Alice

Quando feci venire Jonathan in Arizona, non accennai al pacco che tenevo da parte per lui. Non era uno di quei doni di cui si parla per telefono. Mi limitai a esercitare le mie prerogative materne chiedendogli una visita. Di solito non gli davo molti problemi e per questo lui aveva sempre sofferto di un esagerato senso di colpa. Avrebbe voluto, sospetto, che lo importunassi maggiormente. Una madre assillata e assillante gli avrebbe dato, penso, un certo sollievo. Data la sua natura, non poté far altro che obbedire quando lo chiamai per dirgli che volevo vederlo. “Il deserto è bellissimo in questa stagione. Ti prego, vieni per qualche giorno.” E lui venne.

Andai a prenderlo all’aeroporto di Phoenix. Vivere in campagna non l’aveva cambiato molto. Da quando, più di dieci anni prima, era partito per il college e io mi ero man mano abituata a passare mesi senza vederlo, avevo imparato a essere più obiettiva. Da ragazzino mi era sembrato una mia invenzione e lo avevo amato con una pungente e intricata intensità che certe volte mi faceva star male. Come se quella parte di me che m’ispirava più tenerezza, quella piccola parte ferita che voleva solo piangere ed essere abbracciata, mi fosse stata portata via e vivesse ora staccata, oltre la mia capacità di consolarla. L’esistenza di Jonathan mi sopraffaceva e mi stremava al punto da farmi quasi dimenticare il suo aspetto. Ora invece lo amavo meno terribilmente, attingendo a una più profonda riserva di calma, e potevo vederlo meglio nei suoi particolari umani. Fra i passeggeri che stavano sbarcando all’aeroporto era pallido e attraente, ma con qualcosa d’incompiuto; man mano che passavano gli anni cominciavo a vedere che correva il rischio di invecchiare senza acquisire visibilmente un aspetto riposato. Per nulla segnato e fanciullesco, con la bellezza equina di un ragazzino, stava acquisendo quella freschezza perenne mai messa alla prova che può portare un vecchio ad avere l’aria di un bambino scioccato e attempato. Gli feci segno, stando tra la gente in attesa, e lui avanzò verso di me, sorridente e con un’aria ancor più spaurita, muovendosi guardingo nella folla come se la sospettasse composta di nemici travestiti.

“Ciao, mamma.”

“Ciao, carissimo.”

Ci abbracciammo, informandoci reciprocamente della nostra salute e della nostra felicità. Camminando verso la macchina, mi domandò: “Come vanno gli affari?”

“A gonfie vele. Ho più richieste di quelle che riesco a soddisfare, ma in questa fase non voglio respingere nessuno. Ho anche cercato di assumere un’altra cuoca. Ma è difficile trovarne una che faccia le cose come voglio io.”

“Sono fiero di te. Chi avrebbe mai immaginato di vederti trasformata in un magnate della ristorazione.”

“Attento a come parli. E non trattarmi con condiscendenza.”

“Non ti sto trattando con condiscendenza. Da quando sei diventata così suscettibile?”

“Oh, non badarmi. Sono i nervi, immagino. Non avevo mai avuto un’azienda, tanto meno un’azienda di successo. Continuo a pensare che succederà qualcosa e andrà tutto all’aria.”

“Non preoccuparti. O anche questo è trattarti con condiscendenza? Preoccupati allora. Terribili cose capitano alle persone migliori.”

“È vero,” dissi. “Assolutamente vero. E il tuo ristorante come va?”

“In maniera assurda. Sembra che si debba star sempre lì e che tutto sia sempre al limite della follia totale. Ma pareggiamo i conti. E nei giorni di maggior affluenza registriamo perfino un piccolo guadagno.”

“Bene. È un settore difficile. Se pareggiate i conti già nel primo anno significa che state andando bene.”

“Forse. Io continuo a svegliarmi in piena notte pensando: ‘Ho dimenticato di portare i caffè al tavolo cinque’.”

“Benvenuto in prima linea.”

