Jonathan
In me c’era qualcosa che non andava. Come se in parte mi mancasse la capacità di collegare le cose, ed ero preoccupato perché poteva essere un primo segno della malattia. Avevo innanzitutto la sensazione di fluttuare nell’aria, come se la somma delle ore non corrispondesse a un’intera giornata e la mia presenza – su un aereo, per strada – non influisse sul paesaggio, come di solito le presenze umane. Poi piaghe scure e febbri, una tosse che non finiva più. Forse era così che si annunciava la morte, distruggendo in te la sensazione, prima scontata, di partecipare ai tuoi stessi affari.
L’aereo rullò sulla pista, salì oltre tutto quel bianco turbinoso fino a raggiungere un cielo azzurro, luminoso e uniforme come l’idea più perfetta della ricompensa celeste. Io sedevo tranquillo, attraversando in volo il paese in uno stato di dislocazione che mi stava cullando – quasi come guardare un film. Ecco me stesso: un uomo di ventisette anni che, legato con una cinghia in vista della turbolenza annunciata, versava scotch in un bicchiere di plastica, andando a trovare i genitori in una casa che non aveva mai visto.
Fu in Arizona che, per la prima volta, mio padre mi parlò della morte. Un secondo medico aveva confermato la diagnosi – enfisema – sostenendo però che, con qualche precauzione, sarebbe forse campato per altri trent’anni. Era ormai tempo di parlare di certe cose.
Ciò che mio padre disse fu: “Figliolo, quando verrà il momento seppelliscimi dove vuoi.” Sedevamo entrambi al tavolo del tinello, dove avevamo giocato a Yahtzee mentre mia madre preparava la cena.
“Per me non avrà molta importanza,” aggiunse. “Sarò già morto.”
“Non so,” dissi. “Non penso di voler prendere una decisione su una faccenda del genere.”
“E invece dovresti farlo,” disse. “È il luogo che andrai a visitare nei prossimi cinquant’anni. O nei prossimi mille, se troveranno il modo di sostituire i tuoi organi con la plastica.”
Mia madre poteva sentirci facilmente dalla cucina, dal lato minore della L dell’area soggiorno, sala da pranzo, cucina. “L’immortalità biologica non è più di moda,” disse. “È stata sorpassata dalle monorotaie e dalle vacanze su Marte.”
Portò in tavola un piatto di tortilla chips con salsa. Da quando si era trasferita con mio padre in Arizona, aveva smesso di farsi acconciare i capelli. Li portava ora tirati indietro a coda di cavallo ed era fortemente abbronzata. Mio padre, facile alle infezioni cutanee, era invece bianco come la luna. Sembravano un pioniere e la sua moglie indiana.
“Non devi farne un dramma,” disse mio padre. “Mi dispiace d’avertene parlato.”
Lanciai un’occhiata a mia madre, che rinunciò con un’alzata di spalle a partecipare alla conversazione e tornò a occuparsi dei suoi chilis rellenos.
“Ascolta, Jonathan,” ricominciò mio padre, “se a me e a tua madre ci venisse un colpo in questo momento, se ci portassimo le mani al cuore e finissimo con la faccia sulle tortilla chips, che ne faresti di noi?”
“Non so. Immagino che vi farei rispedire a Cleveland.”
“È esattamente quello che io non voglio,” disse lui. “Tu non tornerai più a Cleveland. Che senso avrebbe tenere lì le tombe dei tuoi genitori?”
“Ci abbiamo vissuto per anni. Voglio dire, mi sembra ancora la mia città.”
“Ci abbiamo messo trent’anni per andarcene da Cleveland. Quel cinematografo mi ha quasi ammazzato e il clima ha rischiato di uccidere sia me che tua madre. Se mi ci rimandi, ti giuro che verrò a tormentarti nel sonno. Tutti i sabato mattina che ti restano ancora da vivere, ti sveglierò di buon’ora per chiederti un aiuto a potare la siepe.”
“Be’, perché non qui allora?” dissi. “Vi ci trovate bene, no?”
“Qui io posso respirare aria e tua madre sta imparando a fare le blue margaritas. Phoenix per noi significa esattamente questo.”
Non me lo immaginavo sepolto in Arizona. Sarebbe stata una presa in giro inumarlo nel deserto, con i coyote che ululavano sopra la sua testa.
“Non so se possiamo continuare a lungo questa discussione,” dissi. “Non so cosa dire.”
“Okay. Che ne diresti di un’altra lezione a Yahtzee?”
“Credo che preferirei sdraiarmi un momento. Ti dispiace?”
“No, naturalmente. Stai male?”
“No. Ho solo bisogno di tenere gli occhi chiusi per qualche minuto.” Mi alzai e mi avvicinai al divano-letto, acquistato da poco in Arizona, una copia esatta di quello di Cleveland, con nodosi braccioli di acero e frange coloniali inamidate. Lo avevano comprato proprio per potermi ospitare, in occasione delle mie visite, poiché l’appartamento dei miei aveva una sola camera. Era un quartiere di vedovi e vedove.
