Jonathan
Erich tornò nel weekend successivo. Non so bene perché fosse stato invitato né perché avesse accettato – nessuno di noi, lui compreso, sembrava essersi particolarmente divertito. Era stato immusonito e scorbutico tutta la domenica. Eppure, quando lo riportammo alla stazione, Bobby gli chiese: “Vuoi tornare il prossimo weekend?” Erich esitò un momento, poi disse di sì. Lo disse in tono deciso, determinato, come se avanzasse pretese su qualcosa che era suo di diritto.
Tornando a casa, domandai a Bobby: “Vuoi davvero che Erich ritorni qui così presto?”
“Jon... quell’uomo ha bisogno di passare un po’ di tempo in campagna. Ma lo hai guardato?”
Sembrò per un momento che Bobby non avesse ancora capito la natura della malattia di Erich; pareva credere che fosse soltanto teso ed esausto, e bisognoso di un lungo riposo. “Ha bisogno di ben altro, Bobby.”
“Be’, qualche giorno in campagna è più o meno tutto quello che possiamo offrirgli. Ormai è come un membro della famiglia. Ci piaccia o no.”
“La famiglia,” dissi. “Lo sai che mi farai impazzire con questa stronzata?”
Alzò le spalle e mi fece un mesto sorriso, come se io stessi affrontando con petulanza una situazione che chiaramente sfuggiva al controllo di chiunque. Erich aveva ora un legame con noi, sia pure tenue, e secondo la personale filosofia di Bobby eravamo obbligati a dargli tutto ciò che avevamo.
Erich tornò il venerdì seguente col treno delle cinque. A quel punto aveva ritrovato il suo cortese e un po’ stridulo entusiasmo, anche se adesso era più facile agli sbandamenti. Fu soprattutto Bobby ad assumersi la responsabilità di rendere confortevole il suo soggiorno, e alla fine della seconda visita si era stabilito fra i due una sorta di legame. Bobby era ostinatamente affettuoso ed Erich accettava le sue premure con una pallida e un po’ infastidita avidità, come uno sprezzante fantasma tornato a esigere riparazioni dai vivi.
Nel tardo pomeriggio della domenica ero in cucina con Clare e Rebecca. Clare affettava un avocado. Rebecca sedeva sul tavolo armeggiando con una serie di stampini di plastica per biscotti a forma di animali, io ero in piedi accanto a lei per evitare che cadesse. Dalla finestra potevamo vedere Bobby ed Erich che, seduti sull’erba, stavano parlando con fervore. Bobby faceva grandi gesti con le mani per indicare qualcosa di enorme, ed Erich annuiva senza molta convinzione.
“Insomma Bobby ha un nuovo amore,” dissi.
“Non essere maligno, tesoro. Non ti si addice.” Dopo aver steso le fette d’avocado su un piatto, cominciò a sbucciare una cipolla delle Bermude.
“È solo che non credo che Erich debba diventare così all’improvviso la nostra principale opera di carità. È praticamente un estraneo.”
“Qui abbiamo spazio per un estraneo, non credi? Non ci manca niente.”
“Insomma sei diventata Madre Teresa?” dissi. “Mi sembra un po’ repentino.”
Mi guardò con una calma imperturbabile più persuasivamente accusatoria di qualsiasi censura. Le era successo qualcosa. Non la capivo più – aveva abbandonato il suo cinismo per un generico senso materno. Eravamo ancora amici e membri della stessa famiglia, ma non eravamo più intimi.
“Lo so. Sono un essere spregevole.”
Mi accarezzò una spalla. “Per favore non accarezzarmi. Una volta non mi accarezzavi mai in questo modo.”
Rebecca, mentre contemplava sbavando uno stampino per biscotti a forma di topo, si mise a piangere. La discordia le tagliava la pelle come un filo sottile; scoppiava in lacrime ogni volta che vicino a lei qualcuno cominciava a discutere.
“Ehi, piccola,” dissi. “Va tutto bene, non badare a noi.”
Cercai di prenderla in braccio, ma non volle che fossi io a farlo. Insistette per farsi tirar su da Clare, che andò con lei in soggiorno mentre io finivo di affettare la cipolla.
