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Oltre il molo si estendeva una lingua di spiaggia di ciottoli. Cinquecento metri più in là, si innalzava la foresta: un muro buio, appuntito, in apparenza impenetrabile. Il cielo si scuriva, mentre il sole scompariva dietro l’ultimo strato di nubi e scintillava all’orizzonte in lampi di luce.
Pendergast prese dallo zaino una torcia, voltandosi verso l’imperturbabile Egon e parlando con voce sommessa ma carica di entusiasmo. «Amico mio, sta per arrivare il momento più adatto per avvistare la Queen Beatrice.»
Si avviò verso la spiaggia, con Egon alle spalle. Alcune piccole barche erano state trascinate sulla ghiaia, con le reti stese ad asciugare. Dopo qualche minuto raggiunsero il limitare della foresta. L’ultima luce del sole moriva dietro la fortezza dell’isola, accentuando lo splendore intenso dei riflettori. Un altro grido distante – umano? – fu portato dal vento.
«Egon, vedi quella rovina laggiù?» chiese Pendergast, indicando il forte. «Perché è illuminata? Cosa fanno lì?»
Egon lo guardò per un istante, con gli occhi che riflettevano il bagliore della fortezza. Poi per la prima volta parlò. «Ricerca agricola. Allevamento di animali.»
«Allevamento di animali?» Pendergast scosse la testa. «Be’, non sono affari miei. Raggiungiamo la foresta.» Frugò nello zaino e tirò fuori un’altra torcia. «Ecco una luce rossa anche per te. Per favore, non usare quella normale: la Queen Beatrice odia la luce. Seguimi, stammi accanto e non fare rumore.»
Porse la torcia a Egon e si inoltrò tra gli alberi. I rami spinosi di araucaria erano intrecciati al folto sottobosco rendendo difficile il passaggio; tutto era ancora bagnato a causa delle recenti piogge, ma Pendergast, snello e agile come un gatto, si muoveva rapido in mezzo alla vegetazione scura e gocciolante, facendo luce qua e là con la torcia, con il retino in mano, pronto a colpire.
«Stammi vicino!» sussurrò a Egon alle sue spalle, mentre l’uomo si muoveva a tentoni.
Il terreno iniziò a salire. Non c’erano sentieri in quella parte della foresta, né segni che qualcuno si fosse mai avventurato oltre la città. Sembrava un luogo inviolato. Eppure, per qualche inspiegabile ragione, c’era qualcosa che non andava.
«Eccone una!» urlò Pendergast all’improvviso. «La vedi? Oh mio Dio, non riesco a crederci!» In un secondo scomparve, facendo lampeggiare la torcia e agitando freneticamente il retino. Egon con un grido cominciò a inseguirlo, inciampando.
Dieci minuti più tardi, appostato su un grosso ramo a una decina di metri dal suolo, Pendergast vide Egon incespicare nella foresta, gridando il nome di Fawcett. Si guardava intorno puntando tra la vegetazione una potente torcia; la voce era stridula, carica d’ansia.
Pendergast attese mezz’ora, finché Egon non andò a cercarlo più a sud. Poi scese dall’albero. Posizionando uno speciale schermo sulla torcia, si spostò rapido seguendo il declivio. Per un’ora continuò a salire, finché non raggiunse uno stretto bordo di roccia: la bocca di un ampio cratere. Lì spense la luce e vi guardò dentro. Era piuttosto basso, con un diametro di vari chilometri, e comprendeva diverse migliaia di acri di campi e pascoli, rigogliosi per la ricchezza del suolo vulcanico. Era il granaio di Nova Godói, chiaramente il luogo dove un tempo sorgeva la piantagione di tabacco: il cratere costituiva un microclima perfetto per l’agricoltura. Dall’altra parte si innalzava un fitto gruppo di coni di lava nera. Tra essi c’erano capannoni, serre, fienili e silos. Il silenzio era totale, non si vedeva neanche una luce nell’oscurità vellutata.
Un sentiero nascosto costeggiava il margine roccioso, e Pendergast lo percorse finché non arrivò a una seconda stradina che svoltava giù nel cratere. Un attimo dopo aveva raggiunto il primo campo, una grande distesa di mais.
Ce n’erano altri oltre a quelli coltivati a mais: di pomodori, fagioli, zucche, grano, cotone, erba medica e coda di topo, così come ricchi pascoli per il bestiame. Li attraversò in fretta, fino alla zona in cui sorgevano gli edifici agricoli.