“Perché non lo tiri fuori e fai un sonnellino?”
“No. Lo userò soltanto così com’è.” Mi sdraiai, con un cuscino ricamato per appoggiare la testa. Il rivestimento del divano raffigurava foglie, barche color ruggine e stormi di anatre selvatiche marroni che volavano via a tre a tre. Sul tavolinetto baluginava un piccolo albero di Natale con decorazioni che ricordavo d’aver scelto da piccolo in un grande magazzino. Dopo anni di alberi “da arredatore” – con piccole sfere rosse e argentee, bastoncini di zucchero candito e lucine bianche – i miei genitori erano tornati all’albero caotico e chiassoso di una casa dove vivono dei bambini.
“Sono contento che tu sia venuto un po’ a casa,” disse mio padre. “Ma mi sembri un po’ pallido, se devo dire la verità.”
“A New York sono tutti pallidi in questa stagione. Forse mi trasferirò in Arizona.”
“Perché dovresti?” disse mio padre, scuotendo i dadi dello Yahtzee nel loro bossolo. “Qui non c’è niente da fare per un giovane.”
“E tu cosa fai?”
“Niente. In realtà non c’è niente da fare per nessuno.” Lanciò i dadi. “Vuoi un altro drink?”
“Non credo.”
Quando s’avvicinò al bar per versarsi da bere, potei udire il suo respiro affannoso. Il piccolo mobile, stretto fra il soggiorno e il tinello, esibiva una fila ordinata di bottiglie su uno scaffale munito di specchio. Un asciugamano beige, perfettamente nuovo, se ne stava ben piegato accanto a un lavabo cromato molto piccolo.
I miei genitori avevano portato nel deserto il senso dell’ordine di Cleveland. Qui, dove di notte una sabbia impalpabile soffiava dalle finestre, e le erbe mobili grattavano ogni tanto la porta, le spezie sul loro scaffale erano allineate in stretto ordine alfabetico. Ogni pianta da appartamento brillava di una sua verde e lucente vita, e ogni mattina mia madre le passava tutte in rivista, strappando le foglie morte e gettandole in un sacco di plastica.
“Visto che ti fai un altro drink, magari me lo faccio anch’io,” dissi, udendo il particolare gorgoglio del bourbon che fluiva dal collo di una bottiglia da un quarto.
“Danno Anni ’40 al centro commerciale,” disse mio padre.
“Potremmo andarci domani pomeriggio. Se non altro, per ripararci dal sole.”
“Bene.” Mi portò da bere.
“In realtà non ho voglia di prendere una decisione sulle vostre, come dire, onoranze funebri.”
“Non preoccupartene troppo. Quando moriremo, probabilmente ti sarai sistemato da qualche parte. Devi solo seppellirci a una distanza facile da raggiungere.”
“E se non dovessi sistemarmi?”
“Ti sistemerai. Credi a me, prima o poi finirai per farlo.”
“Penso di andare a vedere se mamma ha bisogno d’aiuto in cucina.”
“Okay.”
“È solo che non ho idea di dove mi sistemerò. Potrei finire da qualunque parte. Andare perfino nello Sri Lanka.”
“È una bella cosa. Devi viaggiare finché sei giovane.” E lanciò di nuovo i dadi imprecando contro la sfortuna.
“Non sono più tanto giovane,” dissi.
“Oh. Lo credi tu.”
In cucina mia madre stava asciugando la lattuga romana con un’efficienza un po’ provata, come se cambiasse i pannolini al suo decimo bambino. Mi unii a lei davanti all’acquaio. Aveva acquisito un odore fragile, come di foglie secche.
“Ciao, mamma.”
“Vuoi dare un’occhiata a quella che qui chiamano lattuga?” domandò lei. “Per trovarla ho girato tre diversi negozi, e tuttavia sembra ancora che l’abbiano presa a bastonate per tutto il viaggio che l’ha portata a Phoenix.”
Espresse questa lamentela in un tono allegro e spensierato. Da qualche tempo, quando venivo a trovarla, prima a Cleveland e ora a Phoenix, alternava momenti di ironia a una bonarietà affabile e nervosa.
“È un peccato,” dissi.
Restammo lì in silenzio mentre mio padre si sollevava dalla sua poltrona e saliva in camera da letto. Quando non fu più a portata delle nostre voci, mia madre disse: “E allora, come vanno le cose? Come se la passa Bobby?”
“Se la cava discretamente. Direi che le cose vanno piuttosto bene.”
“Magnifico,” disse mentre annuiva con entusiasmo, come se la risposta fosse stata sufficiente ed esauriente.
“Mamma?” dissi.
“Mm-hm?”
“Se devo dirti la verità, sono stato... oh, non so. Certe volte mi sento così solo a New York.”
“Be’, lo capisco,” disse lei. “È difficile evitare di sentirsi soli. Più o meno dappertutto.”
Cominciò a tagliare un cetriolo in fette sorprendentemente sottili e lucenti. La lama del coltello pareva illuminare l’ortaggio a ogni taglio.
