Bobby

I piaceri della città erano troppo complicati per crescervi un bambino. E troppo mescolati al marciume. Così pensavo io, e lo pensava anche Jonathan. Clare ne era meno convinta – ciò che la preoccupava era che il piccolo potesse crescere con l’immaginazione guastata da un eccesso di agi.

“E se venisse fuori una specie di Heidi?” disse. “Non voglio mio figlio diventi troppo buono. Non lo sopporterei.”

Le ricordai ciò che New York teneva in serbo per chiunque fosse troppo piccolo, o disinformato, per reclamare il diritto anche solo di respirare. Inventai probabilmente statistiche sulle scuole di provincia e sui vantaggi del verde per lo sviluppo psicologico.

“E poi, ascolta, crescere in campagna non significa più che uno sia condannato a non comportarsi bene,” disse Jonathan. “Quasi tutti gli assassini più interessanti vengono da fattorie abbandonate e da camping per roulotte.”

“E va bene,” disse infine Clare. “Penso che abbiano tutti bisogno di New York come meta delle loro fughe. Se cresciamo qui il bambino, si trasferirà in campagna quando sarà grande.”

Cominciammo così a telefonare. A girare in macchina nella parte interna dello stato alla ricerca di una proprietà così eccentrica o solitaria da poter essere acquistata con l’eredità di Clare. Cercar di comprare una proprietà immobiliare a buon mercato, ti dà modo di conoscere intimamente il fallimento umano d’ogni giorno. Senti l’odore rancido, vegetale che si fa strada da fuori tra le fradicie pareti esterne, vedi pavimenti e soffitti che stanno sprofondando al rallentatore. Constati che clima e deperimento vincono per la loro costanza, giorno dopo giorno, finché i soldi non si esauriscono.

“Non possiamo perdere troppo tempo a pensare,” insisteva Clare. “Dobbiamo continuare a cercare. Se ci fermiamo a riflettere troppo a lungo, temo che finirò per rinsavire.”

Dopo tre settimane, trovammo una casa marrone a due piani, una decina di chilometri fuori Woodstock, un edificio con una sua dignità matronale e leggermente folle, con vantaggi che compensavano più o meno i difetti. I muri poggiavano su solide fondamenta. Il prezzo era basso – una vendita dettata dalla disperazione. La luce di un campo d’erba medica circolava da una stanza all’altra come se il trascorrere del tempo fosse la più sciocca delle illusioni umane. Dai rubinetti scorreva acqua di pozzo, fredda e limpida come la virtù.

Al passivo c’era l’impianto elettrico che si era disintegrato e i tubi traforati dalla ruggine. I vecchi pavimenti di pino brulicavano di cancrene secche e di formiche quasi fossili.

“Questa almeno ha un’anima,” disse Jonathan. “Capite cosa voglio dire? Ho la sensazione che non sia troppo tardi. Questa non è ancora morta affogata.”

Clare annuì. Fece scorrere il pollice sullo stipite della porta, e lo guardò poi con una sorta di perplessità critica.

“Sembra che vada bene,” dissi io. “Non vi sentite in sintonia con questa casa?”

“Mm-hm,” disse Clare. “Nausea. Vertigini. Panico.” Continuava a guardarsi il pollice.

Discutemmo per una settimana, poi acquistammo la casa. Compreso il pozzo e la luce del pomeriggio. Comprammo quindici querce, otto pini, un cespuglio di more e un paio di tombe così antiche che le lapidi erano diventate friabili come gesso. Mentre firmava le carte, seduta su una poltroncina verde di vinile, Clare disse: “Addio, Parigi e Istanbul.”

Jonathan aggiunse: “Addio, Armani. Addio, scarpe di coccodrillo.” Si fecero entrambi una stridula risatina. Dopo di che l’affare fu concluso. Con il capitale che il suo defunto nonno aveva accumulato fabbricando strass, Clare aveva comprato per tutti noi un nuovo inizio. Per festeggiare, l’agente immobiliare ci offrì del vino bianco in bianche tazze di plastica.

