Clare

Desideravo avere un bambino da quando avevo dodici anni. Ma cominciai a pensarci seriamente solo quando ero ormai vicina ai quaranta. Jonathan e io avevamo scherzato sull’idea di diventare genitori – era il nostro modo di flirtare. Era così, con questo atteggiamento un po’ particolare, che scaricavamo quelle tensioni emotive che altrimenti si sarebbero forse accumulate. È strano che due persone s’innamorino senza la possibilità di far sesso. Capitava di progettare viaggi, o parlare di denaro, insomma si prendevano iniziative e, addirittura, si discuteva sui colori da dare a una casa o sul nome per un bambino – che non avremmo mai avuto.

Ultimamente, però, non ero più sicura di questa realtà. Avrei avuto i miei soldi, oltre mezzo milione, fra poco più di un anno, ma quando ne hai trentotto non puoi illuderti che la tua vita stia appena cominciando. La speranza si carica di fragilità. Basta un’intensità troppo forte perché scompaia. Mi sorprendeva il vuoto che sentivo in me, il dondolare del ventre e del cuore appesi a una corda. Ero sempre stata così presente nei singoli momenti. Avevo creduto che fosse sufficiente assaporare il caffè e il vino, sentire il sesso in ogni nervo, vedere tutti i film. E che il problema della mia realizzazione sarebbe stato poca cosa di fronte alla capacità di assaporare ogni attimo.

Fra poco l’elenco delle cose per le quali ero troppo vecchia si sarebbe arricchito di un altro punto: essere innamorata di un gay. Non solo, farsi pure mettere incinta per compensare la mancanza di quei rapporti che non hai saputo stabilire. Non potevo seguire impassibile quel cammino. Tuttavia mi rodevo. Jonathan aveva un lavoro e un amante che non avevo mai visto, con tutte le potenzialità di un uomo di ventisette anni. Con il seno che s’afflosciava sempre di più sulla cassa toracica, io volevo ormai qualcosa di permanente. Un bambino, con cui comportarmi meglio di come avevano fatto i miei genitori. Voglio dire, il mio denaro, la mia salute e la mia buona sorte dovevano essere impiegate meglio. Necessariamente.

Una sera Bobby uscì dal bagno in mutande, cantando Wild Horses. Io stavo andando in camera mia quando in corridoio ci sfiorammo. Sorrise. Aveva un corpo morbido e massiccio, muscoli che lottavano col grasso incipiente. Mia madre lo avrebbe definito con approvazione “un tipo ben piantato”. Il matrimonio con mio padre l’aveva guarita dal suo interesse per gli uomini snelli e ambigui. Bobby era un tipico prodotto del Middle West: forte, solido e tranquillo. Gli dissi: “Ehi, meraviglia.”

Arrossì. Nei tardi anni Ottanta c’era ancora un uomo che, vivendo a New York, poteva arrossire per un complimento. Disse: “Uhm, sarò pronto fra un momento.”

Dovevamo andare da qualche parte, non ricordo dove. Dissi: “Mettici tutto il tempo che vuoi. Tanto prima di mezzanotte non ci sarà nessuno.”

“Okay.” Entrò nella camera che divideva con Jonathan. Io rimasi ferma un momento, poi andai in bagno e sfregai lo specchio appannato dal vapore liberandone un cerchio. Lì c’era la mia faccia. Né bella né brutta. Ero sempre stata una strana combinazione di mia madre e mio padre.