“Sai cosa mi sto domandando da un po’ di tempo?” dissi. “Mi domando come mai tu e papà avete così pochi amici. Voglio dire che quando ero ragazzino, mi sentivo come se ci avessero abbandonati su un altro pianeta. Come la famiglia di un vecchio show televisivo.”
“Non ricordo uno show del genere. Se tu avessi un tuo bambino, una casa e un locale da gestire, sapresti quanta energia ti rimane per girovagare nel vicinato a conoscere gente. E poi, dopo diciotto anni, i tuoi figli fanno i bagagli e vanno via.”
“Certo che vanno via. È naturale. Cos’altro ti aspettavi?”
Rise. “Lo fanno se li hai cresciuti bene,” disse con allegria. “Nessuno, tesoro, voleva rivederti nella tua vecchia camera dopo il diploma.”
Non eravamo una famiglia avvezza agli scontri. Non tentavamo di smascherarci a vicenda. Man mano che le nostre vite cambiavano, ci sforzavamo invece di inventare modi nuovi di comportarci normalmente in compagnia l’uno dell’altro.
“Mi sto domandando da qualche tempo se è questo, come dire, ciò che conta. Un appartamento, un lavoro fisso e una persona da amare. Cos’altro potrei volere?”
“A me sembra che basti,” disse lei.
“Mamma, quando hai saputo che volevi sposare papà?”
Rimase in silenzio per un minuto buono. Finì di affettare il cetriolo e cominciò con un pomodoro.
Infine: “Be’, non so ancora se volevo sposarlo. Sto ancora cercando di decidere.”
“Andiamo. Seriamente.”
“D’accordo. Vediamo un po’. Io avevo appena diciassette anni, e tuo padre ventisei. Chiese la mia mano al nostro quarto appuntamento. Ricordo che portavo ancora le scarpe bianche una settimana dopo il Labour Day, e mi sentivo contemporaneamente sciocca e spavalda. Eravamo seduti sulla sua macchina e io fingevo di meditare, ma in realtà ero ancora seccata per essermi messa quelle maledette scarpe, e allora lui si sporse verso di me e disse: ‘Che ne diresti se ci sposassimo?’ Così, semplicemente.”
“E tu cosa dicesti?”
Prese un secondo pomodoro. “Non dissi nulla. Ero troppo sbalordita. E imbarazzata, perché in un momento simile mi stavo preoccupando per le scarpe. Ricordo di aver pensato: ‘Sono la persona più superficiale che sia mai esistita.’ Gli dissi che avevo bisogno di tempo per pensarci. E scoprii che non c’era una sola ragione che ci impedisse di farlo. Così ci sposammo.”
“Eri innamorata di lui?” domandai.
Lei strinse le labbra, come davanti a una domanda impertinente e lievemente irritante. “Ero una ragazza,” disse. “Ma sì, certo. Ero pazza di lui. Nessuno mi aveva mai fatto ridere tanto, ricordi com’era serio tuo nonno? E tuo padre aveva allora dei bellissimi e foltissimi capelli castani.”
“Sapevi che, fra tutti gli uomini del mondo, era proprio lui che volevi sposare?” domandai. “Non hai mai temuto di fare una specie di errore prolungato nel tempo e di partire, non so, per una tangente da cui non saresti mai potuta tornare?”
Allontanò la domanda con un gesto, come si fa con una mosca pigra ma insistente. Le sue dita luccicavano di polpa di pomodori. “Allora non ci facevamo domande così impegnative. Non è difficile per te pensare e progettare in continuazione?”
Udii azionare lo sciacquone al piano di sopra. Sapevo che mio padre sarebbe tornato giù, pronto per un’altra partita a Yahtzee. “Come sta veramente?”
“Oh, con alti e bassi.”
“Ha un bell’aspetto da quando siamo qui.”
“È perché ci sei tu. Ma Reuben dice che l’enfisema è strano. All’improvviso può sempre migliorare.”
“Pensi insomma che stia migliorando?”
“No. Ma potrebbe. Potrebbe migliorare da un momento all’altro.”
“E tu come stai?”
“Io? Sono sana come un pesce. Mi mette quasi in imbarazzo sentirmi così bene.”
“Non era questo che intendevo. Avevi detto che qui volevi trovarti un lavoro. Parlavi di una scuola per agenti immobiliari.”
“Dovrei farlo. Continuo a pensare di andare a vedere di che si tratta. Ma tuo padre resterebbe solo tutto il giorno. È curioso. Era sempre così autonomo quando vivevamo nell’Ohio. Passava tanto tempo in quel cinematografo. E io, immagino, davo per scontato che gli piacesse stare per conto suo. Ma ora che siamo qui, s’innervosisce se sto troppo via a fare la spesa.”
“Credi che stia rimbambendo?”
“No. È solo maledettamente spaventato. Tuo padre non è mai stato un uomo riflessivo. E ora, be’, vuole sempre che succeda qualcosa. Mi sento come la responsabile degli eventi mondani di una crociera con un solo passeggero.”