Lasciando l’appartamento di New York, ci sbarazzammo di tutto ciò che era rotto o logoro – quasi la metà dei nostri averi. Li lasciammo in strada come oblazioni a quelli che stavano arrivando, pieni di speranza, nel luogo che noi ci accingevamo ad abbandonare. E dalla finestra guardammo i passanti che si portavano via roba. Una donna prese la lampada di lava. Due skinhead e una ragazza grassa e tatuata portarono via il divano con lo schienale insellato e la fodera di poliestere a pelle di leopardo.

“Addio, tesori,” disse Clare. Il suo alito lasciò sul vetro un guizzante filo di vapore a forma di rocchetto.

“Addio, vecchie cianfrusaglie comprate nei negozi di roba usata,” disse Jonathan. “Ci sono momenti, amore, in cui la nostalgia è assolutamente ingiustificata.”

“Io ho trascinato fin qui quel divano dalla Sessantasettesima Strada,” disse lei. “Anni fa, con Stephen Cooper e Little Bill. Portavamo quell’accidente per qualche isolato, poi ci fermavamo a riposare, poi proseguivamo per altri isolati. Ci mettemmo tutta la notte. Ogni tanto qualche battona veniva a sedersi con noi e ci scolavamo tutti una birra. Ci facemmo un mucchio d’amici quella notte.”

“E adesso sei una proprietaria di casa e una futura madre,” disse Jonathan. “Pensavi davvero di frugare tra i rifiuti di New York per il resto della tua vita?”

“Little Bill è morto,” disse lei. “Te lo avevo detto?”

“Me lo ha detto Corinne. È morto nel South Carolina, oh, sarà almeno un anno. L’avevamo perso di vista.”

“Mi dispiace. E Stephen sta bene?”

“Oh, Stephen sta benissimo. Ha aperto una gioielleria a Cape Cod. Immagino che faccia un sacco di soldi vendendo ai turisti balene e gabbiani d’oro in miniatura.”

“Be’,” disse Jonathan. “È una bella cosa. Voglio dire che per lo meno è vivo.”

“Mm-hm.”

Guardammo viaggiare il divano sulla Quarta Strada Est. Sul marciapiede sotto la nostra finestra un uomo e una donna in giacca di pelle lanciarono un urlo di gioia alla vista della vecchia pendola da cucina di Clare – una specie di boomerang di plastica gialla coperto di elettroni rossi e rosa.

“Non riesco a credere di essermi fatta convincere a buttar via la pendola,” disse Clare. “Adesso scendo e gli dico che mi sono sbagliata.”

“Lascia perdere,” disse Jonathan. “T’ammazzerebbero.”

“Jonathan, quella pendola è un pezzo da collezione. Vale un capitale.”

“Tesoro, non funziona,” disse lui. “Non segna più il tempo. Lascia che se la tengano.”

Lei annuì e seguì con gli occhi, come intontita, la coppia che si allontanava trotterellando verso First Avenue, passandosi la pendola come un pallone. Si accarezzò la pancia. Espirò vapore sul vetro.

Questo accadde più di tredici mesi fa. Ora viviamo in un campo di fronte alle montagne. Spinosi fiori blu s’arrampicano sulle assi della nostra staccionata. Avvolte nell’estasi del loro lavoro quotidiano le api ronzano in un lattiginoso cielo azzurro che incombe sfilacciato dietro gli alberi. Le montagne sono antiche. Sono state consumate dal vento e dalla pioggia. Non hanno l’anarchia o la grandiosità delle catene più fotogeniche. Gettano un’ombra uniforme – i loro dirupi non fanno pensare al digrignare di denti delle zolle continentali. Hanno una barba uniforme di pini. Ritagliano dal cielo modeste mezzelune.

“Detesto i panorami,” dice Clare. “Sono così ovvi.” È in piedi accanto a me sull’erba non falciata. È il primo aprile del nuovo decennio e lei è una nuova Clare. È più tagliente, c’è più grinta nelle sue battute. Avresti pensato che la maternità dovesse ammorbidirla.

“Ma dai,” le dico. “Falla finita, d’accordo?”

Un paio di corvi sorvolano casa nostra. Uno di loro emette un grido roco, come metallo che sfrega sul metallo.