Sorprendentemente mia madre stava migliorando sul piano estetico, proprio a un’età in cui le donne sono considerate più “di bell’aspetto” che “belle”: un po’ mascolina, larga di viso, con pelle rosea e capelli che andavano dal castano al grigio piombo. La sua faccia inespressiva non si era raggrinzita, e i suoi modi bruschi ed efficienti sembravano più attraenti oggi, quando invece le donne della sua età cominciavano ad andare in giro con troppo fard e rigide increspature. Era finalmente diventata se stessa. A sessant’anni aveva trovato quella bellezza che da ragazza non aveva mai avuto. Mio padre invece era avvizzito come una prugna. Gli si erano sgonfiate le guance fino a toccare l’osso. I suoi ispidi capelli nero notte si erano dissolti e la pelle gli pendeva sul collo floscia e coriacea. Da ragazza, mi ero guardata speranzosa allo specchio cercandovi tracce della faccia di mio padre ricostruita nella mia. Adesso cercavo i segni del suo deterioramento, e li trovavo. Il mio collo si era un po’ allentato. La pelle intorno agli occhi stava diventando più scura. I geni erano al lavoro.

Mamma, non avevi nessun bisogno di essere gelosa dell’amore di papà per me. Alla fine sei tu che vinci. Sei un avvocato di bell’aspetto senza i tormenti della concupiscenza. Papà e io stiamo appassendo e non sappiamo che fare di noi stessi.

Mi passai le dita fra i capelli. Poi mi avvicinai alla camera di Bobby e Jonathan, fermandomi sulla soglia. Bobby si era chinato su un cassetto del comò per cercare un paio di calzini. Il suo culo era un po’ più grosso dell’ideale, ma ben fatto. Se la parola “rubensiano” si potesse applicare agli uomini, sarebbe stata perfetta per Bobby. La sua carne era abbondante ma proporzionata, come floride divinità, immortalate da antichi quadri, che saltellano per i boschi. C’era qualcosa di virginale nella sua riservatezza, benché non avesse assolutamente nulla di femmineo. Avrebbe potuto essere un cervo. Un’armoniosa creatura con zoccoli minuscoli, timida ma non delicata.

Dissi: “Perché stasera non ti metti la camicia nera di gabardine?”

Sussultò al suono della mia voce. In realtà, ero io a provare sempre un brivido di eccitazione nel sorprenderlo, come se qualcuno aprisse una lampo nel mio stomaco. Io ero un cacciatore e lui un solido cervo privo di malizie.

“Uhm, okay,” disse.

Andai all’armadio e tirai fuori la camicia: “È una delle mie preferite. Dovremmo trovartene un’altra come questa.”

“Uh-huh.”

Alzai la camicia sul suo torso nudo. “Bella,” dissi.

Arrossì di nuovo. Non era un buon segno. Nella stanza non entrava nulla di sessuale. Ero troppo materna nel mio interesse per il suo aspetto. Non avevamo elaborato un sottotesto.

C’erano cose che non si potevano forzare. Questo almeno, dopo tanto tempo, l’avevo capito.

“Prima magari andiamo a bere qualcosa,” proposi. “Non vorremo arrivare troppo presto.” Stesi la camicia sul futon di Jonathan. Era nera e frusciante a contatto con la trapunta bianca, l’istantanea di una bellezza maschile asessuata. Andai in camera mia per rifarmi il trucco in vista di un’ennesima serata in città.

Passò un mese. Quell’anno l’inverno venne presto. Una settimana prima del Giorno del Ringraziamento, fiocchi di neve grossi come monete da dieci cent scesero inaspettatamente dal cielo e presero a turbinare intorno ai lampioni. I negozianti del nostro isolato spazzavano via la neve dai loro marciapiedi come se stessero scontando i propri errori giovanili. Quando Bobby tornò a casa dal lavoro, ero seduta sul divano del soggiorno a farmi le unghie dei piedi e a bere un bicchiere di vino.

“Ehi,” mi fece, spazzolandosi via la neve dalle maniche del cappotto.

Annuii. Non avevo voglia di conversare. Era tornato l’inverno, prima di quando lo aspettassi.

“È incredibile,” continuò. “Voglio dire, uno non s’immagina che a New York possa davvero esserci tutto questo maltempo. Lo sai?”

“È soggetta alle forze della natura,” dissi. “Come ogni altro luogo.”

Avrei voluto strangolarlo per il suo entusiasmo giovanile. Quella sera ero una compagnia adatta solo per distinte signore mature che fumano in continuazione o per preti spretati.