Mi sorrise, roteando amabilmente gli occhi, ma sentii crepitare l’ironia come carta velina avvolta nella seta.
“Due... Siete in due.”
“Per modo di dire.”
L’indomani mio padre e io andammo a vedere Anni ’40 al Phoenix Cinema Eight. Mia madre, sostenendo che per quella settimana aveva già visto abbastanza film, rimase a lavorare a quello che chiamava il suo giardino, un piccolo tratto di terra erbosa esageratamente annaffiata con fiori robusti dal grosso stelo. Quando la lasciammo, stava per uscire nel caldo con dei bermuda di tessuto scozzese, uno sbiadito cappello di paglia e guanti da giardinaggio grandi come le mani della Minnie di Topolino.
Mentre uscivamo, mio padre disse: “Ecco l’ultimo gentiluomo di campagna.” Lei lo guardò con un’espressione elaborata da quando si erano trasferiti nel deserto: paziente, clinicamente affettuosa, da brava infermiera.
Andammo al cinema sulla Oldsmobile di mio padre, una grossa Cutlass blu scura, silenziosa e massiccia come un sottomarino. Le sue mani erano ben salde sul volante. Portava un paio di occhiali da sole sopra quelli normali. In alto il cielo era di un mutevole azzurro arroventato. Le montagne brillavano in lontananza, oltre i complessi residenziali e i centri commerciali. Quando dovette sterzare per evitare un armadillo morto, scosse il capo e disse: “Chi si sarebbe mai aspettato di finire a vivere in un deserto?”
Alzai le spalle: “Chi mai si aspetta di finire a vivere in qualsiasi luogo?”
“Sei troppo profondo per me,” disse lui e voltò nel parcheggio, seguendo una fila di fluorescenti cowboy a cavallo dalle gambe lampeggianti.
Al cinema eravamo in tutto una mezza dozzina, anche meno, trattandosi dello spettacolo pomeridiano di un giorno feriale. Vuoto com’era, il locale mi ricordava quello di mio padre. Pur essendo soltanto una sala di medie dimensioni, circondata su ogni lato da tende color zafferano, aveva la stessa aria di spopolata malinconia e lo stesso odore di muffa e vecchi pop-corn. Una donna anziana, che sedeva due file davanti alla nostra, si voltò a guardarci, per il respiro affannoso di mio padre. Incontrati i suoi occhi, tornò a girarsi verso lo schermo dandosi una piccola sistemata a un orecchino.
Pensai di aver capito cosa stesse pensando: questo non camperà a lungo. Era probabilmente una vedova; una frequentatrice di spettacoli pomeridiani. Avrei voluto dare un colpetto su quella spalla robusta e raccontarle la vita di mio padre. Non era soltanto un signore anziano in camicia sportiva di poliestere, ansimante in un piccolo e squallido cinematografo lontano da tutto.
Anni ’40 risultò essere un film piuttosto notevole. Quando finì, mio padre e io gironzolammo per il centro commerciale. Era un grande complesso, con in mezzo un’oasi dove palme illuminate dai riflettori immergevano le loro fronde in una fontana. Gli anziani sedevano sulle panchine e un sorridente signore vestito di tela bianca si esibiva con l’organino. “L’Arizona è lo stato dei morti viventi,” mi disse mio padre. Poi mi trascinò oltre una sorta di grotta in un Montgomery Ward, a vedere che cosa avevano da vendere.
Guardammo gli stereo, i televisori in miniatura, i telai per finestre d’alluminio e le motofalciatrici schierate su un campo d’Astroturf. “Questa è una buona macchina,” disse lui, saggiando i freni a mano di una di esse, di un rosso acceso.
“Io preferirei una Turf Titan,” dissi, alludendo a un mostro rosso fiammante dalle dimensioni di un piccolo trattore. “Guardala, ci si può addirittura viaggiare.”
“È ridicola per un giovane,” disse lui. “Questa qui costa solo un terzo.”
Fummo così persuasivi nell’impersonare degli acquirenti potenziali che un giovane venditore con i capelli acconciati sopra un’incipiente calvizie si avvicinò a grandi passi e cominciò a descrivere i vantaggi di un modello più costoso di quello scelto da mio padre. Mentre si dava da fare, passò una donna snella che portava due gemelli in una specie di zaino. I suoi occhi – e il corpo intero – apparivano profondamente, quasi permanentemente stanchi, come se nessun riposo, per quanto lungo, potesse rimetterla ormai in forze. Camminava tuttavia con una solida sicurezza che s’imponeva sulla luminosa corsia che stava percorrendo, in cerca di non so quale attrezzo da cortile. I gemelli fissavano concentrati e perplessi l’aria vuota che avevano di fronte. E mentre lei avanzava, pensai quanto doveva essere ben ancorata la sua vita, nonostante le molte difficoltà. A un anno da oggi, i gemelli avrebbero camminato e parlato. A un anno da oggi, lei avrebbe saputo esattamente quanto tempo era passato.