“Avvoltoi,” dice Clare. “Mangiano carogne. Aspettano che uno di noi stramazzi al suolo dalla noia.”

Le canto sottovoce all’orecchio: “Quando arrivammo a Woodstock, eravamo mezzo milione, e dappertutto erano canti e festa.”

“Smettila,” dice lei, allontanando con fastidio la canzone, come un corvo che la molesti. I suoi braccialetti d’argento tintinnano. “Se c’è una cosa che non mi sarei mai aspettata di diventare è una vecchia hippy.”

“Si può diventare molto peggio, sai?”

“È troppo tardi. Le farfalle si stanno di nuovo trasformando in bombardieri. Non hai notato? Finiranno per costruire dei condomini su quella montagna, credimi.”

“Non penso che lo faranno. Non penso che ci saranno abbastanza clienti.”

Guarda le montagne come se vi fosse scritto il futuro a piccole lettere luminose. Socchiude gli occhi. Per un momento sembra una donna di campagna, tutta gagliardia e diffidenza, nonostante il rossetto e la maglia verdolina. Potrebbe essere mia nonna, in piedi sul confine della sua proprietà nel Wisconsin a guardare con disapprovazione la vastità di ciò che non le appartiene.

“Purché ce ne siano abbastanza per l’Home Café Christ. Non riesco ancora a credere che abbiamo deciso di chiamarlo così.”

“Alla gente piacerà,” dico.

“Oh, è così strambo. È così antiquato e... strambo.”

“Be’, in un certo senso è vero,” dico.

“Non ‘in un certo senso’.”

È così dura e pungente, così somigliante alla sua nuova personalità, che mi sento crescere dentro un empito violento di felicità. È così reale; così Clare. Faccio un rapido, spastico balletto. Non ha niente a che fare con la grazia e le severe invisibili leggi del ritmo – potrei essere una marionetta retta da un filo. Clare rotea gli occhi come una moglie. Qui c’è spazio per le bizzarrie quotidiane.

Dice: “Mi fa piacere che almeno uno di noi sia contento di questa situazione.”

“Oh, cara, che ragione c’è di non essere contenti?” dico. “Adesso siamo qualcosa. Voglio dire che non voleremo via se qualcuno di noi si mette in testa un’idea.”

“Sarebbe bello se fosse vero,” dice lei.

“Sai cosa mi piacerebbe fare un giorno? Vorrei sistemare il capanno come una casetta indipendente, in modo che Alice ci si possa trasferire quando sarà stufa del servizio di ristorazione.”

“Ma certo. Costruiamo anche un villino per la mia vecchia maestra di quarta elementare.”

“Clare?”

“Mm-hm?”

“Tu qui sei veramente felice, no? È la nostra vita, voglio dire. Giusto?”

“Oh, certo. È la nostra vita. Tu mi conosci. Io penso in termini di lamentele. È così che funziona il mio cervello.”

“Vero.”

Restiamo un po’ a guardare le montagne, poi ci giriamo verso la casa. È talmente vecchia che perfino gli spiriti si sono fusi nelle pareti. La si sente abitata non dall’infelicità personale di qualcuno ma dalle esistenze di dieci generazioni, dei loro pasti e delle loro liti, delle nascite e degli ultimi respiri. Adesso, in questo preciso momento, è uno sciagurato connubio di delusioni vecchie e nuove. Le assi dei pavimenti si stanno sgretolando e la cucina ristrutturata è tutta linoleum arancione e armadietti di finto legno in stile spagnolo. L’intenzione è di sistemarla piano piano, con i futuri proventi del ristorante. Noi siamo forze dell’ordine, venute dalla città con competenze e strumenti e fede in un futuro generoso. Jonathan e Clare guardano la casa, immaginando cosa potrebbe diventare. Parlano di infissi d’antiquariato, di eight-over-eights, di una mensola di calcare da recuperare in una casa sull’Hudson e da far portare qui in camion. Io non sono contro il progresso, ma la casa mi piace così com’è, con i pavimenti crivellati dagli insetti e i rivestimenti a pannelli di legno venato che suggeriscono un’idea di sofferenza e pigrizia tramutate in materiali d’arredamento. Poggiata su quattro acri pieni d’erbacce, la casa corrisponde alle vecchie montagne. È anch’essa docile e levigata. È stata umiliata dal tempo.