Alla fine Erich si stabilì da noi. Non aveva altro posto dove andare, a parte il suo squallido e scomodo appartamento nelle East Thirties. Avrebbe dovuto sopportare la sua malattia in compagnia di volontari fino al momento di trasferirsi in uno di quei letti d’ospedale a disposizione dei non abbienti e dei non assicurati. Bobby insisteva perché venisse a trovarci spesso, e quando il viaggio divenne per lui troppo estenuante si trasferì definitivamente. Gli offrii la mia camera, sostenendo che ormai preferivo dormire da basso. Ospitare Erich non era semplice. Mi infastidiva perché era malato e nello stesso tempo mi sentivo obbligato a trattarlo come speravo che trattassero me se mai fossi stato colpito dalla malattia. Esercitavo quella tenerezza che speravo di poter ispirare ad altri se le mie energie fossero venute meno e il mio corpo avesse cominciato a cambiare. A volte mi lasciavo coinvolgere sentimentalmente e provavo un impeto e un fremito di sincera preoccupazione. Altre volte mi limitavo a manifestarli. Dopo una certa resistenza, Erich accettò di occupare il mio letto e nel far questo rinunciò quasi palpabilmente a un grado di partecipazione al mondo dei vivi. È un momento che può capitare a noi tutti, a un certo punto del nostro passaggio definitivo dalla salute alla malattia. Abbandoniamo il nostro vecchio obbligo di tener conto dei bisogni degli altri e ci affidiamo alle loro cure. È un cambiamento di status. Diventiamo cittadini di un nuovo regno e, pur conservando il meglio e il peggio di ciò che eravamo, non siamo più fisicamente padroni del nostro destino. Erich aveva bisogno della mia stanza per la complicata fatica di morire. Era una persona riservata e non gli sarebbe piaciuto soffrire in mezzo ai nostri traffici famigliari. Perciò, con un sorriso cortese e leggermente rattristato, mi permise di cedergli il mio letto. Compii trentadue anni l’indomani del giorno in cui arrivò per l’ultima volta.
Lo portavamo a passeggio nei boschi, cucinavamo pasti che non affaticassero il suo organismo. Era in casa una sorta di spirito anziano, alternativamente gentile e irascibile. Come se nostro nonno fosse venuto a vivere con noi.
Passò l’inverno, venne la primavera. Il ristorante prosperava. Rebecca mise altri dentini e scoprì la deliziosa possibilità di rispondere di no a tutto quello che le chiedevano. Erich si consumava imprevedibilmente, tra alti e bassi. Le sue energie si affievolivano e ritornavano, a volte da un’ora all’altra. Aveva disturbi intestinali, febbri, appannamenti della vista. A volte la sua mente divagava – si astraeva, perdeva la memoria. Ogni settimana andava a farsi vedere all’ospedale di Albany. Nelle giornate migliori camminava magari nei boschi con un paniere, cercando funghi. In quelle peggiori giaceva raggomitolato sul letto, senza che si potesse stabilire se dormiva o era sveglio.
Io vivevo un po’ in disparte, al centro di tutto. Non avrei mai chiesto a Erich di venire a vivere con noi, ma non potevo risolvermi a desiderare attivamente che se ne andasse – mi innervosiva troppo la mia condizione di eccentrico di casa. Imparai a trovare un freddo conforto nell’essere buono con lui. Ciò mi dava un’oscura speranza di placare il fato.
Una sera, rientrando a casa dal ristorante, lo trovai seduto sulla veranda, avvolto in una coperta. Il sole era tramontato dietro le montagne. Ombre violette si stavano addensando nel cielo ancora luminoso – in quella casa soffrivamo sempre di tramonti prematuri. Erich sedeva sulla vecchia poltrona di vimini con una sdrucita coperta blu tirata fino al collo, e sembrava un adolescente tubercolotico. Man mano che la sua carne diventava più macilenta, il suo aspetto era sempre di più quello di un ragazzo. Gli sporgevano le costole, e orecchie, mani e piedi sembravano ora troppo grandi, rispetto al corpo.
“Ciao,” dissi. “Come stai?”
“Non troppo male.”
Il nostro era un rapporto prevalentemente formale, come quando andavamo a letto insieme. Eravamo gentili e distanti. Continuavamo a comportarci come se ci fossimo conosciuti da poco.
