Jonathan

Clare ebbe le nausee in sette stati diversi. La prima volta successe al Grand Canyon quando, pallida ed eretta accanto a un telescopio fuori uso del South Rim, stava guardando il panorama con gli occhiali scuri. Mentre Bobby premeva contro il parapetto prorompendo in continue esclamazioni per la profondità delle distanze, Clare mi toccò un gomito e mi disse sottovoce: “Tesoro, non credo di poter resistere.”

“Resistere a che cosa?” domandai.

“A questo,” disse lei, indicando con un gesto l’abisso. “A tanta bellezza e grandiosità. A un momento come questo. Per me è troppo.”

Le rimasi accanto. Era una mattinata calma, ma pensavo confusamente che avrei protetto Clare da eventuali refoli di vento sollevati dalla vastità del canyon. Era l’alba. Il sole gettava una martellante luce dorata sulle pareti rocciose, che scendevano a precipizio in un lago instabile e scintillante; si avvertiva ancora una specie di oscurità trasparente e violacea, apparentemente senza fondo. Bobby ballava in estasi sul bordo, abbracciandosi intorno ai fianchi ed emettendo piccoli gemiti di sorpresa.

“Non è niente,” dissi a Clare. “Appena finito di guardare, andremo a fare colazione.”

Quest’ultima parola le procurò conati di vomito. Per sostenersi si aggrappò al telescopio che, ruotando, si alzò con un cigolio verso uno squarcio di una nuvola rosa vivo. Poi s’accovacciò ed ebbe altri conati, ma non vomitò. Un filo di saliva le penzolava dalla bocca, risplendendo alla luce.

La presi per le spalle. “Tesoro, tu stai male,” dissi.

“È troppo bello,” disse lei. “Meglio riportarmi sulla Chevy Nova.”

“Aspetta un momento. Vado a prendere Bobby.”

“Lascialo stare. Non interromperlo. È praticamente in trance.”

Forse aveva ragione. Bobby, che aveva smesso di saltellare e ballonzolare, se ne stava ora con le mani appoggiate al parapetto, come il comandante di una nave durante una tempesta. Era più disponibile di noi due a manifestare le proprie emozioni – non aveva paura di esagerare.

Aiutai Clare a salire sulla Chevrolet che avevamo noleggiato. Ci eravamo entrambi rassegnati, con un misto d’ironia e di autentico interesse, a tornare in macchina a New York dall’Arizona. Era la nostra prima mattina – eravamo partiti da casa di mia madre alle 3 di notte per essere al Grand Canyon all’alba. Nei cinque giorni successivi avremmo attraversato le Montagne Rocciose e le Grandi Pianure, avremmo reso omaggio ai morti dell’Ohio e comprato casse di Shaker in Pennsylvania. Era soprattutto il viaggio di Bobby. Guidava quasi sempre lui e insisteva per sostare in negozi che reclamizzavano “Prosciutto nostrano” o “Prodotti dell’artigianato locale” che, tre volte su quattro, venivano in realtà da qualche paese asiatico. Comprò con la mia carta di credito oltre cento dollari di cassette: gli Stones, David Bowie, Bruce Springsteen. Ascoltò di continuo Born to Run finché Clare non gettò il nastro fuori dal finestrino sulla strada per Sandusky.

La sistemai sul sedile anteriore. La macchina aveva un immacolato odore di gomma e lei respirò a fondo come se l’aria condizionata potesse rimetterla in sesto. “Grazie, tesoro,” disse. “E adesso vattene. A guardare il panorama.”

“No. Resto qui con te.”

“Credi che io voglia essere quella che ti ha costretto a star seduto su un’utilitaria invece di vedere il Grand Canyon? Va, per l’amor del cielo.”

Andai. Affiancai Bobby al parapetto. A quell’ora, fuori stagione, il belvedere era deserto. Soltanto un bicchiere di cartone schiacciato luccicava isolato sulla sottile striscia di terra rossa. La luce del mattino, brillante e fresca, ci inondava il viso e i vestiti.

“Fantastico,” dissi.