Arrivati alla macchina, ci fu un piccolo e bonario bisticcio su chi avrebbe guidato. Preferivo farlo io, dato che conoscevo la strada, ma a un figlio adulto non garba farsi scarrozzare da sua madre, neanche quando lei gioca in casa. Gli gettai le chiavi per farlo contento.

Percorremmo la piatta e luminosa autostrada, parlando del più e del meno. Il sole, che in quella stagione non era troppo spietato, splendeva sulle yucche in fiore e sugli squisiti grovigli grigio scuri dei mesquite. Pensai senza invidia ai piovaschi e alla nebbia di quei mesi nell’Est. Avevo scoperto che la bellezza del deserto era troppo severa per penetrarti immediatamente nella pelle. Il suo parente geografico più prossimo era il ghiacciaio – come un ghiacciaio ingannava i non iniziati fino a far loro scambiare per stasi le sue lente trasformazioni. Noi che vivevamo lì lo amavamo per la sua semplicità e il suo nitore, per le sue quotidiane avvisaglie dell’eterno. Un paesaggio forestale finisce per sembrare affollato e insieme effimero, abbastanza amabile ma decisamente troppo giovane, e soggetto agli imprevedibili capricci della fortuna. Non è un caso che le prime civiltà siano sorte nei deserti. Non è un caso che spesso gli anziani vi ritornino.

“Hai un magnifico aspetto,” disse Jonathan guidando. “Mi piace quello che ti sei fatta ai capelli.”

“Be’, ora devo fare la mia figura. Non posso più vagare per la città come una selvaggia calata dalle montagne. Se devo dirti la verità, ho trovato un barbiere. Un barbiere per uomini. Qui quasi tutti i saloni di bellezza insistono ancora per proporti una di quelle acconciature gonfie e laccate che a me non interessano. Me li faccio tagliare ogni tre o quattro settimane, e per il resto del tempo non ci penso.

“Mi piacciono,” disse lui. “Mia madre è una magnate della ristorazione coi capelli a spazzola. Non ti sto trattando con condiscendenza. Ti sto ammirando.”

Arrivato al condominio, portò in casa la sua sacca. “La casa non è cambiata.”

“Ha solo ceduto un po’ più terreno alle forze dell’entropia,” replicai. “Avrei voluto sistemarla un po’ meglio prima del tuo arrivo. Ma mi ha telefonato una mia ottima e fedele cliente con un pranzo dell’ultimo minuto, e così ho passato la giornata di ieri a preparare scampi con pesto di cilantro invece che a pulire e spolverare.”

“Va bene così. A dire il vero, la nostra casa di Cleveland era sempre un po’ troppo in ordine. In altre parole sono contento di sapere che non passi il tuo tempo a far pulizia.”

“È la minore delle tue preoccupazioni. Credimi.”

Dal momento che avrebbe dormito sul divano-letto, non c’era bisogno di disfare il bagaglio. Bastò che posasse la sua sacca in un angolo. E mentre lo faceva, mi lasciai prendere dal nervosismo – lo avevo fatto venire fino in Arizona per una ragione così strana. Forse l’avrei fatta passare per una semplice visita. Dandogli da mangiare, comprandogli qualche nuovo capo di vestiario nonostante le sue proteste e rispedendolo a casa.

“Hai fame?” domandai.

“Un po’. Non ho mangiato il pranzo che ci hanno servito in aereo. A un certo punto della mia carriera di passeggero, ho capito che potevo semplicemente rifiutare il vassoio quando me lo portavano. Facendo questo, però, mi sento ancora un temerario. Come se gettassi via dei soldi.”

“Perché non usciamo a mangiare? Ho scoperto un meraviglioso locale a una ventina di chilometri da qui, dove fanno tortillas davvero genuine. Mi piacerebbe portargli via la cuoca, avere qualcuna che conosca davvero la cucina messicana tradizionale, ma non credo di poterla pagare abbastanza.”

“Sembra allettante. Andiamoci.”

