Clare
Non me lo sarei mai aspettato, un amore così vorace che non ha niente di personale. Un amore che ti spiazza, ti butta all’aria. Sapevo che se avessi attraversato la strada con la bambina e una macchina fosse arrivata stridendo dall’angolo, strombazzando col clacson, l’avrei protetta col mio corpo. L’avrei fatto automaticamente, come ci si protegge la testa o il cuore alzando le braccia. Difendi le tue parti vitali con quelle più solide, più sacrificabili. In questo senso, la maternità funzionava come promesso. Scoprii però che l’amavo senza un vero spirito di carità o di benevolenza. Era un amore ululante, sfolgorante; qualcosa di spaventoso. L’avrei protetta da un’auto in corsa, ma nel farlo avrei imprecato contro di lei, come un prigioniero impreca contro il carnefice.
La bocca di mia figlia si sforzava di formare la parola “mamma”. Faceva i capricci ogni volta che la lasciavo. Un giorno avrebbe investito un capitale in terapisti perché l’aiutassero a risolvere il mistero della mia personalità. Materiale ne avrebbe avuto in abbondanza – una madre che viveva con due uomini, innamorata di entrambi in qualche maniera complicata. Una donna indecisa e disorganizzata che rifuggiva da qualsiasi sistemazione convenzionale. Che si era trascinata dietro la propria infanzia fin oltre i quaranta anni. Ero stata una persona riservata e trasandata che badava ai fatti propri e stavo ora diventando l’enigma centrale nella vita di un’altra.
Essere una madre era una cosa impegnativa, sconvolgente. Essere un’amante – sia pure un’amante non ortodossa – era in confronto insipido e banale.
Forse era questo il segreto che mia madre aveva scoperto. Aveva creduto che il mio turbolento e indisciplinato padre sarebbe stato l’avventura della sua vita. Poi aveva partorito.
Noi tre praticavamo una variante della sistemazione classica. Bobby e Jonathan andavano al ristorante ogni mattina prima dell’alba. Io stavo a casa con Rebecca. Non volevo un lavoro. Prima o poi avrei ricominciato a far gioielli, o cosette del genere. Il ristorante era un’iniziativa dei ragazzi, un modo per mantenersi e cominciare a rimborsarmi. Erano buoni lavoratori, non si lamentavano. O meglio, Bobby era un buon lavoratore che non si lamentava, e Jonathan seguiva più o meno il suo esempio. Uscivano di casa ogni mattina alle cinque, quando il buio cominciava a schiarirsi, e non tornavano prima delle quattro o delle cinque del pomeriggio, quando stava già penetrando negli angoli della casa. Per esser sincera, non sapevo molto del loro lavoro. Bobby cucinava, Jonathan faceva il cameriere, e un caro ragazzo un po’ stupido trovato sul posto sparecchiava e lavava i piatti. Sebbene ascoltassi i loro racconti – clienti furiosi, apparecchiature della cucina che saltavano in aria o prendevano fuoco nell’ora di punta, furti assolutamente improbabili (qualcuno aveva rubato il salmone impagliato staccandolo dalla parete, qualcun altro si era portato via il sedile della toilette per le signore) – sembrava che si svolgessero nel regno lontano e un po’ vago delle favole. Ero solidale coi ragazzi. Ma per me la loro unica caratteristica saliente erano quelle undici o dodici ore d’assenza quotidiana. La vita reale, il suo cuore e il suo perno era ciò che succedeva quando non c’erano.
Per anni, era come se avessi camminato con cautela sopra un pozzo sotterraneo di noia e di disperazione che stava appena al disotto del sottile strato esterno della mia immaginazione. Se fossi rimasta ferma troppo a lungo, se avessi ceduto al sonno, sarei sprofondata. Perciò avevo fatto cose, frequentato night e cinematografi. Avevo continuato a cambiare pettinatura.
