la scena del crimine. La Scientifica non era stata in grado di identificare altro: né saliva, liquido seminale, sudore, sangue, né altri fluidi corporei dell’assassino. Naturalmente c’erano molti capelli e fibre – era pur sempre una stanza d’albergo – ma nulla che sembrasse promettente. Nessun segno di morsi sul corpo, né graffi, niente che contenesse il Dna dell’assassino. A ogni modo avevano tamponato numerose impronte, sperando di ottenere qualche cellula: erano fiduciosi che il laboratorio ci sarebbe riuscito.

La Pizzetti proseguì. «Non mostra segni di attività sessuale, penetrazione, violenza o molestie. La vittima si era appena fatta la doccia, il che ha reso più semplice il recupero di potenziali prove dal corpo.»

D’Agosta stava per fare una domanda, quando sentì dietro di lui una voce familiare.

«Bene, bene, guarda un po’ chi abbiamo qui, il tenente D’Agosta in persona. Come stai, Vinnie?»

D’Agosta si voltò e vide la figura imponente della dottoressa Matilda Ziewicz, primario di medicina legale di New York. Sembrava un giocatore di football, con il sorriso cinico sulla bocca dipinta di rosso, i capelli biondi e cotonati in una cuffia troppo grande, il grembiule oversize. Era brillante, massiccia, fisicamente repellente, sarcastica, temuta da tutti e molto competente. New York non aveva mai avuto un medico legale migliore.

La dottoressa Pizzetti si innervosì ancora di più.

La Ziewicz agitò una mano. «Va’ avanti, va’ avanti, non fare caso a me.»

Era impossibile non fare caso a lei, ma la Pizzetti fece uno sforzo, riprendendo la sua relazione dei risultati preliminari, più o meno rilevanti. La Ziewicz ascoltò attentamente, poi, mentre la Pizzetti proseguiva, intrecciò le dita dietro la schiena e iniziò a girare con esasperante lentezza intorno i due tavoli, esaminandoli con le labbra strette.

Dopo alcuni minuti, emise un sommesso «Mmm». Poi un altro, con un cenno del capo, un brontolio e un mormorio.

La Pizzetti tacque.

La Ziewicz si voltò verso D’Agosta. «Tenente, ricordi tanti anni fa gli omicidi del museo?»

«Come potrei dimenticare?» Era stata la prima volta che aveva incontrato quella donna impressionante, ai tempi in cui era stata nominata primario.

«Non pensavo che avrei mai visto in vita mia un caso insolito come quello. Fino ad ora.» Si rivolse alla Pizzetti e osservò: «Ti è sfuggito qualcosa».

D’Agosta vide la dottoressa irrigidirsi. «Mi è sfuggito… qualcosa?»

Annuì. «Qualcosa di fondamentale. Davvero. La cosa che rende questo caso…» Fece un gesto verso il cielo con la mano grassoccia. «… Straordinario.»

Seguì un lungo silenzio terrorizzato. La Ziewicz si voltò verso D’Agosta. «Tenente, mi meraviglio di te.»

D’Agosta era più divertito che offeso. «Hai visto un’unghia nascosta da qualche parte?»

La Ziewicz piegò la testa all’indietro ed esplose in una risata melodiosa. «Come sei simpatico.» Si rivolse alla Pizzetti mentre tutti nella stanza si scambiavano sguardi confusi. «Un buon patologo forense si predispone a effettuare un’autopsia senza alcun tipo di preconcetto.»

«Sì» confermò la Pizzetti.

«Ma tu sei venuta qui con un preconcetto.»

Il panico della giovane dottoressa, già visibile, aumentò. «Non credo di averlo fatto. Non avevo pregiudizi.»

«Hai provato a non averne, ma non ci sei riuscita. Vedi, dottoressa, hai presupposto di avere a che fare con un solo cadavere.»

«Con il dovuto rispetto, dottoressa Ziewicz, non è così. Ho esaminato ogni ferita e cercato specificamente eventuali sezioni del corpo sostituite. Ma ogni pezzo combacia con gli altri. Nessuno è stato sostituito con quello di un altro cadavere.»