Si voltò e scomparve nel reparto Attrezzi per prati. Il venditore richiamò la nostra attenzione sui dispositivi di sicurezza, indicandoci i tre punti sensibili che avrebbero impedito alla falciatrice di strappare via un braccio o una gamba restituendo in cambio uno spruzzo di sangue e frammenti di ossa. Le sue mani erano bianche e minuscole, i pollici così ricurvi che sembrava dovessero fargli male.
Mio padre e io ascoltammo con attenzione, promettendo di pensarci, tanto che lui prese con un cenno d’approvazione il biglietto da visita del venditore. Ma era di un pallore cereo sotto il neon di Montgomery Ward. La forte luce bianca brillava, attraverso i radi capelli, sul cranio. Appena il venditore ebbe finito, mi affrettai a condurre via mio padre e gli offrii da bere nella penombra silenziosa di una steak house. Un cartello conficcato in un vaso di tulipani di plastica annunciava che erano disponibili gli Early Bird Specials. A quell’ora eravamo i soli clienti del bar.
“Quel ragazzo raccontava grandi balle,” disse mio padre davanti al suo bourbon. “Paghi cento dollari in più, per avere soltanto un tagliaerba un po’ più grosso. Quando potresti averne uno su ordinazione, pagandolo meno di cento.”
“Io comunque non ce l’ho un prato.”
“Be’, quando ne avrai uno saprai che tagliaerba comprare.”
“Se mai lo avrò, io e te andremo seriamente a comprarne uno.”
“Ma allora forse io non ci sarò più. Meglio che ti aiuti adesso a farti avere tutte le informazioni.”
“Senti. Non so se sono un tipo da prato. Io non ho piante. Non posseggo neanche un’auto.”
“Quella Olds ha fatto meno di sessantamila chilometri. Dovrebbe essere ancora in buono stato il giorno in cui diventerà tua.”
Respirai a fondo e in quel momento, per la prima volta da mesi, mi sentii esuberantemente – quasi oscenamente – in buona salute. Per quasi tutta la vita avevo aspettato di sentirgli esprimere desideri più dettagliati e più concreti rispetto alla sua unica aspirazione prioritaria: che io fossi, in ogni minuto, totalmente felice.
“Scusami,” dissi. “Devo andare alla toilette.”
“Mi ritroverai qui.”
I bagni erano nella parte anteriore del ristorante, dietro la cassa. Mi resi conto che anziché raggiungere il gabinetto per uomini, sarei potuto uscire dalla porta principale all’insaputa di mio padre, e lo feci, senza esitazioni e senza nessuna ragione a parte il semplice fatto che era possibile. Superata la porta di vetro affumicato, entrai nella luce uniforme dell’atrio principale del centro. Rimasi un momento immobile, battendo le palpebre in quel chiarore improvviso, mentre la porta si chiudeva alle mie spalle con un sospiro. A quel punto sentii crescere in me una sensazione di libertà sfrenata; un’inebriante vertigine. Mi feci largo fra gli acquirenti verso l’ingresso del centro e raggiunsi, oltre le porte idrauliche, la vera luce del sole. Il parcheggio si stava riempiendo di mariti e mogli appena usciti dal lavoro – il sole dorato del pomeriggio indorava i parabrezza e le antenne radio delle loro macchine. Era una luce autunnale senza ancora niente del freddo dell’autunno. Proseguii, senza pensare a nulla, oltre il limite ovest del parcheggio fino al filare di rachitici alberi di yucca che separavano il centro commerciale dall’autostrada. Ancora oltre, c’era un certo numero di camper, e di là dai camper il deserto, una sterminata distesa costellata di cactus e bordata di rosse montagne irregolari. Pensai di attraversare l’autostrada e inoltrarmi nel deserto. Non presi in considerazione i motivi o le conseguenze. Compresi per la prima volta che era possibile andar via per poco più di un capriccio. Che si poteva scegliere di lasciarsi alle spalle la morte del padre, la solitudine ironica della madre, il proprio incerto avvenire. E trovarsi un lavoro e un alloggio con un nome nuovo in una città sconosciuta, percorrendone le strade senza paura o imbarazzo. Rimasi lì per un po’, contemplando il deserto mentre sfrecciavano le macchine.
Fu mio padre a richiamarmi. O meglio, fu il pensiero della sua crescente agitazione quanto più tardavo a tornare. Non mi turbava molto l’idea che lui perlustrasse i vuoti gabinetti per uomini, aggirandosi per Ward’s o per Sears, e chiamando infine la polizia. Non mi turbava pensare alle iniziative che avrebbe potuto prendere. Ciò che non potevo sopportare era l’idea che in quel momento, solo col suo drink nella steak house, cominciasse a rendersi conto che c’era qualcosa che non andava. Attraversai di corsa l’autostrada e davanti al ristorante dovetti fermarmi un attimo a riprender fiato.
Quando tornai al tavolo, mi disse: “Ti senti bene? Stavo per venire a cercarti.”
“Sto benissimo. È solo un po’ d’indigestione.”
“Non hai un bell’aspetto. Forse è meglio riportarti a casa.”