Bobby si voltò verso di me. Non era in grado di parlare e avrebbe probabilmente desiderato che non lo facessi nemmeno io. Ma la sua buona educazione non veniva mai meno.

“Uh-huh,” disse.

“Non te l’aspetti,” continuai. “Voglio dire, lo hai visto un mucchio di volte sui sottobicchieri, sugli strofinacci per i piatti e non so in quanti altri posti. Pensavo che potesse essere un po’ kitsch.”

“Uh-huh.”

“Ha messo kappaò Clare. Ho dovuto riportarla alla macchina.”

“Hmm.” Mi passò un braccio sulle spalle, perché mi voleva bene e perché desiderava ardentemente che io stessi zitto. Gli cinsi la vita. Sentii il suo odore e la sua carne solida, familiare. Guardammo sorgere il sole. Bobby era caldo e ben piantato, e il suo cervello brulicava di pensieri che mi erano familiari e nello stesso tempo del tutto estranei. Sul suo polso c’era ancora il neo rosso-bruno. Clare ci aspettava in macchina, distrutta dal panorama. Pensai in quel momento di non aver mai amato nessuno, se non i miei genitori e queste due persone. Forse non ci riprendiamo mai dai nostri primi amori. Forse, nella prodigalità della giovinezza, facciamo dono facilmente, e del tutto arbitrariamente, del nostro affetto, col presupposto sbagliato d’averne sempre altro da offrire.

Clare ebbe di nuovo la nausea il mattino dopo, a Pikes Peak. “Devo essere allergica ai monumenti nazionali,” disse. L’accompagnammo alla toilette per signore di una stazione di servizio della Shell e l’aspettammo per quasi mezz’ora. Ricomparve pallida e rigida, in occhiali da sole e labbra tinte di rosso scuro. Sembrava una vecchia diva del cinema. Alle sue spalle, cime di granito impolverate di neve.

“Tesoro,” dissi, “vuoi che andiamo direttamente a Denver e ti carichiamo su un aereo?”

“No. Mi sembra di star bene. Ieri mi era passata, no? Probabilmente è solo un piccolo virus.”

Si era effettivamente riavuta verso le dieci. Il suo viso riprese colore e il suo corpo abbandonò quella postura contratta, formale. Percorremmo umidi prati, dove stava spuntando la prima erba, circondati da montagne coperte di pini e di nudi pioppi bianchi. Era un paesaggio verdeggiante e privo di complicazioni – tutto aperto e senza sostrati minacciosi. Più a nord, sospettai, il terreno sarebbe stato più accidentato, le cime più frastagliate, e se ti allontanavi troppo dalla strada rischiavi di essere inghiottito dalla mera insondabile distanza della terra e del cielo. Qui, nel cuore del Colorado, attraversavamo soltanto paesaggi di maestosa e placida bellezza. C’erano ovunque montagne e prati destinati al pascolo, ruscelli argentei che scorrevano rumorosamente lungo la strada, costellati di rocce color cioccolato. Uno spettacolo che ti inteneriva per la sua fertile dolcezza, ma non ti cambiava. Non minacciava mai di spezzarti il cuore.

Viaggiammo tutto il giorno e arrivammo nel Nebraska prima del tramonto. Clare lesse “Vogue”, “Interview” e “Rolling Stone”. “Quel che mi piace di più dei viaggi in macchina,” disse, “è che sei autorizzata a leggere stupide riviste per ore e ore. Voglio dire che un paesaggio lo puoi guardare in qualsiasi momento, ce ne sono dappertutto. Ma l’occasione di leggere un intero numero di ‘Interview’ senza sentirti in colpa? Quella è rara.”

