11

Dopo aver lasciato Singleton al Vanderbilt Hotel, D’Agosta si diresse in centro. Maledetto Heffler. Avrebbe fatto mangiare la polvere a quel figlio di puttana. Gli avrebbe tagliato le palle e le avrebbe appese all’albero di Natale. Ricordò il momento in cui gli aveva fatto visita con Pendergast: l’agente dell’Fbi l’aveva conciato per le feste. Era stato divertente. Ora D’Agosta decise che avrebbe “fatto il Pendergast” con Heffler.

Con quei piacevoli pensieri in mente, si fermò davanti al laboratorio della Scientifica su William Street, una dépendance del New York Downtown Hospital. Guardò l’orologio: erano le otto del mattino. Aveva parlato con l’agente in servizio e aveva saputo che Heffler si trovava nello studio dalle tre. Probabilmente era un buon segno, sebbene D’Agosta non ne fosse del tutto sicuro.

Uscì dall’auto sbattendo la portiera e si avviò a grandi passi verso l’ingresso a vetrate. Passò davanti alla reception, esibendo il distintivo. «Tenente D’Agosta» comunicò ad alta voce, senza rallentare. «Sono qui per vedere il dottor Heffler.»

«Tenente, il foglio delle firme…?»

Ma D’Agosta proseguì fino all’ascensore, pigiando forte il pulsante dell’ultimo piano, dove Heffler si era sistemato in un comodo ufficio d’angolo con la boiserie di quercia. Uscendo dall’ascensore, non vide nessuna segretaria: era troppo presto. D’Agosta si mosse rapido e spalancò la porta dell’ufficio.

Ecco Heffler.

«Ah, tenente…» cominciò il direttore, alzandosi subito.

D’Agosta esitò un momento. Quello non era l’Heffler che conosceva: uno stronzo arrogante e tirato a lucido in un completo da mille dollari. Quell’Heffler era spettinato, stanco e aveva l’aria di uno che avesse appena ricevuto una lavata di capo.

Si lanciò comunque nel discorso che si era preparato. «Dottor Heffler, aspettiamo i risultati da più di sessanta ore…»

«Sì, sì!» rispose Heffler. «E ho ricevuto i risultati, sono appena arrivati. Ci lavoriamo dalle tre di questa mattina.»

Calò il silenzio. Le unghie curate del medico tamburellarono impazienti su un fascicolo sulla sua scrivania. «È tutto qui dentro. E la prego di scusarmi per il ritardo. Siamo sotto organico a causa dei tagli alle spese… sa come vanno le cose.» Lanciò a D’Agosta uno sguardo tra il sarcastico e l’affettato.

A quelle parole, D’Agosta si sentì mancare la terra sotto i piedi. Qualcuno aveva già contattato Heffler. Era stato Singleton? Inspirò e provò ad abbassare i toni. «Ha i risultati di entrambi gli omicidi?»

«Naturalmente. La prego, si sieda, tenente. Glieli illustrerò subito.»

D’Agosta accettò controvoglia.

«Farò una sintesi, ma la prego di interrompermi se ha delle domande.» Heffler aprì il fascicolo. «I campioni di Dna erano eccellenti, la squadra ha fatto un ottimo lavoro. Abbiamo solidi profili generici di capelli, impronte e naturalmente del lobo. Tutto corrisponde, con un alto grado di precisione. Possiamo confermare che il lobo appartiene realmente all’assassino.»

Voltò una pagina. «Anche per quanto riguarda il secondo omicidio i campioni lasciano poco spazio a dubbi: capelli, impronte e la punta del dito. Anche in questo caso corrispondono: sono gli stessi del primo omicidio. La falange e il lobo sono dello stesso individuo: il killer.»

«I risultati sono attendibili?»

«Assolutamente. I campioni erano eccellenti e il materiale abbondante e incontaminato. La possibilità che si tratti di una coincidenza è meno di una su un miliardo.» Heffler stava tornando il solito arrogante.

D’Agosta annuì. Non era nulla di nuovo, ma era un bene avere una conferma. «L’avete confrontato con il database dei Dna?»

«Sì, con ogni archivio a cui abbiamo accesso. Nessun risultato. Naturalmente c’era da aspettarselo, poiché la maggioranza delle persone non ha il Dna in alcun database.»

Heffler chiuse il fascicolo. «Questa è la sua copia, tenente. Ho trasmesso il file al capo della Omicidi, all’unità di analisi della Omicidi e alla divisione centrale di investigazione e risorse. C’è qualcun altro che dovrebbe averlo?»

«Nessuno che mi venga in mente.» D’Agosta si alzò, raccogliendo la cartellina. «Dottor Heffler, quando il capitano Singleton l’ha chiamata, le ha detto che volevamo anche l’analisi del Dna mitocondriale?»

«Be’, no, il capitano non mi ha chiamato.»

D’Agosta fissò Heffler negli occhi. Qualcuno doveva aver preso a calci in culo quel figlio di puttana e voleva sapere chi fosse stato. «Qualcuno deve averla chiamata.»

«Il commissario.»

«Il commissario? Tagliabue? Quando?»

Un’esitazione. «Alle due di questa notte.»

«Ah sì? E che cosa le ha detto?»

«Mi ha comunicato che si tratta di un caso molto importante e che anche il minimo problema potrebbe… mettere fine a una carriera.»

Una strigliata in piena regola.

Poi Heffler sorrise. «Dunque buona fortuna, tenente. Ha i risultati che voleva. Ha tra le mani una bella gatta da pelare. Spero che non incontri alcun… problema.»

L’espressione sul suo viso era eloquente: si augurava esattamente il contrario.

Due tombe
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