“No. Sto benissimo. È solo che non sono abituato a bere di pomeriggio.”
La cameriera, una donna più o meno della mia età, con tanta cipria per nascondere la sua brutta pelle, rise di qualcosa che le aveva detto il barista. Avevano entrambi la sigaretta in bocca. Lui era un uomo di mezza età con lo sguardo eccitato e cordiale di un terrier. Il suo riflesso ondeggiava nello specchio affumicato dietro il bancone come una figura sospesa nel ghiaccio. Sopra le bottiglie illuminate, un tiro di minuscoli Clydesdale di plastica, trascinava un carro di birra in miniatura in un cerchio senza fine.
Quella sera dopo cena, quando mio padre tirò fuori la scatola dello Scarabeo, gli chiesi se non preferisse fare due passi. “Non c’è uno spazio per fare due passi. Ma soltanto palazzi per chilometri e chilometri.”
“Vacci, Ned,” disse mia madre. “Reuben ha detto che un po’ di moto potrebbe farti bene.”
“Solo una breve passeggiata,” dissi. “Dieci minuti.”
Si alzò con una secca e fragile emissione di fiato. “D’accordo. Ma non credere di sfuggire così allo Scarabeo.”
“Vado in bagno un momento. Torno subito.”
“Il ragazzo sta più in bagno che fuori,” disse mio padre a mia madre.
“Ho ventisette anni. Più di quanti ne avevi tu quando hai conosciuto mamma.”
Nella toilette, tappezzata di allegri boccioli di rose arancione, mi spruzzai in faccia dell’acqua fredda. Poi rimasi per un po’ sotto il sommesso ronzio del pannello fluorescente. Non mi guardai allo specchio. Mi fermai invece a fissare la tappezzeria, i boccioli allineati come soldati, ognuno sospeso su una foglia grigioverde.
A diciannove anni portavo un filo di perle attorno al collo e mi ero fatto tatuare un drago sulla spalla destra. Avevo lasciato la New York University per un semestre e, senza informarne i miei, m’ero iscritto con i soldi delle tasse scolastiche a una scuola per baristi. Avevo pensato di poter diventare quel tipo di persona che può fare una cosa del genere. E adesso ero qui, in una toilette di Phoenix, senza la minima idea di cosa fare di mio padre, vivo o morto. Non mi ero mai aspettato di trovarmi in una situazione così consueta. Rimasi in bagno fin quando potesse risultare credibile. Azionai due volte lo sciacquone a mo’ di spiegazione.
Quando uscii, mio padre mi chiese se stavo bene.
“Sto benissimo. Su, andiamo a fare questa passeggiata.”
Fuori, era una limpida notte d’Arizona, trafitta di stelle. Una volta sulla strada, mio padre disse: “In che direzione vuoi andare? Non c’è niente né da una parte né dall’altra.”
“Allora a sinistra.”
Su entrambi i lati, brillavano le finestre delle confortevoli case color pergamena. Mio padre si mise a cantare sottovoce Give My Regards to Broadway, e io gli feci coro. Dopo aver percorso un paio di isolati, gli proposi: “Se oltrepassassimo la strada oltre quei due edifici, ci troveremmo nel deserto, no?”
“Ci sono i serpenti lì. E gli scorpioni.”
L’idea che Ned Glover, ex proprietario di un cinema dell’Ohio, vivesse dove vivevano serpenti e scorpioni era così assurda che esplosi in una fragorosa risata. Mio padre doveva aver pensato che io ridessi della sua cautela così, facendosi coraggio: “Be’, spero che le tue scarpe siano abbastanza robuste,” mi disse mentre si avviava fra due case verso l’aperta campagna.
Rimasi un po’ indietro, preoccupato per gli scorpioni. Lui percorse una ventina di metri, si girò con il cenno di avvicinarmi, e riprese a camminare. Quando passò dall’ombra degli edifici al chiarore stellare del deserto, il vento gli scompigliò i capelli. Fu come vederlo emergere da un tunnel. Gli trotterellai dietro, attento a dove mettevo i piedi.
“Ci sono davvero i serpenti?” domandai.
“Già. A sonagli. La signora Cohen, una nostra vicina, ne ha trovato uno annegato nella sua Jacuzzi.”
Entrammo insieme nel deserto. Sul terreno, livellato come un set cinematografico, spuntavano qua e là le nere e spinose efflorescenze a stella di una yucca. Davanti a noi, si ergevano le vette piatte di una catena montana, sempre più luminosa quanto più si avvicinava al cielo. Alle pendici, alcune luci fioche si stagliavano dall’oscurità più profonda, come lanterne d’eremiti o fantasmi Navajo o alieni che si stavano accampando.
“Bella notte,” disse lui.
“Splendida. Papà?”
“Cosa?”
“Nulla.”