Dormimmo in un motel ottanta chilometri a ovest di Lincoln e ripartimmo appena spuntato il sole. Quel mattino Clare si sentì male solo un po’. Ci abbandonammo al ritmo cullante della macchina, leggendo, mangiando e ascoltando musica, mentre scorrevano le campagne del Nebraska, dell’Iowa e dell’Illinois. Devi percorrere le Grandi Pianure per renderti veramente conto del vuoto di questo paese. Le sue vere caratteristiche non sono il traffico e i negozi con tante merci esposte, ma una solitudine spazzata dai venti che non ha nemmeno la dignità di un vero deserto – l’orizzonte non è mai del tutto vuoto. Il sole brilla sempre su un remoto serbatoio d’acqua o su un silo, su un cartellone pubblicitario o su un magazzino provvisorio col tetto di latta. Ogni quaranta o cinquanta chilometri, attraversi un’oscura cittadina che continua a esistere per lo stesso inspiegabile motivo per cui è nata anni fa. Ci fermammo a mangiare in alcune di queste cittadine sperando in crocchette di patate e cipolle o pasticci di carne fatti in casa e messi in forno un’ora prima dalla moglie del proprietario, ma il cibo era sempre insipido, scongelato, cotto in un forno a microonde. Scorrevano i campi, seminati ma ancora spogli, ore e ore di terra nera sotto un freddo cielo. Clare ci lesse qualche racconto di Flannery O’Connor. La nostra macchina divenne sempre più indecorosa, ingombra d’involucri e bottiglie vuote. Al tramonto, quando ci fermammo in un motel dell’Indiana, avevamo praticamente perso qualsiasi contatto con le nostre storie e il nostro futuro – sembrava che attraversassimo da sempre una distesa senza fine di campi coltivati e che avremmo continuato così per sempre. È questo l’orrore e insieme la meraviglia di un lungo viaggio. Perdi di vista la tua vita a una velocità sbalorditiva. Nel giro di due settimane, un viaggiatore interstellare non sarebbe identificabile con certezza come un terrestre; dopo sei mesi nello spazio, potrebbe anche non tornare più sulla terra.

L’indomani attraversammo Cleveland. Clare ebbe la nausea al mattino, più che nel Nebraska ma meno che a Pikes Peak. Quando, poco dopo le 11, giungemmo nei sobborghi della città, si era abbastanza ristabilita.

“Cleveland,” disse. “Chi si era mai aspettata di visitare un luogo così remoto, così esotico?”

Entrando in città, Bobby e io fummo colti da un’ansia molto percettibile. Ci indicavamo a vicenda degli edifici, scherzavamo sulla loro altezza. Ci erano sembrati così grandi. Superammo l’accozzaglia di costruzioni in travertino del centro, imboccammo l’uscita di sempre. L’itinerario fu breve. Passammo comunque davanti al parcheggio in cemento e mattoni a sei piani, sorto al posto del cinema di mio padre. Il nuovo edificio era un insieme di rampe a ripiani con una freccia azzurra fluorescente, e inspiegabilmente affascinante, che ne indicava l’ingresso. Era semplice e armonioso, totalmente funzionale, e aveva l’aria di poter reggere centinaia d’anni. Il vecchio cinema di mio padre, costruito negli anni della Depressione, era stato decorato in economia, con mattoni gialli disposti a spina di pesce e un’insegna d’alluminio arcuata e rigonfia come un’onda dell’oceano. Anche quando era nuovo, doveva aver dato un’impressione di provvisorio, un piccolo monumento alla distrazione e al buonumore nato in un periodo difficile. Il parcheggio era più razionale, solido e levigato come una roccia.

“Capitolo chiuso,” dissi. “Riposa in pace, papà.” Riuscii a dare alla mia voce un tono brusco, frivolo, non sopportando l’idea di diventare caramelloso in un’occasione così ovvia. Non ero contrario al sentimentalismo, ma non mi garbava passare per un babbeo. Non mi dispiaceva del tutto che il locale di mio padre fosse fallito. Mi vergognavo vagamente, sentendomi solo, ma ero anche contento di me, semplicemente perché ero vivo, e avevo ancora un futuro. Solo il più fanatico dei nostalgici avrebbe potuto negare che questa parte della città era generalmente migliorata. Nuovi ristoranti proclamavano i loro nomi a caratteri dorati, e una famosa catena di grandi magazzini stava rinnovando il defunto negozio a gestione famigliare che vendeva squallidi vestiti fuori moda e vistosi gioielli artificiali.

