Jonathan

La sera del giorno in cui Arthur, il critico teatrale, fu ricoverato in ospedale, io ed Erich ci raccontammo alcune storie. Non avevamo mai parlato del nostro passato, a parte qualche dettaglio molto generico sui luoghi e le famiglie d’origine. Quando eravamo insieme, la memoria si nascondeva accuratamente dietro alla nostra adulta consapevolezza, come fosse stata appesa a una fune scorciata, e qualsiasi evento vecchio più di un giorno o due svaniva in un’oscurità prenatale. Ci eravamo sempre parlati sull’onda di un presente continuo, dove non esistevano profondità, disperazione o vecchie aspirazioni romantiche. Restavano, a quel punto, le comuni vicissitudini di una vita di lavoro che assumevano invece dimensioni wagneriane, così che gli intervalli fra le pazzesche richieste di un boss o l’ostilità di un tassista diventavano il pretesto per mantenere un’assoluta, anonima calma.

Adesso nel suo appartamento stavamo chiacchierando davanti a una bottiglia di Merlot. E John Coltrane sullo stereo.

“Lo so che è difficile,” dissi. Dovevo giustificarmi, essendo stato io a volere che s’affrontasse l’argomento.

“Un po’... Sì, un po’. Non sono molto... propenso a parlare di queste cose. Vedevo la mia terapista da più di un anno quando mi decisi a dirle che ero gay.”

“Non devi raccontarmi niente che tu non abbia già raccontato a lei,” dissi. “Voglio solo che ognuno di noi si faccia, diciamo così, un’idea generale del passato dell’altro. Per metterla delicatamente.”

Erich arrossì e sbottò in una delle secche e dolenti risate tipiche di quando si sentiva a disagio. Per certi aspetti era ancora immaturo. Il mostruoso divano di finta pelle su cui eravamo seduti glielo avevano regalato i genitori per festeggiare la sua ammissione alla facoltà di legge del Michigan. Pensavano evidentemente che si stesse avviando verso una vita che avrebbe compreso una casa di dodici stanze rivestite di pannelli di legno; neanche un anno dopo lui aveva lasciato la scuola sperando in una carriera d’attore a New York. Adesso i genitori non gli rivolgevano più la parola e il divano riempiva da un capo all’altro l’appartamento, come una barca ancorata in una piscina.

“Giusto per avere un’idea,” aggiunsi. “Non occorre un’umiliante confessione.”

“Sì, ma... Sinceramente non so perché esito tanto su una cosa del genere. Non lo so davvero. Sono sempre stato, vedi, uno che preferisce ascoltare gli altri. Credo sia un’abitudine che viene a forza di fare il barista.”

“Comincerò io.” Per quasi un’ora rievocammo tutte le nostre vecchie relazioni casuali, le storie belle e brutte, che pensavamo sepolte in un passato troppo lontano per influire in qualche modo su ciò che facevamo ora di noi stessi.