“È proprio bello. C’è un tale silenzio lì fuori. Hai voglia di fare una passeggiata?”

Gli buttai uno sguardo che speravo riassumesse le mie opinioni sullo sgambettare nella neve. Ma lui si era ormai lanciato; inarrestabile. La neve lo aveva eccitato. Venne a sedersi accanto a me sul divano.

“Attento allo smalto,” dissi.

“Mi piace quel colore.”

“Verde bile. È come sono io in questa stagione.”

“Vuoi che andiamo al cinema più tardi?”

“No. Stasera ho intenzione di sbronzarmi e di sguazzare nell’autocommiserazione.”

“Stai bene?”

“Non lo so. Non farmi domande del genere in questo momento, a meno che tu non voglia davvero sentire le risposte.”

“È così,” disse lui. “Le voglio sentire.”

“Lascia perdere. È solo l’inverno. Non lo prendo bene. Tornerò a essere la solita burlona fra sei mesi.”

“Povera Clare,” disse. Soffocai l’impulso di passargli lo smalto sulla faccia.

“È questo inverno del cazzo che arriva un mese prima del tempo, e poi il mio ex viene in città fra un paio di settimane. Troppo per un solo mese.”

“Vuoi dire il tuo ex marito?”

“Già. La sua compagnia è di nuovo in tournée, verranno alla Brooklyn Academy.”

“Lo vedrai?”

“È probabile che mi telefoni. Lo fa sempre quando viene a New York. È convinto che non ci siamo fatti del male abbastanza quando eravamo sposati.”

“Non parli mai di lui. Certe volte dimentico che sei stata sposata.”

“Sto cercando di dimenticarlo anch’io.”

“Uhm, dove l’hai conosciuto?”

“Vuoi ridere? A Woodstock. Sì, al concerto. Sette anni di tormenti nati da un week-end di pace e d’amore.”

“Tu eri a Woodstock?”

“Mm-hm. Mi ero ritirata da quattro college diversi e mi ero messa con un gruppo di persone che battevano il New England per comprare vestiti vecchi da vendere a New York. Sentimmo parlare di un concerto gratuito a poca distanza, mentre eravamo a perlustrare solai in cerca di camicie hawaiane. Non è una cosa che racconto a tutti.”

“C’eri veramente? Andasti al concerto?”

“Mi fa sembrare una specie di rudere, eh? È come essere stata in circolazione prima che ci fossero le automobili.”

“Com’era?”

“Fangoso,” dissi. “Non si era mai visto tanto fango. Mi sentivo come un maiale. Fui attratta da Denny perché era arrivato giù allo stagno con una grossa saponetta Lifebuoy in mano. Ci lavammo insieme, poi lui mi chiese: ‘Ti andrebbe se ce ne andassimo da qui e ci facessimo un hamburger in città?’ E io dissi: ‘Sì, assolutamente.’ Mi ero stufata di quelli dei vestiti usati. Il fatto è che si spacciavano per mistici, ma davano alle vedove cinque dollari per vecchi stracci e pellicce che rivendevano a duecento in città.”

“Tu eri lì,” dissi con un tono di sommesso sbalordimento. “Tu ci andasti!”

“E da allora la mia vita è stata una delusione dopo l’altra. Bobby, ne hanno fatto una specie di leggenda. Era solo un concerto. Era sporco e affollato. Me ne andai prima della metà, e tre mesi dopo sposai un perfetto stronzo.”

Finii di stendere lo smalto verde sull’alluce. Poi posai lo sguardo su Bobby e vidi il cambiamento. I suoi occhi erano brillanti e un po’ umidi. Sedeva allungando il collo con avidità e mi guardava.

Pensai di aver riconosciuto quell’espressione. Era così che gli uomini a volte mi guardavano quando ero più giovane; quando ero carina ed esotica anziché soltanto pittoresca. C’era un puro, esplicito desiderio proprio lì, sulla faccia di un uomo non ancora trentenne.

