Quarantaquattro ore dopo

Bussarono alle due e mezzo del pomeriggio. Kurt Weber posò la bottiglia di tè zuccherato che stava sorseggiando, si asciugò gli angoli della bocca con un fazzoletto di seta, spense il monitor del computer e attraversò il pavimento di mattonelle per rispondere. Un rapido sguardo attraverso lo spioncino gli mostrò un gentiluomo dall’aria rispettabile.

«Chi è?»

«Sto cercando la Freiheit Importing Company.»

Weber rimise il fazzoletto in tasca e aprì la porta. «Mi dica.»

L’uomo rimase nel corridoio: snello, con penetranti occhi d’argento e capelli biondi così chiari da sembrare bianchi. «Posso rubarle un minuto?» chiese.

«Certamente.» Weber spalancò la porta e gli fece cenno di accomodarsi. Per quanto semplice, il completo nero del visitatore era cucito in un tessuto di altissima qualità e di squisita fattura. Weber aveva sempre avuto un debole per l’eleganza e, mentre tornava alla scrivania si ritrovò a sistemarsi i gemelli senza rifletterci.

«Interessante» commentò l’uomo guardandosi intorno «che gestiate i vostri affari in un hotel.»

«Non è sempre stato un albergo» replicò subito Weber. «È stato costruito nel 1929 ed era noto come Rhodes-Haverty Building. Quando è diventato un hotel, non ho trovato validi motivi per prenderci il disturbo di traslocare. Da qui si gode di una superba vista del quartiere storico di Atlanta.»

Si sedette alla scrivania. «Come posso esserle d’aiuto?» La visita di quell’uomo elegante era quasi certamente un errore: le “importazioni” di Weber avvenivano soltanto per un unico cliente privato, ma non era la prima volta che veniva contattato da altri. Si era imposto di essere sempre gentile, per dare l’impressione di occuparsi di affari legali.

L’uomo si sedette. «Ho soltanto una domanda. Mi risponda e me ne andrò.»

Qualcosa nel suo tono fece esitare Weber. «E qual è la domanda?»

«Dove si trova Helen Pendergast?»

Non è possibile! pensò Weber. Ma ad alta voce replicò: «Non so proprio di cosa stia parlando».

«Lei possiede un magazzino in un sobborgo della contea di Rockland, nello Stato di New York. È da quel magazzino che è partita l’operazione per rapire Helen Pendergast.»

«Tutto questo non ha senso. E visto che sembra che lei non abbia affari da proporre, temo che dovrò chiederle di andarsene, signor…?» Mentre parlava, Weber aprì il cassetto centrale della scrivania e vi infilò una mano, con molta disinvoltura.

«Pendergast» rispose lo straniero. «Aloysius Pendergast.»

Weber afferrò la Beretta, ma, prima che potesse prendere la mira, l’altro, che sembrava avergli letto nel pensiero, gli assestò un colpo e lo disarmò. La pistola cadde sul pavimento. Tenendo sotto tiro Weber con la sua, che sembrò comparire dal nulla, Pendergast raccolse la Beretta, la ripose in tasca e tornò a sedersi.

«Ripartiamo dall’inizio?» chiese con tono conciliante.

«Non ho nulla da dirle» ribatté Weber.

L’uomo che si era presentato come Pendergast sollevò la pistola. «Davvero non le importa nulla di morire?»

Weber aveva ricevuto un addestramento preciso riguardo le tecniche di interrogatorio: sapeva utilizzarle e sapeva resistere. Gli avevano insegnato anche come una persona di razza superiore dovesse comportarsi di fronte agli altri. «No, se devo morire per ciò in cui credo.»

«Siamo in due.» Il visitatore tacque, riflettendo. «E in che cosa crede, esattamente?»

Weber si limitò a sorridere.

Pendergast si guardò di nuovo intorno. Poi tornò a fissare Weber. «Indossa un completo piuttosto raffinato.»

Nonostante la grossa Colt puntata su di lui, Weber era calmo e padrone di sé. «Grazie.»

«È per caso di Hardy Amies, il mio sarto?»

«Purtroppo no. Taylor e Merton, qualche negozio più in là rispetto a Amies, sempre su Savile Row.»