Eravamo finiti, a quanto sembrava, più o meno al centro della zona rischio. Nessuno di noi era mai stato troppo avido. Non avevamo frequentato le sale interne. Non avevamo mai fatto l’amore con dieci differenti estranei nel corso di una notte passata in un bagno pubblico, o pagato a ore giovani marchettari dai fianchi sottili nelle West Forties. Ma, fra tutti e due, c’eravamo portati a casa un bel un plotone d’estranei. Avevamo incontrato uomini nei bar o alle feste; eravamo andati a letto con amici di altri amici arrivati in visita da San Francisco o Vancouver o Laguna Beach. Avevamo vagamente sperato d’innamorarci ma senza preoccuparcene molto, poiché pensavamo di averne ancora tutto il tempo. L’amore ci era parso così definitivo e monotono – non si erano forse rovinati così i nostri genitori. Li aveva condannati a una vita di ipoteche da pagare e di riparazioni da fare in casa; a squallidi impieghi e alle corsie fluorescenti del supermercato alle due del pomeriggio. Avevamo sperato in un amore di tipo diverso, che conoscesse e perdonasse la fragilità umana senza ridicolizzare le idee più grandiose su noi stessi. Sembrava possibile. Se non fossimo stati troppo precipitosi o troppo ingordi, se non ci fossimo lasciati prendere dal panico, si sarebbe forse presentato un amore stimolante che ci avrebbe fortificato. Se questo ideale era immaginabile, allora perché non poteva esistere. Nel frattempo avevamo il sesso. Pensavamo di vivere agli albori di una nuova era orgiastica in cui uomini e donne avrebbero risposto senza esitare alle innocue tentazioni della carne. Convinto delle mie illimitate possibilità di scelta, avevo fatto l’amore con un giovane e sprovveduto suonatore di flauto incontrato nel parco di Washington Square, così come con un vecchio francese in giacca di cachemire viola conosciuto andando in centro sull’IRT, o con un paio di affabili dottori che addolcivano la loro unione imbarcando ogni tanto una terza persona. Intorno ai vent’anni mi ero sentito una specie di Puck, sveglio, scattante e incorreggibile, sempre pronto a ogni nuova avventura, senza alcuna nostalgia per le linde case e le aride giornate dell’Ohio.

Erich e io non rispettavamo la cronologia. Non eravamo così scientifici. Accennavamo ai momenti salienti, ma indugiavamo in maniera più esplicita – più compiaciuta – sui piaceri che ci eravamo negati. Con le lunghe dita a coppa sul suo calice di vino, Erich s’accigliò e disse: “Non mi è mai piaciuto molto il sesso totalmente anonimo. Non mi è mai andato bene. Lavorando nei bar, ho conosciuto una quantità di uomini e con alcuni sono anche andato a casa, ma non ho fatto tutte le esperienze. Ho provato ad andare in un bagno pubblico, ma ho avuto paura. Così mi sono fatto una sauna e sono tornato a casa...” Poi aggiunse: “...a masturbarmi” con un sorriso sofferto, e la sua fronte divenne quasi viola.

Pur sedendo insieme su quel divano pantagruelico, non ci toccavamo. Le nostre ombre erano totalmente staccate. Per noi questa riservatezza era normale, e non aumentava né diminuiva parlando di quegli amori che pregavamo non si rivelassero fatali. Nella condotta delle nostre faccende quotidiane mantenevamo sempre un cordiale distacco. Chi ci vedeva insieme per strada poteva scambiarci per due ex compagni di stanza al college che avevano perduto il senso d’intimità di allora, ma erano restii a dichiararlo formalmente morto. Solo a casa, nudi, schizzavamo fuori dalle nostre pelli. Sullo stereo Coltrane suonava A Love Supreme.

“La cosa strana,” ripresi, “è che mi sentivo in colpa di non essere più avventuroso. Udivo uomini parlare di essersi fatti quattro marchettari in una notte e pensavo: ‘Devo essere il gay più represso che sia mai esistito.’ Sapevo benissimo, voglio dire, che la maggior parte dei tipi con cui andavo, probabilmente non li avrei più visti. Ma avevo sempre la sensazione che forse avrei voluto rivederli, e innamorarmi di loro. Anche se non succedeva mai.”

Erich si concentrò sul suo vino e disse qualcosa che non riuscii a sentire.

“Hmm?”

Fu costretto a ripetere: “Be’, tu credi che noi ci stiamo, come dire, innamorando?”

Non avevo mai visto nessuno così imbarazzato. L’intera sua testa era diventata rossa e il vino tremolava nel suo bicchiere.

Credevo di sapere cosa volesse. Voleva sprofondare nell’amore. La vita gli faceva troppa paura. La fama continuava a sfuggirgli nonostante i suoi sforzi instancabili, e il futuro su cui avevamo contato poteva essere cancellato da un irritante colpo di tosse o da una patina violacea su uno stinco.

“No,” dissi. “Tengo molto a te. Ma è no.”

Annuì. Non disse nulla.