Passammo davanti alla casa della mia famiglia, che aveva un aspetto meraviglioso. I nuovi proprietari l’avevano dipinta di verde pino e avevano rifatto le asticelle del tetto. Un lucernario era stato installato sopra l’ex camera dei miei genitori. Mi fu facile immaginare l’attuale stato delle stanze: le parti in legno dipinte di bianco e la moquette tolta per lasciar scoperti i pavimenti di quercia. Magari c’erano dei quadri e selezionati mobili di pelle.

“Merda,” disse Bobby. “Guarda cosa le hanno fatto.”

“Mi sembra bellissima,” gli dissi. “Non fermarti. Non è più nostra, non pensare nemmeno di presentarti alla porta a chiedere se possiamo dare un’occhiata dentro.”

“Non lo farei mai,” disse lui, ma io sapevo che se fosse stato solo avrebbe fatto esattamente questo. Bobby non era capace di lasciare le cose come stavano.

L’ultima fermata fu verso la periferia, al terreno in cui era sorta e poi bruciata la casa di Bobby, e poi al cimitero. Ci spingemmo fino al suo vecchio quartiere, passando davanti al basso muro di pietra da lastrico dove la parola “Woodlawn” fluttuava in arabescati caratteri di ferro battuto, con la N finale che si era staccata; ma ne rimaneva la sagoma, un’ombra chiara sulla pietra. Seguimmo la strada a serpentina, superando case che si ripetevano a gruppi di tre, e parcheggiammo nell’area della sua vecchia abitazione. La casa era scomparsa, bruciata venti anni prima e poi spianata con un bulldozer, ma al suo posto non avevano costruito nulla. In questo lotto non c’erano ammodernamenti in corso. Era chiaro che i residenti si erano annessi la proprietà senza acquistarla formalmente: era stato cintato un piccolo orto, pronto per le semine di primavera, e un’altalena stava arrugginendo fra le erbacce. Come se la proprietà dei Morrow fosse diventata il parco pubblico di un sobborgo di Cleveland. Gli altri abitanti dell’isolato, quelli che ancora occupavano le sbiadite e scadenti case coloniche con vaschette per gli uccelli o nanetti di plastica nei prati, se n’erano appropriati. Me li immaginavo riuniti lì al crepuscolo, con i bambini che dondolavano sulle altalene cigolanti, mentre le donne piantavano girasoli e si scambiavano sottovoce commenti sui fatti del giorno. Era stato un atto leggermente criminoso, la pretesa ingiustificata di persone che non stavano prosperando ma solo tirando avanti, e la proprietà non era più recuperabile. Per impadronirsi di quel pezzo di terra si sarebbe dovuto strapparlo a chi aveva imparato a occuparsene. Ormai non si potevano demolire quei lavori per innalzare una nuova casa, senza il rischio di sembrare un invasore, non molto diverso da un coloniale, e il terreno sarebbe stato in pericolo finché la nuova casa non fosse di nuovo caduta. Quel luogo, già periferico, era tornato allo stato selvaggio e non sarebbe stato possibile riaddomesticarlo senza una lotta che avrebbe macchiato le mani del vincitore.

“Era questa,” disse Bobby. Clare si guardò intorno incredula. Non si era aspettata nulla di così squallido, anche se avevamo fatto del nostro meglio per prepararla.

Scendemmo dall’auto e camminammo fino a quel pezzo di terra nuda, sotto il singolare e attonito sguardo di un ragazzo dai capelli rossi che stava scavando nel terriccio con un cucchiaio da tavola. Mentre ci avvicinavamo sempre più, Bobby disse: “Qui c’era la porta d’ingresso. E, sì, qui doveva esserci il soggiorno. E lì la cucina.”

Restammo un momento in quella casa fantasma, guardandoci attorno. Era così totalmente scomparsa, quasi evaporata. Il sole splendeva sulla terra brulla. Clare si chinò a raccogliere un soldatino di plastica beige accovacciato con un bazooka.