Quella notte non andammo a letto insieme. Ci volle un’altra settimana. Ma da quella notte la possibilità di far sesso s’incuneò in un rapporto che era stato soltanto cordiale e affettuoso. Eravamo stati amici e adesso eravamo qualche altra cosa. Sicuramente un po’ tesi, e sempre più intimiditi l’uno dall’altra. Quando esaurivamo le cose da dire, il silenzio, per la prima volta, ci imbarazzava.

Lui tuttavia non avrebbe mai preso l’iniziativa. Era troppo incerto. Troppo abituato al nostro schema di sorella-che-ammaestra-il-fratello-minore. Non avevo mai conosciuto nessuno così poco segnato dal mondo. Forse erano così gli uomini del Medio Evo: rispettosi in una maniera complicata, terrorizzati dall’idea di toccare la manica di una donna. Se doveva succedere, bisognava che fossi io a muovermi.

Lo feci un martedì sera. Non avevo regolato la cosa sul mio ciclo. Non ero così calcolatrice. Mi piaceva troppo Bobby. Era più facile agire partendo dall’attrazione che provavo per lui, al di là dei suoi geni. Questo, pensavo, poteva venire dopo.

Eravamo stati a vedere Providence al St. Marks, e mancò poco che cambiassi idea sull’intera impresa. Bobby aveva parlato durante il film. Mi aveva chiesto se l’uomo-lupo era reale. Aveva voluto sapere se Elaine Stritch era la madre di Dirk Bogarde o la sua ragazza.

Avevo risposto alle sue domande, pensando: Oh, Jonathan, perché non sei eterosessuale?

Ma una volta fuori, tornando a casa a piedi, ritrovai il mio interesse. Bobby era per metà un bambino, un innocente. Non lo si poteva incolpare di quel che non aveva. A New York non mancavano certo persone con cui andare al cinema. Semmai, altre qualità erano più difficili da trovare.

Appena arrivati a casa, misi su una vecchia cassetta degli Stones. Accesi uno spinello e chiesi a Bobby se aveva voglia di ballare. Quella sera Jonathan era fuori col suo ragazzo.

“Ballare?” disse Bobby. Gli passai lo spinello. Tirò una boccata stando al centro del soggiorno, in jeans, T-shirt e una cintura nera con una fibbia a forma di testa di manzo. Era una seduzione difficile da compiere senza sentirsi, almeno per un momento, una baldracca indurita con gli occhi bistrati, che fa suonare un disco cigolante per convincere un ragazzo di campagna a togliersi la tuta.

“Bobby. Sto per farti una domanda diretta. Hai qualcosa in contrario?”

“No. Nulla.” Mi restituì lo spinello.

“Rispondimi francamente. Cosa ti piace di me?”

“Eh?”

“Non farmi ripetere la domanda. È troppo imbarazzante.”

“Cosa mi piace di te?”

“Sei, come dire, interessato a me?”

“Uhm, certo. Certo che lo sono.” Gli restituii lo spinello e lui fece un tiro lungo e profondo.

“Bobby, sei mai andato a letto con una donna?”

“Oh. Be’, no. In effetti non è mai successo.”

“Pensi che potrebbe piacerti?”

Non parlò. Non si mosse. Gli Stones cantavano Ruby Tuesday. Gli dissi: “Vieni qui. Metti giù quella marijuana e balla un po’ con me, d’accordo?”

Obbediente, fece ancora un tiro e posò lo spinello nel portacenere. Gli aprii le braccia. Si avvicinò. Cercai di non sentirmi come un ragno: una vecchia creatura vorace che sceglie come preda la carne riluttante di giovani un po’ tonti. Glissai su questa sensazione come meglio potevo.