“Sei innamorato di me?” domandai, pur conoscendo già la risposta. Aveva una voglia disperata di innamorarsi di qualcuno. Io rispondevo alle sue esigenze di fondo in termini di età, peso e statura. Ma il suo desiderio non era direttamente legato a me. Non era del tutto personale.

Scosse il capo. Restammo un po’ in silenzio, poi allungai una mano per prendere la sua. Dovevo trattarlo con tenerezza perché lo odiavo; perché qualcosa dentro di me urlava contro di lui, uomo mediocre e incapace di cambiarmi la vita. Ero spaventato; volevo anch’io innamorarmi. Gli accarezzai la mano. Il giradischi, programmato a ripetere, suonò dall’inizio l’album di Coltrane. Erich tentò una risata, ma l’ingoiò insieme a un lungo sorso di vino.

Avrei potuto ammazzarlo, sebbene i suoi soli crimini fossero assenza di personalità e carenza d’intelletto. Avrei potuto trafiggergli il cuore con un forchettone perché era un personaggio periferico promosso dalle circostanze a un ruolo che non era in grado di ricoprire. Non posso negarlo: pensavo di meritare di meglio.

Senza dire una parola, ci alzammo e andammo a letto. Fu il nostro unico caso di accordo telepatico – di solito spiegavamo le nostre azioni più semplici con dovizia di particolari. Ma quella sera prendemmo i bicchieri e ci spostammo senza una parola in camera sua, ci spogliammo e ci sdraiammo, l’uno fra e braccia dell’altro.

“Viviamo in un’epoca tremenda,” dissi.

“Sì. È proprio vero.”

Restammo così per un po’, senza parlare dell’ultimo aspetto che ancora restava della nostra storia erotica – il fatto che insieme non avessimo mai preso precauzioni. E adesso era troppo tardi per proteggerci l’uno dall’altro. Non c’era una spiegazione razionale, a parte il fatto che quattro anni prima, quando ci eravamo incontrati, la malattia sembrava colpire solo un altro tipo di uomini. Certo, eravamo perfettamente informati. E ne avevamo avuto paura. Ma non si era ammalato nessuno che conoscessimo di persona. Avevamo creduto – con un certo sforzo di volontà – che capitasse a uomini con il sangue diluito da un consumo eccessivo di droghe e con l’abitudine di far sesso ogni notte con una dozzina di persone. Erich aveva una buona raccolta di dischi, e fotografie incorniciate di fratelli macilenti e sorelle in posa sulla riva di un lago o in un soggiorno tappezzato, accanto a una lucente Camaro rossa. Parlava di presentarsi alle audizioni e di trovarsi un posto migliore. Sembrava troppo occupato per essere disponibile a una morte prematura. Non avrei saputo dire come avesse elaborato questa equazione nella sua testa, poiché non sembrava il tipo di conversazione che fossimo in grado di sostenere. Ci fu al suo posto un lungo abbraccio silenzioso. Poi, con una nuova serietà, facemmo l’amore mentre il disco di Coltrane si ripeteva senza interruzioni.

Parecchi giorni dopo, Bobby mi raccontò di sé e di Clare. Io ero andato a trovare Arthur in ospedale. La sua polmonite stava guarendo – si era detto ottimista sul futuro, e convinto che astenendosi dall’alcol e adottando una dieta macrobiotica avrebbe migliorato del cento per cento la sua salute. Benché in redazione ci fosse ancora del lavoro importante da fare, non me la sentivo di occuparmene. E tornai a casa per passare la serata con i miei due coinquilini.

Quando arrivai, erano in cucina a preparare la cena, nonostante fosse spaziosa come una cabina del telefono; ma loro erano riusciti in qualche modo a incunearvisi. Dal soggiorno udii la risata di Clare. Bobby disse: “Devi proprio spostare le chiappe di un paio di centimetri, se no non ce la faccio a tirar fuori questa roba dal forno.”

Gridai: “Salve, carissimi.”

“Jonathan,” disse Clare con una voce acuta e divertita. “Oh, Dio mio, è a casa.”