Temevo che non avremmo più avuto molto tempo. Pur avendo sempre dato per scontato, senza mai ammetterlo, che mio padre sarebbe morto prima di me, immaginavo il suo decesso come un qualcosa di lontano; in un futuro in cui io sarei stato più saggio, più solido e presente. Ma all’improvviso – letteralmente dall’oggi al domani, sembrava – i suoi polmoni si stavano consumando a un ritmo inimmaginabile e forse il mio sangue infetto si preparava a manifestare i primi sintomi. C’erano cose che avrei voluto domandargli, ma non ero riuscito a formularle né dentro casa, né sulla Oldsmobile né al centro commerciale. Avevo sperato di poter essere più deciso sotto le stelle.
“Il gatto ti ha mangiato la lingua?” disse.
“Forse.”
Mi stavo ancora sforzando di inventare una versione alternativa di me stesso, una persona fiera e risoluta, capace di guardare suo padre con calma e di confidargli i suoi più reconditi segreti. Volevo che lui mi conoscesse; che mi vedesse. Avevo aspettato di trovarmi sistemato e realizzato per presentarmi a lui con una felicità visibile.
Mio padre disse: “Stavo pensando a quel tagliaerba.”
“Cosa pensavi?”
“È un così buon affare. Magari domani torniamo a prenderlo. Posso tenertelo io finché non ne avrai bisogno.”
“E intanto lo useresti?”
“Io? Per falciare il mio giardino roccioso? Abbiamo un garage per due grosse macchine, c’è tutto lo spazio.”
“Vuoi dire che nel caso improbabile che io avessi mai un prato, potrei venire qui a prendere questa falciatrice vecchia di dieci o venti anni?”
“Le cose le fanno sempre peggio. Sai quanto pagherebbe tua madre per riavere in buone condizioni il suo vecchio Hoover? Oggi non lo trovi più a nessun prezzo, gli aspirapolvere in commercio sono tutti di plastica.”
“Non dirai sul serio.”
“Certo che dico sul serio. Tu erediterai comunque tutto quello che c’è in casa; perché allora non un buon tagliaerba in un futuro in cui i soli che potrai comprare saranno di gomma?”
“Io non voglio un tagliaerba. Davvero. Grazie dell’offerta.”
“Forse lo comprerò ugualmente. Così ci sarà e, se non lo vorrai, potrai sempre regalarlo all’Esercito della Salvezza o qualcosa del genere.”
“Papà, non voglio un tagliaerba.”
“Be’, staremo a vedere.”
“Non voglio un trapano a motore, né un forno a microonde, né una Mercury berlina. Non voglio un abbonamento alla stagione degli Indians. Non voglio un Rototiller, né una canna col mulinello, né un thermos che tenga il caffè in caldo per tutta la giornata.”
“Su, su. Non c’è bisogno di eccitarsi.”
“Quel che vorrei veramente è sapere cosa mi è successo. Perché sembra che non riesca a costruirmi una vita?”
La sua faccia si contrasse. Per lui era un fatto consueto questo tendersi dei muscoli facciali sotto la pelle – succedeva quando doveva affrontare qualcosa cui era contrario o che non sapeva spiegare. Sembrava letteralmente che il suo volto si accartocciasse e restringesse, come se i lineamenti si spostassero a poco a poco verso il centro in un atto di tensione, come guardare dal buco di una serratura da una distanza di qualche metro.
“Troverai qualcosa. Sei ancora giovane, ci vuole tempo.”
“Cosa mi è successo? Tu c’eri, devi averlo visto. Continuo a pensare che deve esserci stato qualcosa che non ricordo. Ho un lavoro discreto. Ho amanti e amici. Allora perché mi sento così intorpidito e scollegato? Perché mi sento un fallito? Mi hai fatto tu qualcosa? Non te ne farò una colpa. Ho soltanto bisogno di sapere.”
Fece una pausa per aspirare una boccata d’aria. La sua faccia continuava a contrarsi.
“Io ti amavo e lavoravo sodo anche per te. Non so. Devo aver fatto qualche sbaglio. Tua madre e io ci prendemmo cura di te come meglio potevamo.”
“Questo lo so... Lo so. Perché allora sono un tale disastro?”
“Tu non sei un disastro. Voglio dire, se adesso hai dei problemi...”
“Rispondi alla mia domanda.”
“Non saprei.” I suoi occhi divennero vitrei e la bocca rimase semiaperta. Cosa stava ricordando? Certo qualcosa doveva esserci stato – un accesso d’odio quando non la finivo più di piangere, qualche meschinità nata dalla gelosia. Qualche piccola azione o un’omissione, un breve banale venir meno dell’amore che, alla lunga, non spiegava nulla.
Restammo un po’ in silenzio, per noi una cosa rara. Di solito lo evitavamo. Eravamo entrambi buoni parlatori e sapevamo riempire l’aria che avevamo attorno di chiacchiere, giochi o brani di canzoni. La sagoma a forma di falce di uno sparviero saettò sopra le stelle. Una lattina vuota di Seven-up brillava nel chiarore lunare come un oggetto prezioso.
“Papà, ascolta.”
Non mi rispose. E solo allora mi resi conto di quanto facesse fatica a respirare.
“Papà? Stai bene?”