Ci dondolammo, girando un po’ su noi stessi. Per fortuna, era un bravo ballerino, né goffo né incerto; il suo corpo non si rivolgeva al mio perché gli mostrassi il ritmo o il prossimo movimento. Ballando, un po’ fatti, l’uno fra le braccia dell’altra, non eravamo né rilassati né eccitati. Potevamo essere fratello e sorella che si esercitano in vista di future avventure amorose, ma anche reciprocamente attratti, e al tempo stesso pieni di sensi di colpa e un po’ rattristati dall’irreparabilità di questo contatto, normale ma intenso e sottilmente pericoloso. Fratello e sorella che si stanno esercitando.

Lui odorava di pulito, di legno, come i trucioli di una matita nuova. La schiena era solida come quella di un cantante d’opera. Disse: “Quando sei andata al concerto, ci sei rimasta abbastanza per vedere Hendrix?”

“Eh?”

“A Woodstock. Hai visto Jimi Hendrix?”

“Certo che ho visto Jimi. Saremmo diventati ottimi amici. Ma adesso vieni con me. Ti dico fin d’ora che non c’è un modo facile e raffinato per farlo.”

Smisi di ballare e lo condussi in camera mia. Lui non partecipava ma neppure resisteva. Lasciai la luce spenta. Chiusi la porta e dissi: “Sei nervoso?”

“Uh-huh.”

“Non esserlo. È solo per divertirci. È perché mi piaci. Non hai nessun motivo.”

Gli sbottonai la camicia e lo aiutai a farsela scivolare dalle spalle, che apparivano umide e irte di peli.

“Non sono in grandi condizioni,” si giustificò, sebbene io lo avessi visto cento volte a petto nudo.

“Penso che tu sia bello,” dissi. Mi tolsi la camicetta e la lasciai cadere sul pavimento. Non portavo mai il reggiseno. Posai la sua mano sul mio seno sinistro.

“Sono sotto la media, se devo dirti la verità. Se vorrai, potrai andare con altre donne che hanno molta più roba.”

“Io non penso ad altre donne.”

“Sei fantastico, lo sai?”

“Che c’è?”

“Niente. Proprio niente. Su adesso, spogliamoci. La vecchia Clare t’insegnerà qualche trucco.”

Ci togliemmo in fretta il resto degli indumenti, come se i veri inquilini potessero tornare da un momento all’altro e scoprire che ci servivamo del loro appartamento. Una volta nudi, lo presi di nuovo fra le braccia e lo baciai, più con sollecitudine che con passione. Il suo alito era caldo e un po’ forte, ma non fetido. L’alito di un carnivoro.

“Non aver paura. È la cosa più naturale del mondo. Potrebbe persino piacerti.”

“Mi piace. Credo che mi piaccia.”

Lo guidai fino al letto e lo feci sdraiare. Non ero mai stata così padrona della situazione. E se questa era la dimostrazione del processo d’invecchiamento, non mi dispiaceva. C’era qualcosa di gradevolmente spaventoso nel gestire una scopata.

Bobby giaceva nudo di traverso al mio letto. Il suo cazzo stava delicatamente appoggiato sulla coscia – un cazzo violaceo, circonciso, grosso ma non enorme. Aveva un piccolo groviglio di peli pubici sorprendentemente radi. Udivo il rumore del suo respiro.

“È tutto okay, tesoro,” dissi. “Devi solo rilassarti. Penserò a tutto io.”

M’inginocchiai accanto a lui sul materasso e gli massaggiai petto e ventre. Alzò gli occhi quasi impaurito. “Sss... Non fare niente, non pensare a niente. La tua sorellona se la caverà benissimo, devi solo chiudere gli occhi.”

Obbedì. Mi chinai per passargli la lingua sui capezzoli. Non avevo mai fatto niente di simile. Era così grosso, così inerte. La mia carriera sessuale aveva generalmente coinvolto energici individui che mi volevano, dandomi la caccia con oscuri imperativi tutti loro. Feci quanto potevo per fingere la serena competenza di una donna più matura. Con tutta la sottigliezza di cui ero capace controllai il suo cazzo per cercarvi segnali d’eccitazione.

“Clare,” disse lui. “Clare, non so se...”