Dovevano aver cercato di uscire contemporaneamente dalla cucina ed erano rimasti incastrati. Udii altre risate e un grugnito di Bobby. Fu Clare la prima a entrare in soggiorno. Indossava una camicia gialla da bowling con un filo di rosse perline di vetro. La seguì Bobby, in T-shirt e jeans neri.

“Ciao, tesoro,” disse Clare. “Che sorpresa. È bruciato il giornale?”

“No. È solo che mi mancavate. E mi sono concesso una serata libera. Vogliamo andare al bowling o da qualche altra parte?”

Clare mi baciò sulla guancia, e così fece anche Bobby. “Stavamo facendo, uhm, del pollo alla crema.”

“Come non lo faceva nessuna delle nostre madri,” aggiunse Clare. “Non so voi, ma da dove vengo io la tipica cucina casalinga era un TV dinner, ossia una bistecca per uomini affamati. Il pollo con la crema sembra così esotico, così straniero.”

“La madre di Jon era una gran cuoca,” le disse Bobby. “Non comprava mai surgelati. E neanche scatolette.”

“Già,” fece Clare. “E si tuffava sott’acqua per procurarsi le perle e metteva trappole per i suoi visoni. Jonathan caro, lo vorresti un cocktail?”

“Con piacere. Se preparassimo una caraffa di Martini?”

Ci eravamo messi a bere Martini. Avevamo comprato tre calici e tenevamo in frigorifero vasetti di olive verdi.

“Splendido,” disse Bobby. “Potremmo anche fare un brindisi.”

“Tu mi conosci. Sono pronto a brindare a qualsiasi cosa. Oggi è forse il giorno di Guy Fawkes o qualcosa del genere?”

“Be’.” Sogghignò, cordiale e imbarazzato.

“C’è qualcosa di particolare a cui brindiamo?” dissi.

“Io vado a preparare i Martini,” disse Clare. “Voi due aspettate qui.”

Tornò in cucina. “Cosa sta succedendo, amico?” domandai a Bobby quando restammo soli.

Lui, continuando a sogghignare, si mise a fissare il pavimento come se leggesse dei segreti scritti sulla moquette. Bobby non era uomo da sotterfugi. Poteva non rispondere a una domanda ma non avrebbe mai risposto con una bugia. Se fosse una questione di moralità o di semplice mancanza d’immaginazione, non saprei dirlo. A volte le due cose sono talmente legate da risultare indistinguibili.

“Jonny,” disse. “Io e Clare...”

“Tu e Clare cosa?”

“Abbiamo avviato, cioè ci siamo... Capisci?”

“No, non capisco.”

“Sì, invece.”

“Vuoi dire che andate a letto insieme?” dissi.

Smise di contemplare il pavimento, ma non riuscì a guardarmi in faccia. Sorrideva e insieme mi strizzava l’occhio, con un’ilarità a stento repressa, come aspettando che io mi rendessi conto di non essermi messo i pantaloni.

“Be’,” disse dopo una pausa. “Oh, Jonny. Ci siamo, come dire, innamorati. Non è incredibile?”

“Sì. È proprio incredibile.”

Non avevo previsto che la mia voce suonasse così fredda e stizzita. Avrei voluto rispondere con voce ferma ma gentile – per troncare queste insensatezze romantiche. Al tono della mia voce Bobby reagì guardandomi incerto, e il suo sorriso si spense.

“Jon,” disse. “Adesso siamo come una vera famiglia.”

“Cosa?”

“Noi tre. Non lo capisci, amico, com’è meraviglioso? Voglio dire, ora siamo tutti e tre innamorati.”

Rientrò Clare con i Martini, su un vassoio, divenuto parte del nostro rituale. Era un souvenir parecchio malconcio della California meridionale, decorato con arance dal colore di buste commerciali e con bellezze dalle labbra nere, sdraiate con aria delusa e distaccata su una spiaggia turchese.

“Gliel’ho detto,” comunicò Bobby con fierezza.