«O così sembra. Ma non hai compilato un inventario completo.»

«Un inventario?»

La Ziewicz spostò la sua mole accanto al secondo tavolo, dove porzioni del viso erano state sciacquate e messe in ordine. Indicò un piccolo frammento di carne. «Cos’è questo?»

La Pizzetti si chinò in avanti, scrutando con attenzione. «Una porzione… del labbro, ho pensato.»

«Hai pensato.» La Ziewicz allungò la mano, scelse un paio di lunghe pinze da un carrello e raccolse il brandello con estrema delicatezza. Lo posò sul piatto del microscopio stereoscopico, accese la luce e indietreggiò, invitando la Pizzetti a guardare.

«Cosa vedi?» chiese Ziewicz.

La Pizzetti guardò nel microscopio. «Mi sembra ancora un pezzetto di labbro.»

«Vedi della cartilagine?»

Una pausa. La Pizzetti spostò il brandello di carne con le pinze. «Sì, un piccolo frammento.»

«Quindi ti chiedo di nuovo: che cos’è?»

«Non è un labbro, allora, ma… un lobo. È il lobo di un orecchio.»

«Molto bene.»

La Pizzetti si rimise dritta: il suo viso era una maschera di tensione. Tuttavia Ziewicz sembrava aspettarsi di più; dunque, dopo un istante, la patologa si avvicinò al tavolo ed esaminò le due orecchie che giacevano come pallide conchiglie sull’acciaio inossidabile.

«Mmm, noto che ci sono entrambe le orecchie e sono intatte. Non manca nessun lobo.» La Pizzetti si fermò. Dopo un momento, tornò al microscopio e guardò ancora nella lente, dando dei colpetti al lobo con la punta delle pinze. «Non sono sicura che appartenga all’assassino.»

«No?»

«Questo lobo» fece la Pizzetti parlando con cautela «non sembra essere stato strappato o lacerato durante una lotta. Sembra piuttosto essere stato rimosso chirurgicamente, con cura, usando un bisturi.»

D’Agosta ricordò un dettaglio osservato nei nastri della sorveglianza che aveva visionato per ore. Fu percorso da un brivido. Si schiarì la voce e annunciò: «Per la cronaca, i nastri della sorveglianza mostrano che l’assassino aveva una piccola fasciatura sul lobo sinistro».

«Oh mio Dio» esclamò la Pizzetti nel silenzio stupito che seguì. «Non penserete che si sia tagliato il lobo da solo e l’abbia lasciato sulla scena del crimine?»

La Ziewicz fece un sorriso amaro. «Un’ottima domanda, dottoressa.»

Il silenzio calò nella stanza; infine la Pizzetti concluse: «Ordinerò un’analisi completa di questo lobo: al microscopio, test tossicologici, Dna e tutto il resto».

Con un sorriso luminoso, la dottoressa Ziewicz si tolse i guanti e la mascherina. «Molto bene, dottoressa Pizzetti. Ti sei riscattata. Buongiorno a tutti.»

E se ne andò.