“Stavo pensando,” dice Clare. “E se dipingessimo di blu i vetri delle finestre? Un blu cobalto, capisci? Credi che sarebbero troppo leziosi?”

“Chiedilo a Jonathan. È lui che s’intende di queste cose.”

Lei annuisce. “Bobby?” dice.

“Uh-huh?”

“Oh, non so. Cammino per la casa e ho sempre la sensazione di trovarmi sull’ala di un aereo. A diecimila metri. Vorrei che a te e a Jonathan sembrasse strano come a me.”

In casa, la bambina comincia a piangere. “È proprio questo il punto,” dice Clare. “Io ho sempre fatto i miei sbagli. Non avevo mai dovuto preoccuparmi di qualcun altro fino a questo punto.”

“Non devi preoccuparti. Va tutto bene. Fidati di me. Okay?”

Annuisce perplessa. Continua a perdere la battaglia che la porterebbe a decidere anziché a preoccuparsi. La preoccupazione è ciò che contribuisce a renderla irascibile; sta cercando di sviluppare una personalità che corrisponda alle sue aspettative peggiori.

“Andiamo a vedere come se la cava Jonathan con lei,” dice.

“Okay. Certo.”

Entriamo in casa insieme. La porta si apre sul soggiorno, un grande e malconcio triangolo ancora tappezzato di accigliate aquile rosse e tamburi blu. A quest’ora è pieno di squarci di luce che entrano obliqui da tre lati. Jonathan sta camminando in cerchio con Rebecca appollaiata sulla spalla. La bambina geme, una serie di brevi grida laceranti simili a singhiozzi soffocati.

“Una crisi di rabbia misteriosa,” dice. “I pannolini sono a posto e ha mangiato solo mezz’ora fa.”

“Lascia che provi io,” dice Clare.

Jonathan non riesce a nascondere la sua riluttanza. Non gli piace cedere la bambina, neppure ai suoi sogni. Ma quando Clare allunga le braccia, gliela passa.

Clare la stringe a sé, le parla sussurrando. “Ehi, amore. Che c’è? Un piccolo attacco di disperazione esistenziale?”

Rebecca è una creatura di nove chili con capelli soffici e furiosi occhi scuri. A undici mesi ha già un suo carattere. Resiste alla risata e al pianto finché non la travolgono, e a quel punto s’abbandona completamente.

Clare passeggia in soggiorno con lei, sempre sussurrando. Parla alla piccola come a me e a Jonathan, con frasi compiute, ma senza sottofondi di rabbia.

“Su, signorina Rebecca, non sei per niente ragionevole. Ma perché dovresti esserlo? Gesù, se mai mi mettessi a tormentarti per farti diventare ragionevole, mi farai il favore di spararmi?”

Jonathan guarda in un’estasi di tensione e d’affetto. Ha scoperto il suo tormentato attaccamento per la piccola. Io e Clare reagiamo con più calma alla fragilità di Rebecca e ai suoi infiniti bisogni. Jonathan non ha mai avuto requie da quando lei è al mondo. È un esempio vivente di come l’amore possa sconvolgere i nervi.

Adesso ha qualcosa di vitale da perdere. Adesso c’è una piccola vittima per ogni tragica storia che lui può raccontarsi.

Poiché Rebecca non vuole calmarsi, la portiamo fuori. È immersa nel pianto come un motoscafo nel rumore e negli spruzzi. Camminiamo con lei nella proprietà, e lasciamo che le sue grida si disperdano nell’aria di mezzogiorno. Jonathan raccoglie una margherita. La fa girare davanti alla rossa faccia smunta della piccola.

“Ehi, bambola,” dice. “Ehi. Da’ un’occhiata a questa cosetta sbalorditiva, senza precedenti.” Fra tutte le sue attrattive, quella che Jonathan predilige è la capacità di stupirsi. Si mette quasi a piangere quando lei strabuzza gli occhi davanti a un gomitolo di filo o a un cucchiaino da tè che raccoglie il sole. Lei però continua a singhiozzare, direttamente nella margherita.