“Qui c’era lo studio, credo,” disse Bobby. “Ma forse era là.”

Attraversammo il fossato che separava la proprietà dal cimitero, scavalcando con un salto quel rivolo d’acqua sporca che scorreva sul fondo. Bobby guardò per un attimo un angelo di pietra in equilibrio su un cippo, il più alto monumento del luogo. Stava inclinato in avanti sulle punte dei piedi, con le braccia sottili levate in un gesto più estatico che solenne. Non penso che lo scultore intendesse dargli un’espressione di trionfante sessualità.

“Qui una volta c’era uno steccato,” disse Bobby sulla difensiva. “Il cortile dietro casa era più isolato di come sembra.”

Ricordai che l’angelo appariva un tempo sopra lo steccato dei Morrow, fluttuante fra i rami.

“Mm-hm,” disse Clare. Era diventata più silenziosa da quando eravamo a Cleveland. Non avevo idea di cosa le passasse per la mente.

Bobby ci guidò direttamente alle tombe della sua famiglia. Si trovavano a una certa distanza da quella che era stata una volta la casa, in una parte più nuova del cimitero. Le file di lapidi proseguivano per una quindicina di metri, oltre i quali potevi vedere la linea che divideva la marea avanzante delle tombe dall’erba ancora intatta che aspettava le prossime.

“Ecco,” disse Bobby. Suo padre, sua madre e suo fratello avevano lapidi di granito simili fra loro, lucenti e grigio scuro, e leggermente umide, su cui erano incisi soltanto nomi e date. Restammo in silenzio davanti a esse. Bobby le guardava con un rispetto quasi impersonale, come un turista in visita a un santuario. Ormai il suo lutto era finito e lui si era staccato dal processo di liquidazione della sua famiglia. Se n’erano andati tutti e tre e lo avevano lasciato qui. Dopo un po’ disse: “Certe volte mi domando se sulle lapidi non dovrebbe esserci qualche messaggio. Ma di loro non si può dire nulla, se non che erano parenti.”

“Che specie di messaggio vorresti?” domandai.

“Non lo so. Soltanto... Oh, be’, non so.”

Guardai Clare, che stava guardando Bobby con un misto di stupore e d’incertezza. Prima di allora, credo, non lo aveva mai considerato un essere umano indipendente, con una storia di perdite e di grandi speranze. Le si era presentato come una collezione di tic e di potenzialità non sfruttate – e lei aveva praticamente dovuto inventarlo. Come un ipnotizzatore guarda il suo soggetto come un campo in cui piantare le proprie suggestioni, così Clare doveva aver visto in Bobby un progetto il cui successo o fallimento dipendevano soltanto da lei. Era l’unica donna con cui lui fosse andato a letto. Gli sceglieva i vestiti e gli tagliava i capelli. Erano così, forse, i matrimoni combinati, con la sposa che arrivava talmente giovane e immatura da dar l’impressione di assorbire l’unione nella propria pelle, adottando le inclinazioni del marito e rendendole indistinguibili dalle sue. Clare, il marito, doveva aver visto per la prima volta che Bobby aveva una vita fuori dal suo ambito. Non capii se era contenta o costernata.

Dopo un po’ ce ne andammo. Sembrava che dovesse esserci ancora qualcosa da dire o da fare, ma i morti sono un argomento difficile. Ciò che hanno di più notevole è la loro costanza. Saranno morti anche fra mille anni. Io mi stavo ancora abituando a questo relativamente a mio padre. Per tutta la durata della sua vita, avevo pensato che potessimo ancora cambiare l’uno agli occhi dell’altro. Adesso invece non avevamo più modo di modificarci. Si era portato questa possibilità nel fuoco del crematorio.

Tornammo alla macchina. Mi toccai i due cerchietti d’argento che portavo all’orecchio, abbassai gli occhi sui vestiti. Ero un uomo in stivali da cowboy e jeans neri. Portavo al polso dieci braccialetti neri di gomma. Potevo ancora viaggiare, cambiar lavoro, leggere Turgenev. Potevo avere qualsiasi tipo d’amore.

