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Mentre attraversavano la città, Pendergast si guardava in giro con attenzione. La pioggerella si stava a poco a poco placando e le nubi si innalzavano gradualmente. Il villaggio, in cui sorgevano numerosi edifici di stucco, si estendeva su una griglia di strade spaziose sulle rive di un lago color smeraldo. Anche se non poteva essere più antico di mezzo secolo, il luogo riproduceva con precisione l’architettura e l’aspetto tipico di un villaggio bavarese: ripide scale in pietra, insegne dipinte a mano, tetti di tegole, pavimentazione a ciottoli, struttura in legno e muratura per gli edifici pubblici più grandi.
Le rive del lago erano abbellite da lunghe banchine di pietra decorata che conducevano a una serie di moli ben tenuti, pontili e darsene dove erano ormeggiate barche da pesca verniciate di fresco e qualche motolancia. Tutto era avvolto da un’umida nebbia; il lago stesso svaniva nella foschia, mentre l’isola che sorgeva al centro non era che una sagoma grigia e sbiadita.
Il villaggio terminava di colpo in una foresta di altissimi alberi di araucaria, tra cui crescevano pini e altre specie subtropicali. L’oscurità, la nebbia, il tempo uggioso e la foresta fitta e inviolata quasi stridevano con l’atmosfera tipicamente europea di quel villaggio tanto pulito e ordinato.
Le strade erano deserte, forse a causa della pioggia.
Quando giunsero al municipio, costruito in stile finto medievale, il capitano lo condusse in un interno spartano, con panchine allineate come se stesse per esserci una riunione, che oltrepassarono infilandosi in una serie di uffici. Pendergast seguì Scheermann in un’ampia stanza sul retro, con la porta aperta e una grande finestra panoramica che si affacciava sul lago. Il fuoco crepitava nel camino di mattoni e su un tavolo era posato un vaso di meravigliose rose rosse. Dietro alla scrivania sedeva un uomo basso e robusto in abiti tirolesi, con le guance rubizze e il viso allegro. Tuttavia, i suoi occhi azzurri erano inespressivi, come piccole biglie di vetro.
«Questo è il Bürgermeister Keller» spiegò il capitano. «Sindaco di Nova Godói.»
L’uomo si alzò e tese una mano piccola e tozza. «Mi hanno detto che sta cercando la farfalla Queen Beatrice!» esordì affabile. Anche lui parlava un inglese perfetto. «Spero che la troverà.»
I documenti richiesero molto tempo, ma se ne occuparono con grande efficienza. Diedero a Pendergast un’autorizzazione ufficiale, con timbro e intestazione, che avrebbe dovuto portare sempre con sé. Mentre stavano concludendo gli accordi, un uomo magro entrò nella stanza. Aveva circa trentacinque anni, la testa piccola e una fronte alta che sporgeva sui chiari occhi azzurri; il labbro inferiore, carnoso e pronunciato, conferiva al viso un aspetto strano.
«E questa è la sua scorta» lo informò il sindaco. «Si chiama Egon.»
«È libero di andare dove vuole, eccetto che nel lago o sull’isola.» Il capitano fece una pausa significativa. «Non pensava di farlo, spero.»
«Oh no» rispose Pendergast. «L’ultima Queen Beatrice è stata trovata sulla terraferma, lungo le rive del lago. Non ho bisogno di imbarcarmi… mi è bastata l’acqua che ho attraversato per risalire il fiume!»
Il sindaco rise alla battuta. «Bene. Egon le mostrerà anche il suo alloggio. Egon, assicurati che Herr Doktor sia trattato con ogni riguardo.»
L’uomo annuì.
Pendergast si inchinò. «Grazie. Molto gentile, davvero molto gentile. Ma non avrò bisogno di un alloggio: dovete sapere che è più facile avvistare la Queen Beatrice di notte.»
Tornarono in strada, mentre il sole finalmente si liberava dalle nuvole, illuminando la città di un debole chiarore. Pian piano, la nebbia che avvolgeva il lago scomparve, rivelando l’isola al centro, uno spoglio cono di cenere vulcanica sulla cui cima si trovava una fortezza sinistra di antica lava, nera, con le torri semidistrutte, e le merlature cadenti e sgretolate. Un singolo raggio di sole trafiggeva l’oscurità e rischiarava la struttura; Pendergast riuscì a vedere, per un attimo, il lampo di qualcosa di metallico nascosto dietro le enormi mura.