“Proprio come avevi promesso.” Mi guardò con un’espressione a metà tra l’ironico e il dispiaciuto. “To’, Jonathan. Bevi.”

“È vero?” le domandai.

“Di me e Bobby? Sì. Mi pare che te lo stiamo annunciando ufficialmente.”

Bobby prese un bicchiere dal vassoio e lo alzò. “Alla famiglia,” disse.

“Oh insomma, Bobby,” disse Clare. “Cristo santo. Io e te andiamo a letto insieme.” Si voltò verso di me e aggiunse: “Io e lui andiamo a letto insieme.”

Mandai giù un sorso del mio Martini. Sapevo come avrei dovuto sentirmi: contento della facilità con cui l’amore compariva inaspettatamente a illuminare diversamente il quotidiano. Mi sentivo invece vuoto e arido, come sabbia che cade in una buca di sabbia. Mi sforzai di simulare l’allegria richiesta. Pensavo che me la sarei cavata se fossi riuscito a recitare in modo abbastanza convincente.

“È incredibile,” dissi. “E da quanto tempo va avanti? È il titolo di una canzone, no? Uno dei guai dell’amore è che non se ne può parlare senza aver l’impressione di citare continuamente vecchie canzoni.”

“Solo da qualche giorno,” disse Clare. “Volevamo dirtelo ma, a quanto pare, non ce n’è mai stata l’occasione nelle nostre solite conversazioni.”

Annuii e la guardai con durezza. Né lei né io credevamo a ciò che aveva appena detto. Sapevamo entrambi che se lei e Bobby, consciamente o no, mi avevano nascosto il loro amore era perché ritenevano di avere una ragione per nasconderlo.

“E se ora avessimo un bambino?” disse Bobby. “Tutti e tre.”

“Bobby,” disse Clare, “per favore chiudi il becco. Ti prego.”

“Voi due volevate avere un bambino, no? Ne parlavate. E allora se ne avessimo uno noi tre? O anche due?”

“Certo,” dissi. “Facciamone sei. Una mezza dozzina tonda tonda.”

“Vediamo se per Natale riusciremo ancora a sopportarci,” disse Clare.

“Be’, alla coppia felice,” dissi alzando il bicchiere.

Brindammo. Poi aggiunsi: “Non me lo sarei mai aspettato. Soltanto ora che lo so, non mi pare assurdo. Ma davvero, Bobby, da quando sei arrivato non mi era mai venuto in mente che tu e Clare...”

“Non era venuto in mente neanche a me,” disse Clare.

“È meglio che mi raccontiate come è successo,” dissi. “In tutti i particolari, per quanto intimi.”

Svuotammo i bicchieri e facemmo subito un altro giro mentre Clare raccontava e Bobby interveniva ogni tanto con brevi precisazioni. Lei sapeva esagerare così abilmente che ogni tanto perdeva di vista la linea divisoria fra l’iperbole e la semplice verità. Non cercava di mettere in buona luce se stessa. Preferiva, semmai, descriversi in termini tutt’altro che lusinghieri, figurando di solito nei suoi racconti come un personaggio ingenuo e un tantino ridicolo, condannato a subire meritate punizioni come Lucy Ricardo, e incline a inspiegabili attaccamenti sfortunati come il Matto de La strada. Sacrificava sempre la veridicità puntando sul colore – ingigantiva i particolari senza mai ingannare sul contenuto. Raccontava la propria vita come facesse parte di un mondo clownesco e surreale, per lei convincente, pur essendo ben lontano dalla sua più intima interiorità, crivellata da vecchi maltrattamenti e da un senso angosciato dei propri limiti.

Clare aggiunse: “Sostanzialmente Mamma ha deciso di dare a Junior una lezione di vita. Be’, ho paura che si sia lasciata un po’ trasportare. Non so cosa ne diranno le ragazze della mia squadra di bowling.”

“Non gli piacerà,” dissi. “Probabilmente ti obbligheranno a dare indietro le tue scarpe.”

“Oh, zio Jonny, ho fatto la brava per tanto tempo. Si vede che non ce la facevo più.”