Per un attimo fu così simile a suo padre che mi fermai a guardarlo, con il sangue che mi ronzava nella testa. Tutte le madri devono avere momenti del genere, quando i loro figli adulti – che pure avevano dato l’impressione di aver sviluppato irrevocabilmente una propria personalità – rivelano all’improvviso qualcosa del carattere paterno in modo così puro e non diluito che potrebbero essere proprio lui, rinato in ogni particolare, compresi i colpi di tosse a tre note che hanno costellato gli ultimi quaranta e più anni. Ciò che vidi in Jonathan fu la molle e arrendevole disponibilità di Ned; il suo bisogno di essere piacevolmente entusiasta e di lasciare che le cose andassero per il loro verso. Se fossi stata un tipo differente, un tipo più coraggioso, lo avrei preso per le spalle e gli avrei detto: “Cerca di volere quello che vuoi più ferocemente. Sii più scontroso ed esigente. O non ti costruirai mai una vita che t’impegni a fondo.”

Invece presi le chiavi della macchina dalla sua mano e dissi: “Stavolta è meglio che lasci guidare me. Neanch’io so con esattezza come si arriva a quel locale, anche se ci sono stata una dozzina di volte.”

Passammo i due giorni successivi parlando, mangiando e andando al cinema. Gli feci visitare la mia cucina affittata e il mio ufficio improvvisato, e gli presentai i tre membri del mio staff. Lo interrogai anche sulla sua vita, pur non sapendo mai bene come formulare le domande. “Come sta la bambina?” era l’apertura più ovvia.

“Sta benissimo,” disse lui davanti a un margarita. “È straordinaria. A volte hai l’impressione di vederla cambiare un po’ ogni giorno. Comincio a capire perché c’è chi ha una mezza dozzina di figli – è difficile rendersi conto che adesso cammina gattoni e che non sarà mai più così indifesa. È anche un sollievo. Ma posso capire che si vorrebbe averne un secondo solo per vederlo passare per questo stesso incredibile periodo.”

“E tu le dedichi molto tempo?” domandai.

“Certo. È naturale. Sono uno dei suoi padri.”

Scossi il capo. “Forse non capisco del tutto,” dissi.

“Cosa c’è da capire? Sei stata là, ci hai visti tutti assieme. Siamo tre persone che hanno una bambina. Dov’è il problema?”

“Non ci sono problemi,” dissi. “Forse sono io che sono antiquata.”

“Tu non sei antiquata. Non con quella pettinatura.”

“D’accordo. Ma temo che in questa situazione tu sia lo sfruttato. Bobby e Clare stanno insieme. E tu che cos’hai?”

Era un terreno delicato. Non avevamo mai riconosciuto formalmente le sue tendenze – Bobby a parte, non avevo mai conosciuto uno dei suoi compagni. Per quanto ne sapevo, non ne aveva. E l’orribile verità era questa: preferivo così. Se avesse insistito, avrei cercato di adattarmi all’immagine mentale di mio figlio coinvolto in rapporti sessuali con altri uomini. Ma lui non era incline a scoprirsi. Veniva a trovarmi nelle vesti di un casto scapolo, e io e suo padre lo avevamo sempre accolto come tale. Se la vita non riusciva a segnarlo, temo che anche noi avevamo fatto la nostra parte.

“Ciascuno di noi ha gli altri due,” disse lui. “Ma hai ragione, mamma. Non capisci. Forse dovremmo parlare d’altro.”

“Se vuoi. Dimmi solo una cosa. Sei felice così?”

“Sì. Sono estasiato. E faccio parte di qualcosa. Di una famiglia e di un’azienda. Insieme stiamo costruendo una casa nostra. Tu ti lasci troppo condizionare dal fatto che non abbiamo esattamente l’aspetto di una famiglia normale.”

“E va bene. Cercherò di non lasciarmene condizionare troppo.”

Un attimo dopo passammo ad altri argomenti. Avrei potuto rispondere a confessioni di un amore non esattamente ortodosso, se lui avesse deciso di farmele. Ma non potevo chiedergli tanta franchezza. Non potevo proprio. Era una mossa che spettava a lui.

