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D’Agosta aveva preteso la sala conferenze principale dal detective Dureau dell’One Police Plaza, il quartier generale del Dipartimento di Polizia di New York. Dopo l’autopsia, aveva bevuto tre caffè doppi e mangiato due fette di torta allo Starbucks nella hall; ora aveva qualche problema di digestione.
Mezzogiorno e venticinque. Cristo, sarebbe stata una giornata lunga. Il problema era che, nonostante i progressi, aveva una brutta sensazione riguardo l’indagine. Molto brutta. Si chiese di nuovo dove diavolo fosse Pendergast. Avrebbe voluto mostrargli le prove e chiedergli un parere informale. Era proprio il suo genere di caso. Proctor, appena uscito dall’ospedale, era tornato nella tenuta di Riverside Drive, ma non aveva notizie dell’agente dell’Fbi. Nemmeno Constance ne sapeva nulla. Nessuno rispondeva al telefono nell’appartamento del Dakota e il cellulare di Pendergast era ancora spento.
D’Agosta scosse la testa. Non c’era motivo di preoccuparsi: Pendergast spariva spesso senza preavviso.
Era ora di andare. Afferrò la cartellina e il computer portatile, si alzò dalla scrivania e uscì dall’ufficio, dirigendosi nella sala conferenze. Erano stati assegnati più di trenta agenti per quell’omicidio: si trattava di un caso di media importanza. Per quelli di più alto profilo il numero poteva anche raddoppiare. Ma era comunque un mucchio di gente, e tutti avrebbero avuto qualcosa da dire. Sarebbe stato un pomeriggio intenso. Tuttavia, incontri del genere erano necessari: ciascun membro della squadra doveva essere informato sui progressi degli altri. E sapeva bene che, per quanto un poliziotto venisse blandito o minacciato, non sarebbe mai riuscito a mettersi seduto a leggere un rapporto.
Arrivò qualche minuto dopo l’una: fu contento di vedere che c’erano già tutti. I presenti erano inquieti e il loro nervosismo era palpabile. Quando il mormorio diminuì, D’Agosta sentì un brontolio sinistro nello stomaco. Si avvicinò a grandi passi al leggio che si trovava sul palco accanto a uno schermo per le proiezioni. Ai lati c’erano lavagne bianche con le ruote. Guardandosi intorno, notò il capitano Singleton, il capo dei detective. Sedeva in prima fila, accanto al vicecapo di Manhattan e a diversi altri pezzi grossi.
Il suo stomaco si fece sentire di nuovo. Appoggiando il fascicolo sul leggio, attese un momento che il silenzio calasse del tutto, poi cominciò il discorso.
«Come molti di voi già sapranno, sono il tenente D’Agosta, comandante della squadra.» Fornì al gruppo una brevissima sintesi sull’omicidio, poi consultò la lista di nomi che aveva redatto. «Kugelmeyer, polizia Scientifica.»
L’uomo si avvicinò al leggio, abbottonandosi l’orrendo doppiopetto marrone di Walmart. D’Agosta mise un dito sull’orologio, dando un lieve colpetto: aveva minacciato tutti di morte, se avessero sforato i cinque minuti accordati.
«Abbiamo rinvenuto un’eccellente serie di impronte sul cadavere e nella stanza» si affrettò a spiegare Kugelmeyer. «Complete e parziali, destre e sinistre, compresi i palmi. Le abbiamo confrontate con tutti i database. Niente. L’assassino, a quanto pare, non è mai stato schedato.»
Era tutto. Kugelmeyer tornò a sedersi.
D’Agosta diede la parola al successivo esperto: «Forman, capelli e fibre?».
Un rapido resoconto, che fu seguito da una decina di altri: macchie di sangue, orme, elementi microscopici, vittimologia. I rapporti si susseguivano con una precisione svizzera, con grande soddisfazione di D’Agosta. Tentò di evitare di guardare Singleton, sebbene fosse impaziente di valutare la sua reazione.
Durante incontri simili, D’Agosta aveva imparato a creare un po’ di suspance lasciando la parte migliore per ultima, per mantenere desta l’attenzione di tutti. Stavolta la parte migliore spettava a Warsaw, il geek della Scientifica, specializzato nell’analizzare i video delle telecamere di sicurezza. Pur essendo a tutti gli effetti un detective, Warsaw sembrava più un adolescente trasandato, con i capelli arruffati e i brufoli. A differenza degli altri, non indossava un completo, nemmeno uno di pessima qualità, ma jeans neri piuttosto aderenti e una maglietta con il logo di una band metal. Ma poiché era molto in gamba tutti sorvolavano sull’abbigliamento.
Era anche discretamente vanitoso. Balzò sul palco con un telecomando in mano; le luci si abbassarono.
«Salve a tutti» cominciò Warsaw. «State per assistere al debutto dell’assassino sul grande schermo.»