«Noto che entrambi abbiamo una predilezione per gli abiti eleganti. Immagino che il suo interesse vada al di là dei completi e si estenda anche alle cravatte, per esempio.» Pendergast accarezzò la propria. «Mentre in passato preferivo cravatte parigine fatte a mano, come le Charvet, da un po’ mi affido a Jay Kos, come per quella che indosso adesso. Costa duecento dollari; non è a buon mercato ma a parer mio vale ogni centesimo.» Sorrise a Weber. «Lei da chi compra le cravatte?»

Se era una nuova tecnica di interrogatorio, pensò Weber, con lui non avrebbe funzionato. «Brioni» rispose.

«Brioni» ripeté Pendergast. «Ottima fattura.»

In un attimo, con una rapidità sorprendente, Pendergast schizzò dalla sedia, balzò oltre la scrivania e lo afferrò per la gola.

Trascinandolo con forza, aprì la finestra più vicina e vi spinse contro Weber, che tentava invano di liberarsi. Preso dal panico, l’uomo si aggrappò al davanzale. Sentiva il traffico di Peachtree Street venti piani sotto di lui e avvertiva la corrente ascensionale.

«Amo le finestre di questi vecchi grattacieli» commentò Pendergast. «Si aprono davvero. E devo ammettere che aveva ragione sul panorama.»

Weber si tenne disperatamente alla cornice della finestra, ansimando terrorizzato.

Pendergast colpì con il calcio della pistola le dita della mano sinistra di Weber, rompendogli le ossa, poi fece lo stesso sulla destra.

Con un urlo straziante, Weber si ritrovò sospeso nel vuoto; agitò le braccia invano, ma Pendergast gli impedì di precipitare afferrandolo per la cravatta.

Weber dimenò freneticamente le gambe. Rischiava di soffocare.

«Un uomo dovrebbe sempre conoscere il suo guardaroba… e i limiti dei suoi abiti» proseguì Pendergast, con un tono sempre leggero e colloquiale. «Le mie cravatte Jay Kos, per esempio, sono fatte di seta italiana sette pieghe. Belle e anche resistenti.»

Diede alla cravatta di Weber uno strappo violento. L’uomo sussultò, cercando disperatamente un appiglio. Tentò di parlare, ma la cravatta lo stava strozzando.

«Ma purtroppo altri produttori non sono altrettanto generosi» proseguì Pendergast. «Sa, una sola cucitura, due sole pieghe.» Diede un altro strattone. «Dunque voglio essere sicuro della qualità della sua cravatta prima di porle di nuovo la domanda.»

Uno strappo.

Con un suono sgradevole, la cravatta di Weber iniziò a lacerarsi. Lui la fissò, sussultando involontariamente.

«Oh, accidenti» osservò Pendergast deluso. «Brioni? Non credo. Forse le hanno rifilato un’imitazione. Oppure è stato approssimativo nella descrizione, mi ha mentito riguardo al suo confezionista.»

Un altro strappo.

La cravatta adesso era squarciata per metà. Con la coda dell’occhio, Weber vide la folla che si radunava sotto di lui, indicando verso l’alto. Iniziò a sentire la testa che fluttuava. Il panico prese il sopravvento.

Uno strappo. Una lacerazione.

«Va bene!» gridò Weber, cercando di afferrare la mano di Pendergast con le dita fratturate e ritorte. «Parlerò!»

«Faccia in fretta. Questa cravatta da quattro soldi non reggerà a lungo.»

«Lei…. Lei lascerà il Paese stasera.»

«Quando? Come?»

«Con un aereo privato. Fort Lauderdale. Pettermars Airport. Alle nove.»

Con un ultimo strattone violento, Pendergast tirò Weber all’interno dell’ufficio.

«Scheiße!» gridò l’uomo abbandonandosi sul pavimento in posizione fetale, portandosi al petto le mani fratturate. «La mia cravatta poteva strapparsi completamente!»

L’agente sorrise. E all’improvviso Weber capì: si trattava di un uomo fuori di sé, anche se sano di mente.

Pendergast indietreggiò di un passo. «Se ha detto la verità e riuscirò a raggiungere Helen senza problemi, non mi farò più rivedere. Ma se mi ha ingannato, verrò a farle visita di nuovo.»

Mentre si voltava verso la porta, Pendergast si fermò. Si allentò la cravatta, sciolse il nodo e la gettò a Weber. «Questa è fatta come si deve. Ricordi cosa le ho detto sull’essere approssimativi.» Con un ultimo sorriso glaciale, scivolò fuori dall’ufficio.

Due tombe
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