“Be’, tuo zio non ha parole. È una tale sorpresa.”

“Certo, questo lo capisco.”

In un accesso di gioia e tensione, Bobby allungò una mano per stringere il gomito nudo di Clare. Le sue dita lasciarono pallide impronte sulla liscia carne del braccio. Ebbi una visione di loro due invecchiati insieme: Clare, una vecchia eccentrica e sovreccitata con un cappello stravagante e un eccesso di trucco, che raccontava per l’ennesima volta la storia della sua romantica caduta, mentre Bobby, panciuto e quasi calvo, le sedeva accanto arrossendo e mormorando: “Oh, Clare.” Prima o poi, diventiamo tutti quel che raccontiamo di noi stessi.

“Credo che sia la fine degli Henderson,” disse lei.

“Sì, lo credo anch’io.”

Per un attimo ci sentimmo improvvisamente a disagio, come degli ospiti lasciati soli da un amico comune. Poi Bobby disse: “La cena è quasi pronta. Avreste voglia di mangiare qualcosa?”

Dissi che avevo fame, perché a questo punto mangiare poteva essere la cosa migliore. Intontito dal gin, mi sembrava che la testa fluttuasse da qualche parte sopra il mio corpo, trasmettendomi le emozioni come attraverso una radio. Ero arrabbiato e invidioso. Avevo bisogno di Bobby. E, in un altro senso, di Clare.

Mangiammo parlando d’altro. Dopo cena andammo a vedere La gang al Thalia. Nel corso degli anni io e Clare l’avevamo visto più volte, ma lei insistette che doveva vederlo anche Bobby. “Dato che all’improvviso,” disse, “siamo diventati una specie di coppia, voglio che lui abbia visto almeno qualcuno dei film fondamentali.” Durante la proiezione gli sussurrò parole all’orecchio e sottolineò i punti più importanti premendogli il ginocchio. Si era dipinta le unghie di un rosa fiammante, visibile persino nel buio della sala.

Dopo il film, rifiutai di andare a bere con loro, benché avessimo preso l’abitudine di concludere in un bar le nostre serate insieme, per quanto fosse tardi. Clare mi toccò la fronte con un palmo e mi domandò: “Stai male, tesoro?” No, ero solo esausto, e sostenni che dovevo essere in redazione all’alba per recuperare quella sera. Bobby e Clare si offrirono di riaccompagnarmi, ma io dissi che dovevano andare a bere per conto loro. E diedi a entrambi un bacio. Tornando a casa a piedi, l’aria era così fredda e limpida che l’Orsa Maggiore penetrava oltre le luci di Manhattan, descrivendo un leggero angolo sul tetto di Cooper Union. L’aria gelida sfavillava intorno alle luci delle finestre. Perfino in una notte come quella, c’erano ragazzi dallo sguardo vacuo che percorrevano ostinatamente le strade con le loro radio nere portatili, da cui usciva una musica che scheggiava il freddo.

A casa, arrotolai il sacco a pelo di Bobby e lo misi nell’armadio. Sapevo che, a partire da stanotte, avrebbe dormito in camera di Clare. Mi feci un altro Martini come bicchierino della buona notte. Cominciò a scendere una leggera nevicata, fiocchi vaganti che sembravano aria appena rappresa che nella discesa andava indurendosi sempre di più. Andai a bere il Martini in camera mia e immaginai Bobby e Clare in marcia verso un futuro comune. Non era una coppia molto promettente. Sarebbero probabilmente arrivati insieme ai limiti di questa nuova esperienza, e il loro rapporto si sarebbe ridotto a un mero episodio. Ma era anche possibile che andasse in un altro modo. Se fossero rimasti insieme, per una qualche miscela di attrazione, testardaggine o semplice fortuna, allora forse avrebbero messo su una specie di famiglia, con dei figli, un lavoro qualsiasi e un carrello da spingere percorrendo le corsie fluorescenti di un supermercato. Avrebbero avuto tutto questo.