Tornai a occuparmi della mia azienda solo la sera precedente la sua partenza. Avevamo mangiato in casa – io avevo preparato un semplice avocado alla vinaigrette e delle bistecche di salmone alla griglia. Dopo aver sparecchiato, misi a scaldare il caffè e dissi: “Jonathan, caro, c’è una ragione per cui stavolta ti ho chiesto di venire. Ho qualcosa da darti.”

Gli si illuminarono gli occhi – doveva aver pensato che si trattasse di un tesoro di famiglia tenuto in serbo per lui. Per un attimo lo rividi esattamente com’era a quattro anni, precocemente beneducato ma fuori di sé per l’avidità in un negozio di giocattoli dove nessun acquisto era troppo costoso per la sua immaginazione.

“Che cos’è?” domandò, nascondendo garbatamente la sua impazienza.

Sospirai. Se avessi avuto una trapunta o un orologio d’oro glielo avrei dato subito, ma né io né Ned avevamo mai messo da parte cose del genere. Venivamo entrambi da famiglie più interessate al futuro che al passato. Salii in camera mia senza dir nulla, tirai fuori la cassetta dal mio comò e la portai da basso.

Capì subito che cos’era. “Oh, mamma,” disse.

La posai delicatamente sulla tavola, un liscio rettangolo di legno con una targa d’ottone che portava il nome completo di Ned e le sue date. “È tempo che la prenda tu,” dissi. “Era l’unica richiesta di tuo padre. Che fossi tu a decidere dove sistemarla.”

Lui annuì. Guardò la cassetta ma senza toccarla. “Lo so,” disse. “Me l’aveva detto.”

“Ci hai pensato?” domandai.

“Certo che ci ho pensato. È anche per questo, mamma, che ho preso alcune decisioni. Sto cercando di costruire una sorta di casa.”

“Capisco.” Mi sedetti accanto a lui. Guardammo insieme la cassetta come se sospettassimo che potesse muoversi per conto proprio.

“Ci hai guardato dentro?” mi domandò.

“Sì. In un primo momento pensavo che non ce l’avrei fatta. Ma col passare del tempo, non ce l’avrei fatta a non guardare.”

“E allora?”

“È come fuliggine. Di un grigio giallastro. Ce n’è più di quanto si possa pensare. Avevo immaginato che fosse solo una manciata di qualcosa tipo talco che si poteva gettare al vento con una sola mano. Ma non è così, ce n’è un mucchio. Ci sono anche piccole schegge d’ossa, scure, come avorio antico. Tesoro, posso dirti questo – non è tuo padre più di quanto lo sarebbe un paio delle sue scarpe vecchie. Vuoi dare un’occhiata?”

“No. Non ora.”

“Bene.”

“Perché me la dai ora?” domandò lui. “Voglio dire, be’, voglio dire esattamente questo. Perché proprio ora?”

Esitai. La verità era questa: avevo cominciato a vedermi con qualcuno. Era più giovane di me, si chiamava Paul Martinez e mi stava insegnando una serie di piaceri di cui, quando ero sposata con Ned, non avevo quasi neanche immaginato l’esistenza.

Mi sembrava di vivere alla rovescia. Con Ned avevo avuto ordine e sicurezza, quella serenità che si spera di raggiungere in vecchiaia. E ora, all’inizio della mia vera vecchiaia, pareva che mi stessi innamorando di un polemico uomo dalla pelle scura che suonava la chitarra e mi baciava in punti che Ned aveva esitato perfino a nominare. Per questo ora mi sembrava sbagliato tenere in casa le sue ceneri.

Ma a Jonathan dissi soltanto: “Ho paura di diventare un’altra Morticia Addams con le ceneri di mio marito sulla mensola. Non avrei dovuto tenerle così a lungo.”

Avrei avuto tutto il tempo per raccontargli di Paul, se l’attrazione avesse messo radici. Benché le sue attenzioni mi eccitassero, non me ne fidavo ancora – erano tante le ragioni che potevano indurre un uomo più giovane a credere fugacemente di amare una donna più matura. Perché sconvolgere Jonathan senza necessità? Avrei aspettato di vedere se la relazione era abbastanza seria da meritare un simile trauma.