“Prossima fermata, New York City,” disse Bobby che era al volante. Non che fosse triste, ma aveva uno sguardo assente – la sua reazione abituale ai dispiaceri. La voce aveva perso ritmo e cadenza, la faccia si era afflosciata. Non avevo mai visto nessuno così. Bobby poteva ritirarsi dalla superficie della propria pelle, e quando succedeva, avevi il sospetto che se lo avessi trafitto con un ago, la punta sarebbe dovuta penetrare per qualche millimetro prima di strappargli un grido. In quei momenti di vuoto non diceva e non faceva nulla di differente. Parole e atti continuavano immutati. Ma c’era qualcosa che veniva meno: spariva la sua spinta vitale e s’insediava un’aria sonnolenta che avrebbe potuto essere scambiata per stupidità da chi non lo conosceva bene.

Gli domandai se voleva passare alla panetteria per rivedere il suo vecchio principale e rispose di no. Disse che era ormai tempo di rimetterci in viaggio, come se avessimo bisogno di arrivare a New York a un’ora particolare. Gli accarezzai una spalla mentre entravamo in autostrada. Penso che ci sentissimo entrambi sconfitti da Cleveland, dai suoi obiettivi banali e dalle sue modeste prospettive. Forse altri hanno un’esperienza più piacevole e definitiva quando rimettono piede nella città natale; quelli che sono fuggiti da degradati quartieri industriali o decaduti da vette di grande ricchezza o felicità. Forse riescono meglio a dire: “Una volta ero lì e adesso sono altrove.”

Nell’ora successiva restammo tutti in silenzio. Clare era talmente chiusa in se stessa che quando le domandai se aveva di nuovo la nausea, mi rispose di no con irritazione. Arrivò la Pennsylvania col suo lungo fluire di bianchi granai e di dolci colline. Viaggiavamo in una piccola serra di tetraggine immotivata.

Senza preambolo, mentre ci avvicinavamo a un cartellone di Jay-Dee’s Cheese Popcorn, Bobby disse: “Stavo pensando. Non vi è mai venuta voglia di trovare un posto fuori città? Una casa dove si possa vivere tutti insieme?”

“Vuoi dire noi tre?” domandai.

“Uh-huh.”

Clare disse: “Le comuni non sono più di moda.”

“Non saremmo esattamente una comune. Siamo una famiglia, non credete?”

“Probabilmente,” dissi.

“Non siamo affatto una famiglia,” disse Clare.

“Ti piaccia o no,” le disse Bobby, “è troppo tardi per tirarsi indietro.”

A voce bassissima Clare disse: “Ferma la macchina.”

“Eh? Che c’è?”

“Hai la nausea?”

“Ferma. Ferma la macchina e basta.”

Bobby parcheggiò sul ciglio della strada, immaginando che lei volesse vomitare. Eravamo letteralmente lontani da tutto in un tratto di terra agricola lasciata incolta, di campi infestati di erbacce e cosparsi di rifiuti. Davanti a noi, un cartellone della Texaco scintillava sulla curva della strada.

“Tesoro,” dissi. “Ti senti bene?”

Aveva aperto la portiera quasi prima che Bobby finisse di fermarsi. Ma anziché sporgersi per vomitare, saltò a terra e cominciò a camminare, con furiosa determinazione, fra i cespugli lungo la strada. Bobby e io esitammo, cercando la reazione più adeguata.

“Che c’è?” domandai.

“Non so.”

“È meglio andarle dietro.”

Scendemmo dalla macchina e ci mettemmo a correre per raggiungerla. Un autotreno a nove assi ci superò fragorosamente, sollevando sabbia e un turbine di rifiuti intorno ai nostri piedi.

“Ehi,” disse Bobby. Le toccò un gomito. “Ehi, che succede?”

“Lasciatemi in pace. Per piacere, tornate in macchina e lasciatemi in pace.”