Adesso, con Rebecca cui badare, ogni momento aveva una sua elettrizzante gravità, che non era sempre gradevole ma arrivava direttamente al cuore. A volte mi annoiavo – i bambini non sono sempre interessanti – ma sempre, dopo un minuto o un’ora, lei aveva bisogno di qualcosa che io sola potevo darle. Sembrava che inventasse ogni giorno un nuovo gesto o una nuova reazione che l’avvicinava un po’ di più alla sua personalità futura. Di ora in ora, continuava a trasformarsi più pienamente in qualcuno. Le ore erano cucite insieme, e non c’era nulla di molle o di irrimediabile che minacciasse di disfare la giornata. Facevo il bagno a Rebecca, la nutrivo, raccoglievo la sua merda. Giocavo con lei. Le mostravo ciò che potevo del mondo.
Ma sì, preferivo quando i ragazzi non c’erano. Una volta tornati a casa, quel senso di emergenza perenne andava perso. Stanchi com’erano, mi dicevano di rilassarmi mentre loro s’occupavano di Rebecca. Erano ottimi padri, responsabili. Sapevo che avrei dovuto esser loro grata. Ma non avevo voglia di rilassarmi. Volevo essere tesa e assillata. Volevo dovermi occupare freneticamente di Rebecca in ogni momento di veglia, e piombare poi in un sonno nero e informe come il futuro non vissuto.
Bobby amava nostra figlia, ma non era tormentato dalla sua vulnerabile e rumorosa esistenza. In un mondo con più spazio, sarebbe potuto essere un colono con il sogno di reinventare la società su un pezzo di terra lontano dal luogo dei suoi errori passati. Aveva questa sorta di religiosità. Aveva un cuore tenero e molto sensibile. Il suo interesse per la carne non era profondo. A volte, quando teneva in braccio Rebecca, sapevo come la vedeva – come una cittadina del suo mondo futuro. La rispettava perché aumentava la popolazione locale, ma non si tormentava sui particolari del suo avvenire. Ai suoi occhi, lei era parte di un movimento.
Bobby e io dormivamo insieme in un nuovo letto a due piazze. La camera di Rebecca era la prima sul corridoio ed era seguita dal bagno e dalla camera di Jonathan. Le giornate di Bobby non conoscevano riposo. Sbatteva uova e infornava torte e litigava con i fornitori. Poi veniva a casa a prendersi cura dei pianti e dei pannolini sporchi di Rebecca. Di notte dormiva il giusto sonno dell’uomo esausto e spossato – una disperata perdita di conoscenza. Gli ero grata del suo declinante interesse per il sesso, non solo perché ero stanca anch’io ma perché, allattando Rebecca, i miei capezzoli erano diventati marrone. Tre punti gialli erano stati cuciti dalla mia costola più bassa all’inguine. Avevo quarantun anni. Non potevo più sentirmi carina. Se Bobby fosse stato più ardente o più eccitabile, se mi avesse spudoratamente confessato che ora gli ripugnavo, avrei avuto qualcosa su cui lavorare. Avrei potuto sviluppare un nuovo tipo di orgoglio provocatorio. Ma lui era Bobby, un uomo caritatevole, un gran lavoratore. Dormivamo insieme pacificamente.
Invece Jonathan generava più scariche elettriche nel corso delle sue giornate. Se Bobby si muoveva con la metodica ostinazione, un po’ bovina, di un aspirapolvere, risucchiando ogni compito e ogni commissione, Jonathan faceva baccano come un frullino. Era agitato e paonazzo, con gli occhi sfuggenti per mancanza di sonno. Entrambi mi avevano raccontato che, come cameriere, aveva più fascino che competenza. Dimenticava di riempire d’acqua i bicchieri. Serviva al tegamino un ordine di uova strapazzate. Diceva che nell’ora di punta c’erano momenti in cui sembrava che s’addormentasse mentre camminava. Un momento stava riempiendo una tazza di crema, e un attimo dopo era lì in piedi davanti a un tavolo a prendere un’ordinazione senza ricordare ciò che era accaduto nell’intervallo. Ben presto dovettero assumere una cameriera e Jonathan divenne il direttore di sala e il fattorino di riserva. “Farò in modo che tutti siano soddisfatti,” disse. “Verserò loro dell’altro caffè e li interrogherò sulle città dove sono nati. E assumeremo uno specialista per fare in modo che ottengano quello che hanno effettivamente ordinato.”