Scelse il primo: un enorme magazzino dal tetto metallico piatto. La porta era chiusa da un lucchetto, ma aprirla per lui non fu un problema. All’interno c’era odore di olio per motori, diesel e terra. Una rapida occhiata con la torcia schermata mostrò file di macchinari agricoli, trattori, dissodatori, aratri, erpici a dischi, piantatrici, concimatrici, mietitrici, imballatrici, retroescavatori e pale meccaniche: tutti d’epoca ma in condizioni eccellenti.
Attraversò l’edificio e uscì da una porta dal lato opposto. Alla sua destra c’era un granaio, da cui proveniva il muggito delle mucche da latte. Alla sua sinistra una serie di silos e di fronte a lui le serre. Era un impianto notevole, uno stabilimento agricolo straordinariamente ricco e produttivo, molto vasto, gestito e mantenuto in maniera impeccabile. E, a quanto pareva, abbandonato.
Pendergast perlustrò i dintorni delle serre, i pannelli di vetro che scintillavano al chiaro di luna. All’interno riusciva a vedere una profusione di fiori, a perdita d’occhio. Uno degli edifici traboccava di rose esotiche di ogni dimensione, colore e forma.
Oltre le serre si innalzavano i coni di cenere, ripidi e alti, con i fianchi coperti di polveri vulcaniche scivolose. Pendergast costeggiò la base di quello più vicino e si fermò: costruita in mezzo alla cenere, c’era una stretta struttura simile a un capanno, senza finestre, con il retro incassato nel cono.
Si avvicinò alla porta e accostò l’orecchio. Dapprima non udì nulla, ma, dopo qualche minuto, riuscì a cogliere dei suoni lievissimi: movimenti, sospiri, passi strascicati, forse persino un colpo di tosse.
Quella porta era stranamente solida, di legno pesante fissato con acciaio. La serratura era sofisticata, ma nulla che potesse ostacolare Pendergast. La porta si aprì sui cardini oliati; l’aria puzzava in maniera ripugnante. Il buio era totale.
Pendergast capì che il capanno era soltanto un ingresso, che conduceva a un’altra struttura sotterranea o forse costruita all’interno dei coni di cenere vulcanica. Di fronte a lui iniziava una scala bassa e ampia di pietra consumata. Pendergast si fermò sul primo gradino e cominciò a scendere. Una luce fioca e rossastra baluginava sotto di lui; mentre procedeva, il tanfo diventava più forte: era odore di corpi non lavati. Raggiunto il fondo della scala, si ritrovò in un lungo tunnel. Nell’oscurità, riusciva adesso a distinguere i rumori più chiaramente. Passi strascicati, respiri pesanti, mormorii: suoni prodotti da persone. Molte persone.
Con infinita prudenza, Pendergast avanzò nel buio, accostato al muro più vicino. Il bagliore rossastro proveniva da due finestre sprangate incassate in un paio di porte a due battenti, chiuse a chiave dall’altra parte della galleria. Tenendosi basso, Pendergast si avvicinò, esaminando le serrature, e rimase in ascolto. Al di là delle porte c’era qualcuno che camminava avanti e indietro: una guardia. Aspettò il momento giusto, poi si alzò e guardò attraverso le finestre.
Vide un’ampia stanza, illuminata dalla luce opaca e rossa di una serie di lampadine appese al soffitto. Il locale era occupato da file e file di letti a castello in legno grezzo, ognuno con sopra una coperta in cui era avvolto un essere umano, alcuni con i volti sofferenti nel sonno irrequieto, altri che si muovevano come fantasmi: qualcuno andava e veniva da una latrina posta su un lato della stanza. Altri ancora camminavano avanti e indietro senza un motivo, insonni, con gli occhi senza speranza che riflettevano la luce rossa.
Tutto ciò che Pendergast non aveva visto a Nova Godói era lì: i deformi, gli zoppi, i brutti e i grassi, i deboli, gli anziani e, soprattutto, i malati di mente. Ma ciò che lo fece inorridire di più fu riconoscere alcuni di quei volti. Poche ore prima, aveva visto quelle stesse facce in città: erano le controparti raggianti e sorridenti… i loro gemelli. Soltanto quei Doppelgänger sotterranei possedevano l’espressione strana e inquietante dei malati mentali, gli stessi sguardi vuoti e disperati. La pelle scura e nerboruta e le mani ruvide erano la prova di una vita di lavoro nei campi.
Vide la guardia voltarsi. Era uno degli altri: alto e bello. La sua presenza non pareva necessaria, quelle povere anime non erano in condizione di ribellarsi, di scappare o di causare problemi.
Pendergast si abbassò, tornò nel tunnel e risalì la scala. Qualche minuto più tardi, respirava profondamente, ansimando nell’aria fresca, con quell’immagine grottesca di sofferenza umana impressa nella memoria per sempre.