“Posso capirlo,” disse. “Non riesco a credere che qui ci siano le sue vere ceneri. Sembra così... Non sembra una cosa che possa succedere nel ventesimo secolo. Che un privato cittadino abbia le ceneri di suo padre in una cassetta.”

“Vuoi che le portiamo insieme nel deserto?” dissi. “Potremmo farlo anche subito.”

“Qui? Vuoi dire portarle fuori e spargerle dietro la casa?”

“Sì. E adesso ascolta. Questa non è la vita che io e tuo padre sognavamo. Non era l’avverarsi delle nostre fantasie. Tutt’altro. Ma è qui che siamo finiti, e qui non siamo stati infelici. Per dirti la verità, io sono stata felicissima.”

“Mi aveva detto di non seppellirlo nel deserto. Me lo aveva detto esplicitamente. Voleva che io mi sistemassi e lo seppellissi dove mi sarei fatto una casa.”

“Jonathan, tesoro. Non pensi che ci sia qualcosa di un po’... kitsch in questa smania di avere una casa?”

Batté le palpebre per esprimere un burlesco stupore. “Mamma, mi stai dicendo di diventare un hippy?”

“Ti sto dicendo di smetterla di preoccuparti tanto. Tuo padre è morto. Era in ansia per la tua mancanza di radici perché non immaginava che si potesse essere felici senza essere anche legati. Era la sua natura. Ma sarebbe un peccato permettere che la mancanza d’immaginazione di tuo padre sia d’ostacolo alla tua vita. Specialmente dall’oltretomba.”

Lui annuì. Dopo un attimo d’esitazione, allungò le mani a toccare la cassetta. Passò delicatamente la punta delle dita sulle lettere incise sulla targa. Poi, senza alzare gli occhi, disse. “Mamma, se dovesse succedermi qualcosa...”

“Non ti succederà niente,” m’affrettai a ribattere.

“Ma se succedesse...”

Inspirai a fondo e lo guardai. Era questa la vera ragione che mi aveva permesso di vivere senza farmi domande con l’immagine del puro celibato di Jonathan, della sua neutralità sessuale. Sapevo che un giorno avrei potuto ricevere una telefonata, da Bobby o da Clare o da qualcuno che non avevo mai incontrato, con il nome di un ospedale.

“E va bene. Se succedesse qualcosa.”

“Se succedesse qualcosa, se ti restassimo sul gobbo sia io che papà, non voglio che tu sparga le nostre ceneri nel deserto. Mi fa venire la pelle d’oca. Okay?”

Non risposi. Mi alzai e versai il caffè.

“Vuoi portartele dietro e spargerle a Woodstock?” domandai posando le tazze fumanti.

“Forse. Non ne sono sicuro.”

“Sei tu che devi decidere. È un problema esclusivamente tuo.”

“Lo so. Troverò un posto. Vuoi che andiamo al cinema?”

“Che ne diresti invece di una partita a Scarabeo?”

“Bene,” disse lui. “Magnifico. Comincia tu.”

Il giorno dopo andammo in macchina all’aeroporto con le ceneri di Ned nella borsa a tracolla di Jonathan, fra calzini e mutande. Stavolta avevo voluto il posto del guidatore, e Jonathan non protestò. Era una giornata insolitamente coperta, col cielo pieno di nuvole scese ballonzolando dalle Montagne Rocciose, ancora gonfie ma svuotate di pioggia. L’aria era argentata e imbevuta di una luce uniforme, senza ombre e quasi senza una fonte, potendo venire con uguali probabilità dal deserto o dall’atmosfera.

Jonathan mi stava raccontando del suo crescente interesse per il lavoro di falegname quando all’improvviso uscii dall’autostrada per infilare una strada laterale che conoscevo.

“Ehi,” disse lui. “È una scorciatoia?”

“No. Non è una scorciatoia.”

“Dove stiamo andando?”

“Aspetta e vedrai.”

“Perderò l’aereo,” disse lui.

“Non lo perderai. E semmai potrai prenderne un altro.”