La sua vera vocazione era la bambina. Ogni sera dopo il lavoro le portava qualcosa: una bambola di plastica comprata nel grande magazzino, una rosa sottratta a qualche giardino, un paio di minuscoli occhiali da sole bianchi. Le faceva fare lunghe passeggiate prima di cena e le leggeva qualcosa dopo.
Verso le quattro di notte, la svegliava, le cambiava i pannolini e la portava nel letto mio e di Bobby. Era comicamente paterno vederlo lì in mutande, con in braccio la nostra bimba assonnata. “So che rasenta il maltrattamento infantile tirarla su in questo modo,” diceva, “ma abbiamo bisogno di vederla prima di andare a fare il pane.” E s’infilava a letto accanto a me, tenendo Rebecca in grembo. Certe mattine lei gemeva addormentata con la lampada accesa. Certe altre rideva e bofonchiava parole incomprensibili. “Signorina Rebecca,” le diceva Jonathan. “Sei una bellissima cosa, lo sai? Mm-hm. Sissignore. Guarda queste mani. Diventerai una tennista, eh? O una violinista o una mosca umana.” Usciva dalla sua bocca un fiume di parole, un flusso ininterrotto. A volte, quando lei piangeva, era il solo che riuscisse a confortarla. Rebecca gemeva fra le mie braccia e si dimenava e strillava fra quelle di Bobby. Ma, appena la prendeva Jonathan, si calmava. Lo fissava con occhi avidi e insieme sorprendentemente duri. Si aggrappava a lui perché era sfuggente e perché, nelle ore che passava a casa, le riservava le attenzioni più elaborate e più cerimoniose. Credo che, già a quell’età, si stesse innamorando.
L’amore fra Rebecca e me era di tipo più nervoso. Quando i ragazzi erano via, vivevamo insieme in uno stato di bisogno costante. Lei voleva la mia protezione, ma nello stesso tempo la rifiutava con crescente veemenza. Io temevo per la sua incolumità, era un’emozione viscerale, in ogni momento. Dovevo sempre sapere che stava bene. E questo comportava un costo per entrambe. Certe volte quando eravamo insieme, e io controllavo la temperatura del suo bagno o le tiravo via una matita dalla bocca, mi pareva quasi di sentire una domanda che crepitava nell’aria intorno a noi – e se non riuscissi a proteggerla? Insieme potevamo diventare nervose. Io potevo essere irascibile e autoritaria; potevo rifiutarle troppe cose. Lei dipendeva dalle mie paure. Piangeva se la guardavo con troppa attenzione e piangeva se si rendeva conto che per un attimo avevo dimenticato di guardarla.
Cominciavo a capire un po’ meglio mia madre. Dopo la mia nascita aveva fatto una scelta. Non c’era spazio nella casa o nella sua natura parsimoniosa per due bambini difficili. Era stata costretta a scegliere. Forse la battaglia era cominciata così. Mio padre aveva dovuto battersi per avere la sua parte. Si era servito delle sue armi migliori, il sesso e l’impulsività, ma alla fine aveva vinto mia madre con la sua rettitudine e le sue capacità organizzative. Io avevo amato di più mio padre. Mi chiamava Peg o Rossella O’Hara, diceva che era giusto comprare tutto quello che volevamo. Ma verso la fine, quando cadde bestemmiando sul prato davanti a casa e, ubriaco, si mise a spaccare mobili, lo avevo già rifiutato. Alla lunga un bambino preferisce l’ordine al fascino e alla passione.