Intendeva forse dire, in maniera confusa, che voleva lasciarci qui in Pennsylvania. O tornare indietro con l’autostop o cominciare una vita di vagabondaggi attraverso la nazione, lavorando qua e là come cameriera e prendendo alloggio in alberghetti di paese. Avevo avuto anch’io impulsi del genere.

“Clare,” dissi. “Clare.” Pensavo che il suono della mia voce potesse calmarla. Ero il suo migliore amico, il suo confidente. Si voltò. La sua faccia era buia di rabbia.

“Lasciatemi in pace. Andatevene e basta. Tutti e due.”

“Che succede?” disse Bobby. “Stai veramente male?”

“Sì,” disse. Per sfuggirci lasciò il bordo della strada e s’inoltrò in quella piatta distesa di gessosa terra incolta. Si vedevano brandelli di copertoni e la pelle infeltrita di un procione mummificata dal trascorrere delle stagioni. Continuammo a camminare al suo fianco.

“Clare,” dissi, “che succede? Che diavolo succede esattamente?”

La sua voce sibilò: “Sono incinta. Va bene?”

“Incinta?”

“Stiamo per avere un bambino?” disse Bobby. “Io e te?”

“Sta’ zitto. Per favore sta’ zitto e togliti dalle palle. Non voglio nessun cazzo di bambino.”

“Sì, invece.”

“No. Oh, maledizione. Ho lasciato passare quasi tre mesi. Non avevo mai avuto nausee mattutine. L’altra volta che ero rimasta incinta, avevo provveduto prima che succedesse questo.”

“Tu vuoi avere il bambino,” disse Bobby.

“No. Sono stata soltanto, non so, pigra e stupida.”

“Sì. Possiamo averlo. Possiamo averlo tutti e tre.”

“Tu sei pazzo. Lo capisci quanto sei pazzo?”

“Un bambino,” mi disse Bobby. “Ehi. Noi stiamo per avere un bambino.”

“Noi non stiamo per avere niente,” disse lei. “Può darsi che ce l’abbia io. E può darsi di no.”

“Tesoro, ne sei sicura?” dissi.

“Oh, certo che ne sono sicura. Sicurissima.”

Eravamo arrivati a metà del campo, in cammino verso il nulla. Davanti a noi c’era soltanto un filare di nudi alberi color cemento che delimitavano un secondo campo. Tuttavia Clare continuava a camminare come se le risposte a ogni sua domanda fossero appena oltre l’orizzonte. Il sole splendeva anemico attraverso una sottile poltiglia di nubi.

“Clare,” disse Bobby. “Fermati.”

Lei si fermò. Si guardò attorno e per la prima volta sembrò rendersi conto di essere in aperta campagna, senza una destinazione ragionevole a portata di mano.

“Non posso farlo così,” disse lei. “Dovrei essere innamorata di una sola persona o avere il bambino per conto mio.”

“Sei solo spaventata,” disse Bobby.

“Magari. Preferirei essere spaventata che furiosa. E imbarazzata. Mi sento così sciocca. Cosa dovremmo fare? Iscriverci insieme ai corsi per partorienti? Tutti e tre?”

“Forse,” dissi io. “Perché no?”

“Non sono così eccezionale,” mi rispose. “Sono solo i miei capelli.”

Guardò Bobby, e poi me, con un’espressione insieme sdegnosa e implorante. Era una quarantenne incinta e innamorata contemporaneamente di due uomini. Penso che ciò che non poteva sopportare fosse l’assurdità della sua vita. Come molti di noi, era cresciuta aspettandosi che l’amore le conferisse dignità e una direzione.

“Fatti coraggio,” le dissi. Bobby e io le stavamo davanti, confusi e smarriti e privi di un piano, tormentati da un amore che non accettava di focalizzarsi in modo convenzionale. Il traffico rombava alle nostre spalle. Un camion suonò il suo clacson idraulico con un fragore mostruoso, oceanico. Clare scosse il capo, per esprimere non un rifiuto ma la propria esasperazione. E poiché non le venne in mente altro, ricominciò a camminare, più lentamente, verso il filare di alberi.