La strada, un nastro sottile d’asfalto appena steso, portava alle montagne dove un piccolo numero di ricchi si era costruito le sue ville. Una delle mie clienti viveva lì, in una casa così tortuosamente congiunta alle rocce circostanti da esserne appena distinguibile. Ma prima di raggiungere quelle elaborate dimore, la strada scendeva in una gola non molto profonda che conteneva una delle piccole sorprese del deserto: l’affioramento in superficie di un corso d’acqua sotterraneo, non così vistoso da formare uno stagno ma sufficientemente umido per permettere la crescita di una lussureggiante vegetazione e di un modesto filare di pioppi tremuli, le cui foglie scintillavano come perpetuamente sorprese.

Fermai la macchina in quella gola. Che appariva particolarmente bella in quella luce velata. I tronchi bianchi e le chiare foglie verdi dei pioppi erano luminosi, e un raggio di sole, penetrando attraverso le nubi, infiammava un unico tratto della montagna.

“Jonathan,” dissi. “Spargiamo qui le ceneri. Facciamola finita.”

“Qui?” domandò lui. “Perché qui?”

“Perché no? È un bel posto, non trovi?”

“Be’, sì. Ma...”

Volse lo sguardo verso il sedile posteriore e la sua sacca.

“Tira fuori la cassetta,” dissi. “Su, sbrigati. Dammi retta.”

Lentamente, con grande determinazione, Jonathan allungò un braccio dietro di sé e aprì la lampo della sua sacca. Poi tornò a voltarsi tenendo la cassetta con entrambe le mani.

“Sei sicura?” disse.

“Sicurissima. Coraggio.”

Scendemmo dalla macchina e facemmo qualche passo nel folto della vegetazione. Jonathan portava la cassetta. Intorno a noi ronzavano pigre le mosche e una lucertola color polvere s’immobilizzò su una roccia rosata che ci arrivava alla vita, fissandoci con tutta la sua guizzante vitalità.

“È davvero bello,” disse Jonathan.

“Ci passo qualche volta,” dissi io. “Ho delle clienti da queste parti. D’ora in avanti ogni volta che verrai a trovarmi, potremo fare un salto qui se ti farà piacere.”

“Devo aprire la cassetta?” mi domandò.

“Sì. Non è difficile. Sai come si fa?”

“Credo.” Toccò il gancio. Poi tirò indietro la mano senza alzare il coperchio.

“No,” disse. “Non posso. Non è il posto giusto.”

“Tesoro, sono soltanto ceneri. Spargiamole e continuiamo le nostre vite.”

“Ho promesso. Non è il posto giusto. Non è quello che lui avrebbe voluto.”

“Scordati di quello che voleva lui,” dissi.

“Tu potresti farlo. Io no.”

Teneva stretta la cassetta, con le nocche sbiancate come se avesse paura che gliela portassi via. Dissi: “Non è leale.”

“Non so se sia leale. È vero. Mamma, perché hai voluto sposare papà?”

“Te l’ho già raccontato.”

“Mi hai raccontato che ti eri messa un paio di scarpe bianche dopo il Labour Day e che lui aveva dei bei capelli e che non essendoti venuta in mente una ragione per non farlo, lo avevi accettato,” disse. “Ma perché l’hai sposato, perché sei rimasta sposata con lui? L’intera nostra famiglia è stata messa su solo perché pensavi che sposarti e avere un bambino fosse tuo dovere?”

“Attento a quello che dici, giovanotto. Io amavo tuo padre. Tu non hai resistito per anni in quel condominio. Non ti sei svegliato di notte accanto a lui quando non riusciva a respirare e si lasciava prendere dal panico.”

“No. Ma lo amavi? È solo questo che voglio sapere. So che ti sei sacrificata per lui e lo hai tenuto su e tutto il resto. Ma eri innamorata di lui?”

“Che razza di domanda da fare a tua madre.”

Cullò la cassetta fra le braccia. “Penso che forse ero io innamorato di lui,” disse. “Lo amavo.”

“Era un uomo mediocre.”

“Lo so. Credi che non lo sappia?”