Da adulta mi ero innamorata dell’intelligenza e del senso dell’umorismo di Jonathan e, suppongo, della sua inoffensività. Non era né freddo né pericoloso. Né uomo né donna. Non c’era il rischio di un fallimento dovuto al sesso. E ora vedevo che anche Rebecca, un giorno, si sarebbe innamorata di lui. Aveva un fascino paterno. Aveva il calore di una madre senza la sua implicita minaccia – lei non sarebbe morta se per un momento Jonathan l’avesse persa di vista. Lavorava tutto il giorno e veniva poi a casa con in mano un regalino, tutto rosso per l’eccitazione di rivederla dopo tante ore di separazione. Bobby era teneramente distaccato e io troppo insistente. Jonathan esercitava un fascino permanente reso perfetto dalla sua assenza di ogni giorno. Rebecca sarebbe stata sua. Voleva bene a me e a Bobby, ma apparteneva a Jonathan.
C’erano periodi – momenti – in cui credevo di aver trovato la mia ricompensa. Avevo l’amore e un posto sulla terra. Facevo parte di qualcosa di dolce e di protetto. Di una famiglia. Era ciò che avevo pensato di volere. La mia famiglia era stata un frastuono di gelosia e rabbia. Non uno dei regali di nozze dei miei genitori era sopravvissuto. Avevamo divorato il passato. Ora non c’era più niente da ereditare se non le migliorie fatte da mia madre, gli infissi dorati e le stampe floreali, dopo che mio padre se n’era andato per smettere di bere, trovare Cristo e riprendere poi a bere.
Ma in altri momenti mi mancava la violenta ostinazione della mia famiglia. Eravamo persone difficili, note in tutto il quartiere: la Povera Amelia Stuckart e Quell’Uomo che ha sposato. Io ero diventata famosa nel vicinato come la loro Povera Ragazzina. Avevo basato le mie prime invenzioni di me stessa sui concetti di deprivazione e orgoglio. Mi ero messa le gonne più corte, e la mia pettinatura era una fragile tempesta. Avevo scopato il mio primo macilento contrabbassista a quattordici anni, nel retro di un furgone. Le forze dell’ordine locali mi facilitavano le cose avendo un aspetto orribile, e spruzzandosi Aqua Velva sulle guance. Mentre dicevano: “Entra anche tu nel nostro mondo”, io mi presi come ragazzo uno spacciatore. Mi vedevo rimpicciolire agli occhi dei consiglieri e dei pastori – “Forse, signora Rolins, questa ragazza non siamo proprio in grado di aiutarla.” Andavo a scuola con una pinta di tequila nella borsa. Sfrecciavo nelle notti ghiacciate di Rhode Island scaldandomi con la velocità. Mi lasciavo dietro una scia di vapore. Le persone che sono state oggetto di cure affettuose non possono immaginare quanta libertà ci sia nell’essere cattive.
E adesso, in età matura, mi avevano salvata. I ragazzi venivano direttamente a casa tutte le sere, si occupavano di Rebecca, cucinavano la nostra cena. Il loro amore non era impeccabile. Forse si amavano fra loro più di quanto amassero me. Forse mi stavano usando senza rendersene ben conto. Potevo accettarlo. Non mi infastidiva toccare il ruvido fondo delle buone intenzioni altrui. Quello che a volte mi dava problemi era il semplice cameratismo dei nostri rapporti. Vivevamo in un mondo di gentilezza e di ordine domestico. A volte mi vedevo come Biancaneve fra i sette nani. I nani si prendevano cura di lei. Ma quanto tempo avrebbe resistito senza la speranza d’incontrare qualcuno di grandezza naturale? Per quanto tempo avrebbe spazzato e rammendato prima di cominciare a capire che la sua vita era composta certo di un porto sicuro, ma a prezzo di sottili quanto penetranti mancanze?