Il sole ebbe un effetto insolito sul villaggio. Improvvisamente, come se fossero stati chiamati a raccolta, uomini e donne indaffarati affollarono le strade. Sembrava quasi il set di un film: molti degli abitanti indossavano abiti risalenti alla fine degli anni Quaranta, le donne con la permanente e i vestiti su misura, gli uomini con completi scuri e cappelli; alcuni fumavano la pipa. Altri invece portavano tute da lavoro e grembiuli, berretti piatti e pagliette. Tutti erano belli; la maggior parte aveva il classico aspetto nordico: alti, biondi, con gli occhi azzurri e zigomi ben cesellati. Si spostavano in bicicletta, a piedi, qualcuno trasportando carriole e carretti. Pendergast notò che non c’erano automobili. Gli unici veicoli erano jeep della Seconda guerra mondiale, guidate da uomini in tenuta militare, sempre con un personaggio dall’aria importante sul sedile posteriore, in uniforme grigia. Erano le uniche persone armate, e lo erano di tutto punto: pistole di grosso calibro e, spesso, un fucile d’assalto con un enorme caricatore.
Molti abitanti si fermarono a guardarlo, alcuni con la bocca aperta, sorpresi, altri con evidente ostilità. Perché Pendergast, alias dottor Percival Fawcett, risaltava come una quercia in un campo di fragole. Il che era esattamente ciò che voleva.
Pendergast si avviò a passo rapido verso il molo, spiegando ad alta voce che la Queen Beatrice prediligeva le zone litorali e che il momento preferito per mostrarsi era la notte, non il tramonto, ma non si poteva mai sapere. Egon sembrava non ascoltare. Si limitava a rimanergli accanto con ostinazione, mai stanco.
Le barche lungo la banchina sembravano ben tenute; alcune erano fin troppo grandi per pescare nel lago. C’erano anche due grandi chiatte, su cui si trovavano pesanti macchinari e arcani dispositivi, anch’esse più massicce del necessario. Come avessero fatto imbarcazioni simili a essere trasportate in quel lago sperduto era un mistero. Stava calando la sera e il molo brulicava di pescatori che iniziavano a scaricare il pescato del giorno, che veniva poi disposto nel ghiaccio e caricato su pesanti carretti a mano. Era un’immagine di operosità, duro lavoro e autosufficienza: a quanto pareva, una società modello. Pendergast notò che in città sembrava non esserci nemmeno un bar né un caffè.
«Egon, dimmi: non si beve in questa città? Il consumo d’alcol non è consentito?»
La domanda di Pendergast, la prima, non ricevette risposta; Egon non diede neanche segno di aver sentito.
«Bene, allora. Procediamo.»
Pendergast camminò lungo il molo. La perturbazione scomparve del tutto, lasciando il posto a un bellissimo tramonto. Il sole arancione scivolava verso strati di nubi vermiglie dall’altra parte del lago, infiammando l’acqua. La fortezza in rovina si stagliava contro l’orizzonte sull’isola solitaria in mezzo al lago.
All’estremità opposta del molo c’era un’insolita formazione rocciosa: tre grossi massi, identici per forma e dimensione, si alzavano diversi metri sopra la superficie dell’acqua, disposti più o meno a triangolo, a una decina di metri l’uno dall’altro. Lì Pendergast si fermò a guardare la città che digradava lungo il lieve declivio sul fianco del vecchio vulcano. Era l’immagine stessa dell’ordine, della pulizia, dell’efficienza e del controllo. Gli edifici erano ben conservati, intonacati di fresco e dipinti di bianco, con le imposte verniciate di verde e blu accesi e spesso fioriere alle finestre. Non c’era immondizia, nemmeno una carta di caramella per le vie; nessun graffito, nessun cane randagio, né, in effetti, cani di alcun tipo. Nessun senzatetto, nessun ubriaco, né perditempo. Non scoppiavano liti in strada, né si udivano grida o rumori eccessivi.
Sembrava mancare qualcos’altro oltre ai cani e alla spazzatura. Sebbene molti abitanti fossero persone di mezza età e anche più vecchie, nessuno aveva acciacchi, nessuno era obeso né aveva difetti fisici. E, cosa che lo colpì molto, non c’erano gemelli.
Era, in breve, una piccola utopia, nascosta nel cuore della foresta brasiliana.
Quando scese la sera, le luci si accesero sulla fortezza dell’isola, riflettori potenti che inondavano i bastioni di pietra di un bianco brillante. Nel silenzio del tramonto, Pendergast riusciva a percepire alcuni suoni provenienti dall’altra parte dello specchio d’acqua: il ronzio dei generatori, lo sferragliare dei macchinari, il crepitare dell’elettricità e, molto debole, portato dalla brezza, quello che poteva essere lo stridere di un uccello. O, forse, un grido d’agonia.