Rimanemmo per un po’ sul limitare del boschetto di pioppi tremuli. Non succedeva niente, non si muoveva niente. Jonathan teneva la cassetta, con un’espressione ostinatamente risoluta e gli occhi ermeticamente chiusi.

Dopo qualche minuto, gli dissi: “Jonathan, trovati qualcuno da amare.”

“Ho già qualcuno,” ribatté.

Mi diede una sorta di vertigine udire noi due che facevamo questi discorsi – una frivola, pungente sensazione di grande altezza e di protezione insufficiente. Eravamo sempre stati così circospetti nei nostri rapporti. E adesso, a questo punto, quando avevamo cose di cui discutere, non avevamo un linguaggio in comune.

“Sai cosa intendo,” dissi.

Distolse lo sguardo in maniera petulante, come se qualcosa all’orizzonte e alla mia destra avesse attirato la sua attenzione. Ed ecco, qui davanti a me, a evitare rabbiosamente di guardarmi negli occhi, il bambino di quattro anni che avevo conosciuto più intimamente di quanto conoscessi me stessa. Adesso era tornato nelle vesti di un uomo invecchiato come invecchia un professore inglese; con qualcosa di sparuto, di leggermente devastato, di casalingo.

“Tu non sai niente,” disse infine. “Le nostre vite sono più differenti di quanto tu possa immaginare.”

“So abbastanza delle donne,” dissi. “E ti garantisco una cosa. Quella donna non ti permetterà di avere gli stessi suoi diritti sulla figlia.”

Ora poté guardarmi in faccia. I suoi occhi erano duri e brillanti.

“Rebecca non è sua figlia. Rebecca è nostra figlia,” disse.

“Per modo di dire.”

“No. Letteralmente. Io, Bobby e Clare non sappiamo chi di noi è il padre. È così che abbiamo deciso.”

Non gli credetti. Sapevo – non so come ma lo sapevo – che lui e quella donna non erano mai stati amanti. Mi stava raccontando una storia, come quando era bambino. Tuttavia la presi per buona.

“E anche Clare voleva questo?”

“Sì. È questo che voleva.”

“Può essere quello che diceva di volere,” dissi. “Può essere quello che pensava di volere.”

“Tu non conosci Clare. Stai pensando a un tipo diverso di persona.”

“No, mio caro. Sei tu che lo fai. Io so cosa vuol dire credere che le persone che conosci siano diverse, che la tua vita sarà diversa. E sono qui a dirti che esistono leggi universali. Una donna non mette in comune il suo bambino.”

“Mamma,” disse lui con una voce elaboratamente calma. “Mamma, tu stai parlando di te. Sei tu che non avresti mai ceduto il tuo bambino.”

“Ascolta me adesso. Va’ a cercarti qualcuno da amare. Cerca di avere un figlio che sia tuo, se è questo che vuoi.”

“Ne ho già uno,” disse. “Rebecca è mia quanto di chiunque.”

“Tre è un numero dispari. Quando si è in tre, uno di solito viene spremuto via.”

“Mamma, tu non sai quello che dici,” ribatté. “Non ne hai un cazzo di idea.”

“Per favore, non parlarmi così. Sono ancora tua madre.”

“E tu per favore non far pesare la tua autorità. Sei tu che hai voglia di parlare.”

Mi aveva presa in castagna. Ero io che avevo voglia di parlare. Ero io che mi ero sepolta nel matrimonio, che mi ero lasciata trascinare dal semplice persistente comfort delle piccole cose della vita domestica. E ora, in un boschetto in pieno deserto, avevo voglia di parlare.

“Io dico solo,” replicai, “che sembrano esistere certi limiti. È già abbastanza difficile restare insieme come coppie.”

“E io,” disse lui, “sto seriamente considerando l’ipotesi che questi limiti siano una profezia che si esaurisce in se stessa. Io, Bobby e Clare siamo felici insieme. E intendiamo rimanere insieme.”

“La storia insegna che non è così.”

“La storia cambia. Mamma, non è più lo stesso mondo. Il mondo finirà da un momento all’altro, e perché non dovremmo tentare di avere tutto ciò che possiamo?”