Il pubblico rise.
«Il Marlborough Grand possiede telecamere di sorveglianza molto avanzate, così siamo riusciti a ottenere immagini nitide, incredibili, fantastiche. Abbiamo l’assassino di fronte, di schiena, da un lato, da sopra, da sotto, in HD, in tutti i modi. Qui ci sono le sequenze principali, tagliate e montate in un video di… mmm, cinque minuti. Nelle vostre cartelline troverete una selezione di frame, che sono stati forniti a vari altri hotel di lusso e molto presto verranno distribuiti anche al “Times”, al “Post” e al “Daily News”.»
La proiezione cominciò: la qualità era buona come Warsaw aveva promesso. Gli estratti mostravano l’assassino – con l’orecchio sinistro bendato – nella hall, nell’ascensore, mentre camminava nel corridoio e infine nel momento in cui entrava nella stanza della vittima. Poi scene dell’uomo che se ne andava più o meno nello stesso modo: senza fretta, calmo, disinvolto.
D’Agosta aveva già visionato le riprese, ma continuavano a dargli i brividi. La maggior parte dei killer, lo sapeva, potevano essere divisi in due grandi categorie: disorganizzati e organizzati. Ma quell’uomo era così freddo e metodico da meritarne una a parte. E di nuovo il tenente provò un senso di profondo disagio. Non aveva senso.
Il video terminò; ci fu qualche applauso. Warsaw fece un inchino e si allontanò: D’Agosta ne fu lievemente infastidito.
Il tenente tornò al leggio. Erano le due e trenta. Fino a quel momento, tutto era andato secondo i tempi previsti. Il suo stomaco brontolò; iniziava a sentirsi come se avesse bevuto una bottiglia di acido cloridrico. In qualità di comandante della squadra, aveva tenuto per sé l’ultimissimo dettaglio: il lobo.
«Non abbiamo ancora il Dna del brandello di carne che non apparteneva alla vittima e rinvenuto sulla scena del delitto: un lobo» cominciò. «Ma disponiamo di alcune analisi preliminari: appartiene a un maschio. Lo stato della pelle indica un’età inferiore ai cinquanta; non possiamo essere più precisi. È quasi certo che la presenza del lobo non sia il risultato di una lotta sulla scena del crimine. Piuttosto, sembra che sia stato lasciato sulla scena apposta. Pare anche che il lobo sia stato rimosso dall’orecchio alcune ore prima dell’omicidio, e non è stato reciso post mortem, ma da un corpo vivo. C’era da aspettarselo, poiché come avete visto nel video l’assassino è decisamente vivo e vegeto.
«Sappiamo che aspetto ha l’omicida, e ben presto lo saprà tutta New York. Non passa inosservato, con quei capelli rossi, il completo costoso, il bell’aspetto e il fisico atletico. Abbiamo le impronte, capelli, fibre di vestiti e ben presto avremo anche il Dna. Abbiamo identificato la cravatta Charvet e siamo vicini a identificare anche il completo e le scarpe. Sembra che siamo a un passo dall’inchiodarlo.»
D’Agosta tacque, poi proseguì.
«Dunque… cosa c’è che non va in questo quadro?»
Era una domanda retorica: nessuno alzò la mano.
«Quell’uomo è davvero tanto stupido?»
Lasciò la domanda in sospeso per un momento prima di continuare. «Guardate la persona nel video. Vi sembra davvero un idiota completo? Intendo dire, poteva ricorrere ad alcuni semplici accorgimenti per mascherare o modificare il suo aspetto, per eludere almeno in parte le telecamere. Non aveva bisogno di starsene impalato in mezzo alla hall per cinque minuti, mentre tutto il personale lo notava e la telecamera girava un intero documentario su di lui. Non è un uomo che vuole passare inosservato. I nostri psicologi ci stanno lavorando, cercando di capire la personalità dell’assassino, quali siano le motivazioni del suo gesto, cosa significhino il messaggio sul corpo e il lobo lasciato sulla scena. Forse è solo un pazzo che vuole essere catturato. Ma mi colpisce il fatto che sembra un uomo che sa quel che fa. E di certo non è uno stupido. Quindi dobbiamo supporre di non averlo affatto incastrato, nonostante tutti gli indizi che abbiamo su di lui.»
Silenzio. C’era qualcos’altro che turbava D’Agosta, ma preferì non parlarne, perché sarebbe suonato un po’ strano e non avrebbe saputo bene come spiegarlo. Aveva a che fare con la tempistica dell’aggressione. La telecamera aveva ripreso tutto. L’uomo camminava lungo il corridoio e, nel momento esatto in cui era passato davanti alla porta della vittima, lei l’aveva aperta per raccogliere il giornale. Un tempismo perfetto.
Era solo una coincidenza?