“Sss. Zitto. Te lo dirò io quando sarà il momento di parlare.”

Scesi baciando il suo stomaco, presi in mano il suo cazzo floscio. Era come un giocattolo di gomma. Dovevo stare attenta alla sua sensibilità. Me lo misi in bocca e me lo lavorai lentamente, leccandolo sotto con la lingua. Ci misi tutto il tempo necessario. Titillai e accarezzai con la punta delle dita, feci scorrere la lingua sullo scroto, mordicchiai delicatamente le cosce. Mi costrinsi a non aver fretta. Altri uomini avevano dei desideri, dei modi in cui volevano che si facessero le cose. Helene mi aveva insegnato tutte le mosse. Nessuno si era mai abbandonato in questo modo alla mia iniziativa. Tenevo in bocca il suo cazzo, pensando a me stessa come a una puttana in un film. Una puttana abile e trionfante che riesce sempre a cavarsela benone. Gli tirai i peli pubici con i denti, gli leccai la punta violetta del cazzo. Che finalmente cominciò a irrigidirsi.

Allora mi diedi da fare con più energia. Lo ripresi in bocca e lo lavorai su e giù, su e giù, finché non cominciò a dolermi il collo. Passai le mani sulla sua gabbia toracica e gli pizzicai leggermente i capezzoli. Il suo respiro era sempre più rapido. Lo udii gemere sommessamente, un piccolo grido nervoso come di una colomba. Ero anch’io eccitata. Non intensamente, ma con la stuzzicante aspettativa che avevo da ragazza, nel pensare a quei grossi corpi possenti che volevano imporsi e controllare ogni gesto.

Quando pensai che fosse pronto, mi tirai su mettendomi a cavalcioni. L’espressione del suo volto mi sorprese. Era arrossato e spaventato, non compiaciuto come mi aspettavo. Tuttavia gli sorrisi rassicurante. Sapevo che non era il momento di perdere lo slancio. Dissi: “Pronto?” e senza aspettare una risposta, presi posizione e mi feci scivolare dentro il suo cazzo.

C’era però qualcosa che non andava. La sua faccia era così messa a nudo, così terrorizzata. Ma io continuai. Non era più tempo di tirarsi indietro. Mi alzavo e mi abbassavo, mi alzavo e mi abbassavo. Gli sussurrai: “Tesoro, te la stai cavando bene. Oh, sì. Te la cavi magnificamente.” Non era esattamente ciò che avrei voluto dire. Ma accadde così. Gli accarezzai il petto. La sua faccia luccicava di sudore. Allungai una mano e scostai una ciocca di capelli che gli si era incollata alla fronte.

E improvvisamente, inaspettatamente, venne. Sentii lo spasmo. Venne con un gemito di sofferenza assoluta. Come se lo avessero pugnalato al ventre. Un suono orribile, inconsolabile. Dimenticai ciò che avrei dovuto fare e mi acquattai con le ginocchia premute contro la sua gabbia toracica, aspettando che il gemito cessasse. Ci fu un momento di silenzio, denso e pieno di echi. Poi si mise a piangere, apertamente, come un bambino che non riesce a smettere.

Allungai di nuovo una mano per toccargli il viso. Il suo cazzo era ancora dentro di me. Sapevo che ci eravamo perduti l’uno nell’altra in modo permanente, irrimediabile. Ma lui era un mistero. Mi sdraiai accanto al suo corpo, e gli dissi che era tutto a posto. Che era andato tutto benissimo. Mi accarezzò i capelli con gesti pesanti, a mano aperta. Disse: “Mai. Mai pensavo che ce l’avrei fatta.”

“E invece sì,” bisbigliai.

Premette il petto contro il mio. Sentii il calore delle sue lacrime. Non disse altro. Si addormentò nel mio letto e io lo lasciai star lì, anche se personalmente non riuscii a prender sonno. Per un po’ stetti ferma accanto a lui, respirando al ritmo del suo corpo grosso e sudato e chiedendomi cosa esattamente avrei fatto ora.