“La gente ha creduto che il mondo stesse per finire fin da quando è cominciato. Ma non è finito e non è nemmeno cambiato molto.”

“Come puoi dirlo? Guardati.”

Ero cosciente del terreno sotto i miei piedi, gessoso e di un grigio rossastro. Ero cosciente di me stessa, in jeans e giacca scamosciata, sotto il cielo aperto.

Dissi: “Credi davvero che, quando si verrà al sodo, Bobby sceglierà te? Perché è così, no? Tu credi che Clare si farà da parte e che tu e Bobby crescerete insieme quella bambina, con lei sullo sfondo.”

Mi guardò, e io lo vidi. Vidi ogni cosa: il suo desiderio per gli uomini, il suo senso di colpa e la sua delusione, la sua rabbia. Vidi che per certi aspetti quella rabbia era la rabbia di una donna. Aveva come una donna il senso del tradimento. Credeva di essere stato spinto ingiustamente ai margini, di essere stato amato dalle persone sbagliate e per le ragioni sbagliate. Per un attimo ebbi paura di lui. Paura di mio figlio, lì in quel luogo selvaggio, lontano da ogni altro essere umano. Ci eravamo protetti col silenzio perché la sola alternativa era di azzannarci, di graffiarci e morderci e urlare. Ci vergognavamo troppo, noi due, per una rabbia normale.

“Tu non sai di cosa stai parlando,” disse pacatamente, e io ammisi che probabilmente era vero. Ci eravamo reciprocamente persi di vista; eravamo estranei in una maniera profonda, impenetrabile che scorreva come un fiume sotto il nostro affetto e la nostra cordialità. Forse era sempre stato così.

“È meglio che cerchiamo di non farti perdere l’aereo,” dissi.

“Sì. È meglio.”

“Per quanto riguarda le ceneri. Sei tu che devi scegliere. Fammi sapere cos’hai deciso quando l’avrai deciso.”

Annuì. “Forse un giorno le regalerò a Rebecca,” disse. “Ecco, piccola. L’eredità della tua famiglia.”

“Neanche lei saprà che farsene,” dissi.

“Se io avrò voce in capitolo, lo saprà. Voglio che cresca senza porsi il problema di dove mettere le ceneri di suo nonno.”

“Sarebbe bello. Sarebbe bello per lei.”

“Mm-hm.”

“Andiamo allora,” dissi. “Ce la faremo appena se ci sbrighiamo.”

Risalimmo in macchina e facemmo il resto della strada in silenzio. Jonathan ripose le ceneri nella sua sacca e chiuse la lampo. Guidando, cercai di formulare qualche frammento di consiglio materno ma non riuscii a pensare come tradurlo in parole. Mi sarebbe piaciuto dirgli una cosa per imparare la quale mi ci erano voluti quasi sessant’anni: che dobbiamo ai morti meno ancora che ai vivi, che la sola possibilità che abbiamo di essere felici – una possibilità piuttosto esigua – sta nell’accettare di buon grado il cambiamento. Ma non ce la feci.

Poiché avevamo perso tempo, dovette saltar fuori appena accostammo al marciapiede davanti al terminal. “Ciao, mamma,” disse.

“Addio. Abbi cura di te.”

“Certo. Lo faccio sempre.”

“Non ne sono tanto sicura. E adesso va, svelto. Perderai l’aereo.”

Scese dalla macchina e si gettò la sacca sulla spalla. Prima di mettersi a correre, si spostò dalla parte del guidatore. “Arrivederci,” disse.

Era malato o stava solo invecchiando? Perché aveva un’aria così sparuta, con gli occhi un po’ troppo grandi rispetto al cranio?

“Jonathan? Telefonami quando sarai a casa, d’accordo? Tanto per farmi sapere che sei arrivato tutto d’un pezzo.”

“Okay. Certo.”

Si chinò davanti al finestrino aperto, e io gli diedi un bacio, leggero ma sulla bocca. Era un bacio d’addio. Poi, senza un cenno di saluto e senza voltarsi, scomparve.