“Bobby deve lavorare fino a tardi,” lo avvertii, “Marlys è dovuta andare a non so quale riunione di donne, e così gli tocca preparare le torte per domani. Clare e Rebecca sono qui in giro?”
“Sono in casa.”
“Vado a prendere Rebecca. Magari la porterò qui fuori per un po’, okay?”
“Okay. Jonathan?”
“Mm-hm?”
“È una cosa, ecco, che per me è difficile da dire. Ma stavo pensando. Ti capita mai, be’, di farti delle domande su di noi? Su te e me, voglio dire.”
“Io penso a noi. Certo che ci penso.”
“Non parlo solo di pensarci. Non solo di questo. Voglio dire, non ti domandi mai perché ci siamo sempre tirati indietro? A me sembra che avremmo potuto fare molto di più per renderci reciprocamente felici.”
Anche in condizioni così disperate, discorsi così diretti gli erano particolarmente difficili. Le sue dita sgualcivano il bordo della coperta e un piede batteva con un rumore secco contro la gamba della poltrona di vimini.
“Be’, avevamo un certo tipo di rapporto. Più o meno quello che volevamo tutti e due, no?”
“Forse. Forse è così. Ma ultimamente mi sto domandando, capisci? Mi sto domandando che cosa aspettavamo?”
“Aspettavamo, suppongo, che cominciassero le nostre vere vite. Probabilmente, credo, avevamo fatto uno sbaglio.”
Trasse un respiro affannoso. Esattamente al centro della tela tesa fra i montanti della ringhiera penzolava immobile un bel ragno giallo.
“Avevamo fatto uno sbaglio. È probabile che sia così. Penso che ero innamorato di te e non potevo ammetterlo. Ero, non so. Troppo spaventato per ammetterlo. E adesso mi sembra un tale spreco.”
Rimasi in piedi sulle assi consumate, sopra la mia stessa ombra. Lo guardai. Aveva in quel momento qualcosa di antico, di assolutamente dignitoso, un aspetto né vecchio né giovane, né maschile né femmineo. Il suo corpo era invisibile sotto le spesse pieghe della coperta e gli occhi brillavano nel pallore della faccia. Sembrava una sfinge che propone un enigma.
Credevo di conoscere la risposta. Erich e io non eravamo mai stati innamorati; non eravamo destinati a essere amanti. Non ci eravamo lasciati sfuggire nessuna occasione romantica. Ci eravamo solo nascosti insieme, nel nostro buon rapporto sessuale con accomodante cameratismo. Ci eravamo tenuti reciprocamente a galla mentre aspettavamo. Eravamo come dei servi, due uomini casti che stavano diventando calvi e avevano consacrato le loro vite a vaghi ideali di ordine e di obbedienza.
Dissi invece: “Penso che anch’io ero probabilmente innamorato di te.”
Non volevo che morisse indenne. Se fosse morto in questa condizione, sarebbe potuto accadere anche a me.
“Stai mentendo.”
“Non è vero.”
Pensai a mio padre nel deserto, che da me aveva avuto soltanto vuote rassicurazioni. Era morto tornando dalla cassetta postale, con una manciata di cataloghi e volantini. Quando io avevo in tasca una lettera per lui.
“Sì, invece,” disse Erich.
Esitai, poi gli dissi: “No, davvero. Credo che probabilmente ero innamorato di te.”
Annuì, con una fredda collera. Non si sentiva confortato. Passò ronzando una falena, talmente bianca da essere quasi trasparente, più un’alterazione dell’aria che una presenza fisica.
“Avremmo potuto far di meglio, tu e io. Cosa c’era che non andava?”
“Non so.”
Restammo immobili senza parlare per almeno un minuto. Ci guardammo con furiosa incredulità. “Siamo due codardi,” dissi io infine. “Il nostro non è stato uno sbaglio drammatico. Ma solo un piccolo stupido errore che ci è sfuggito di mano. Come li chiamano? Peccati di omissione.”
“Forse è questo che più m’infastidisce.”
“Vale anche per me.” Poi, non essendoci più nulla da dire, andai in casa a cercare Rebecca.