La sua faccia era offuscata, gli occhi innaturalmente ingranditi dallo sforzo di respirare. Aveva l’aria sconvolta di un pesce fuor d’acqua, esposto a una luce penetrante, intollerabile.
“Papà? Puoi parlare?”
Scosse il capo. Il mio primo pensiero fu di fuggire. Potevo ancora squagliarmela; potevo negare tutto. Nessuno mi avrebbe mai sospettato.
“Papà?” domandai smarrito. “Oh, papà, cosa devo fare?”
Mi fece segno di avvicinarmi. Lo presi per le spalle, inalando un odore di colonia e di whisky, che non era mai cambiato da quando ero bambino. I suoi polmoni cigolavano come un pallone sfregato con vigore.
Con molta attenzione, come se fosse fatto di porcellana, lo aiutai a mettersi seduto. E mi sedetti accanto a lui, tenendolo abbracciato, su quella terra friabile come talco.
Allora è questa, pensai. La morte di mio padre è questa. Non sapevo come aiutarlo, cosa fare; dove seppellirlo. Accarezzai i suoi capelli a ciuffi, un tempo così ricchi e folti da decidere le ragioni di un matrimonio.
Aprii la bocca per parlare e mi accorsi che non avevo nulla da dirgli. Le sole frasi che mi venivano in mente erano quei luoghi comuni sul letto di morte, che avrebbe potuto offrirgli qualsiasi estraneo. Parlai lo stesso. L’unica alternativa era lasciarlo morire in silenzio.
“Va tutto bene... Tutto.”
Non riusciva a parlare. Aveva la faccia scura e dilatata dalla difficoltà della respirazione.
“Non preoccuparti per me o per mamma. Ce la caveremo. Davvero va tutto bene. È tutto a posto.”
Non sapevo se poteva sentirmi. Sembrava essersi chiuso in se stesso, e allontanato dal proprio cervello per concentrare ogni forza sul respiro. Continuai ad accarezzargli la testa e le spalle, dicendo che sarebbe andato tutto bene.
E, dopo un po’, si riprese. L’aria ricominciò a penetrare nei polmoni, e la sua faccia perse man mano quell’aspetto sconvolto, strozzato di pochi attimi prima. Sedevamo insieme nella polvere mentre i suoi polmoni, assottigliati come stamigna, riuscivano in qualche modo a organizzare ancora una volta il passaggio dell’ossigeno.
Infine disse: “Credo di aver fatto uno sforzo eccessivo. Mi sono lasciato un po’ trasportare.”
“È meglio che tu rimanga qui. Io vado a cercare aiuto.”
Scosse il capo. “Starò benissimo. Dovremo solo tornare indietro camminando molto lentamente. Okay?”
“Certo. Naturale. Scusami, papà.”
“Di che?”
Lo aiutai ad alzarsi e iniziammo la lunga marcia verso casa. Ci volle più di un’ora per coprire una distanza che uscendo ci aveva richiesto una ventina di minuti. In alto le stelle cadevano.
A quindici anni, mio padre e io andammo in macchina a fare acquisti a Chicago e tornando a casa fummo sorpresi da un uragano. Pioveva a scrosci; il cielo s’incupì fino a quel grigioverde opaco che produce i tornado. La situazione era tale che ci toccò fermarci in un’area di servizio affacciata su un lago melmoso oltre il quale c’era la vasta distesa di un campo di orzo. La pioggia martellava il tetto e il cofano della nostra auto. Sedemmo in silenzio, schiarendoci ogni tanto la gola, finché un lampo non tinse per un attimo la superficie del lago di un giallo livido. Poi entrambi ci mettemmo a ridere. Come se il lampo fosse stato la battuta finale di una barzelletta lunga e complicata. Finito di ridere, parlammo del mio avvenire, della possibilità di prendere un nuovo cane e dei nostri dieci film preferiti. E quando la tempesta passò, ci avviammo verso casa con la radio accesa e i finestrini aperti. Avremmo appreso in seguito che un tornado si era in effetti abbattuto sulla zona, distruggendo un serbatoio idrico e un cimitero Amish a meno di trenta chilometri da dove avevamo parcheggiato.
Adesso camminavamo insieme, con molta lentezza, nella notte blu e bianca del deserto.
“Papà?”
“Sì, figliolo.”
“Domani potremmo andare a vedere un altro film. Dicono che Stregata dalla luna non sia tanto male.”
“Bene. Tu mi conosci. Per un film sono sempre disponibile.”
Insetti sconosciuti emettevano un sommesso ma insistente stridio; o piuttosto qualcosa di simile a un frullar d’ali, il suono che potrebbe produrre la terra se rotolasse al buio nel silenzio più assoluto. Le luci dei palazzi splendevano. Non erano tanto lontane, anzi fin troppo reali e vicine perché fosse possibile toccarle. Come buchi praticati nella notte, facevano trapelare la luce di un altro mondo, più animato. Immaginai per un momento di essere un fantasma, e camminare all’infinito in un silenzio più profondo del silenzio, cogliere, ma senza mai raggiungerle, le luci di casa.