Due tombe
9788858641743_epub_cvi_r1.htm
9788858641743_epub_abs_r1.htm
9788858641743_epub_ata_r1.htm
9788858641743_epub_fm01_r1.htm
9788858641743_epub_tp_r1.htm
9788858641743_epub_cop_r1.htm
9788858641743_epub_htp_r1.htm
9788858641743_epub_ded_r1.htm
9788858641743_epub_fm02_r1.htm
9788858641743_epub_pt01_r1.htm
9788858641743_epub_c01_r1.htm
9788858641743_epub_c02_r1.htm
9788858641743_epub_c03_r1.htm
9788858641743_epub_c04_r1.htm
9788858641743_epub_c05_r1.htm
9788858641743_epub_c06_r1.htm
9788858641743_epub_c07_r1.htm
9788858641743_epub_c08_r1.htm
9788858641743_epub_c09_r1.htm
9788858641743_epub_c10_r1.htm
9788858641743_epub_c11_r1.htm
9788858641743_epub_c12_r1.htm
9788858641743_epub_c13_r1.htm
9788858641743_epub_pt02_r1.htm
9788858641743_epub_c14_r1.htm
9788858641743_epub_c15_r1.htm
9788858641743_epub_c16_r1.htm
9788858641743_epub_c17_r1.htm
9788858641743_epub_c18_r1.htm
9788858641743_epub_c19_r1.htm
9788858641743_epub_c20_r1.htm
9788858641743_epub_c21_r1.htm
9788858641743_epub_c22_r1.htm
9788858641743_epub_c23_r1.htm
9788858641743_epub_c24_r1.htm
9788858641743_epub_c25_r1.htm
9788858641743_epub_c26_r1.htm
9788858641743_epub_c27_r1.htm
9788858641743_epub_c28_r1.htm
9788858641743_epub_c29_r1.htm
9788858641743_epub_c30_r1.htm
9788858641743_epub_c31_r1.htm
9788858641743_epub_c32_r1.htm
9788858641743_epub_c33_r1.htm
9788858641743_epub_c34_r1.htm
9788858641743_epub_c35_r1.htm
9788858641743_epub_c36_r1.htm
9788858641743_epub_c37_r1.htm
9788858641743_epub_c38_r1.htm
9788858641743_epub_c39_r1.htm
9788858641743_epub_c40_r1.htm
9788858641743_epub_c41_r1.htm
9788858641743_epub_c42_r1.htm
9788858641743_epub_c43_r1.htm
9788858641743_epub_c44_r1.htm
9788858641743_epub_c45_r1.htm
9788858641743_epub_c46_r1.htm
9788858641743_epub_c47_r1.htm
9788858641743_epub_c48_r1.htm
9788858641743_epub_c49_r1.htm
9788858641743_epub_c50_r1.htm
9788858641743_epub_c51_r1.htm
9788858641743_epub_c52_r1.htm
9788858641743_epub_c53_r1.htm
9788858641743_epub_c54_r1.htm
9788858641743_epub_c55_r1.htm
9788858641743_epub_c56_r1.htm
9788858641743_epub_c57_r1.htm
9788858641743_epub_c58_r1.htm
9788858641743_epub_c59_r1.htm
9788858641743_epub_c60_r1.htm
9788858641743_epub_c61_r1.htm
9788858641743_epub_c62_r1.htm
9788858641743_epub_c63_r1.htm
9788858641743_epub_c64_r1.htm
9788858641743_epub_c65_r1.htm
9788858641743_epub_c66_r1.htm
9788858641743_epub_c67_r1.htm
9788858641743_epub_c68_r1.htm
9788858641743_epub_c69_r1.htm
9788858641743_epub_c70_r1.htm
9788858641743_epub_c71_r1.htm
9788858641743_epub_c72_r1.htm
9788858641743_epub_c73_r1.htm
9788858641743_epub_c74_r1.htm
9788858641743_epub_c75_r1.htm
9788858641743_epub_c76_r1.htm
9788858641743_epub_c77_r1.htm
9788858641743_epub_c78_r1.htm
9788858641743_epub_c79_r1.htm
9788858641743_epub_c80_r1.htm
9788858641743_epub_c81_r1.htm
9788858641743_epub_c82_r1.htm
9788858641743_epub_c83_r1.htm
9788858641743_epub_c84_r1.htm
9788858641743_epub_c85_r1.htm
9788858641743_epub_c86_r1.htm
9788858641743_epub_c87_r1.htm
9788858641743_epub_c88_r1.htm
9788858641743_epub_c89_r1.htm
9788858641743_epub_c90_r1.htm
9788858641743_epub_c91_r1.htm
9788858641743_epub_c92_r1.htm
9788858641743_epub_c93_r1.htm
9788858641743_epub_c94_r1.htm
9788858641743_epub_c95_r1.htm
9788858641743_epub_c96_r1.htm
9788858641743_epub_c97_r1.htm
9788858641743_epub_c98_r1.htm
9788858641743_epub_c99_r1.htm
9788858641743_epub_c100_r1.htm
9788858641743_epub_bm01_r1.htm
9788858641743_epub_bm02_r1.htm