“Non si può comprarla con i fiori,” dice Clare. C’è un autentico orgoglio nella sua voce. Se Jonathan ama la bimba perché è il miglior pubblico del mondo, Clare ne apprezza la caparbia insistenza con cui protegge i propri misteri.

Ci inoltriamo nel boschetto dietro casa. Qui, in quest’ombra senza fine, non c’è praticamente erba, ma solo gli scarti della foresta – pigne e rami caduti, escrementi di cervi. Camminiamo fra gli alberi silenziosi con il baccano di Rebecca che ci segue come una scia luccicante.

Clare dice: “Ragazzi, l’avete chiamato l’idraulico?”

“Certo,” dice Jonathan. “Ma non ha tempo per noi prima di martedì l’altro. Perché non mi lasciate provare ancora?”

“Merda. Questa casa sarà finita solo nel prossimo secolo. Lo sapete, no?”

“Non c’è fretta,” dice Jonathan. “Vieni qui, Rebecca.”

Allunga le braccia verso di lei. Ma Clare la tiene stretta. “Non c’è fretta,” dice. “Vuoi dire che continueremo a scaldare l’acqua sulla stufa per tutta la vita?”

“Siamo dei pionieri,” dice Jonathan. “Non puoi aspettarti di avere in un batter d’occhio tutte le comodità urbane.”

“Credo che voi due siate una specie di ritardati,” ribatte lei. “Davvero.”

Corre davanti a noi, con la bambina stretta al seno, addentrandosi nei boschi. Sbarre di luce, spezzate dai rami di pino, ci sovrastano massicce. Jonathan le va dietro, come se credesse che Clare progetti di portar via Rebecca e crescerla da sola nella natura.

Il nostro ristorante aprirà fra meno di una settimana. Jonathan e io lavoriamo tutto il giorno per gli ultimi ritocchi. Non è niente di grandioso, un semplice locale con nove tavoli in un ex saloon. L’abbiamo ricostruito con la stessa trepidazione di due spose corteggiate per posta, appena arrivate alla frontiera. L’abbiamo dipinto di bianco e abbiamo appeso tendine a strisce. Jonathan ha coperto le pareti di vecchie fotografie: gruppi scolastici di ragazzi in cravatta a farfalla e fanciulle in grembiulino, uomini e donne in bermuda scozzesi che posano abbronzati sulla riva di un lago, una nonna che spala la neve. Ha anche appeso un salmone da primato catturato nel 1957 e uno scaffale pieno di trofei con uomini e donne d’oro lucente, nudi e asessuati come angeli, che rappresentano l’umana eccellenza nel bowling, nel golf, nel badminton e nelle virtù civiche. Sarà un locale alla buona, soltanto prima e seconda colazione. Abbiamo comprato tavoli e sedie scompagnati negli stessi negozi di roba usata dove abbiamo trovato i trofei, le fotografie e il salmone laccato.

“Venite tutti,” dice Jonathan. “L’Home Café sta per aprire.” Spalma vernice bianca su una crepa della modanatura. Indossa una tuta e porta i capelli legati indietro a coda di cavallo.

Io sono in cucina a caricare sugli scaffali vasi da due chili di conserve e ketchup. “Non ci hanno mandato la marmellata di fragole,” dico. “Ne hanno mandato metà di more e metà di pesche.”

“Gli farò una scenata per telefono. Probabilmente credono di poterci rifilare tutto quello di cui vogliono sbarazzarsi, convinti che non sappiamo quello che stiamo facendo.”

Una volta sistemati i vasi sugli scaffali, me ne sto al banco a guardare Jonathan che dipinge. “A sentire Clare, questa situazione dovrebbe apparirci strana,” dico.

“Lo è. Chi è che pensa che non lo sia?”

“Be’, secondo lei, credo, dovremmo essere un po’ più preoccupati.”

“È in ansia solo perché è lei che paga i conti. Ha aspettato tutta la vita di avere questi soldi, e adesso, hop, eccoli spesi.”

“Eccoli investiti, vorrai dire,” ribatto.

“È vero. Da un po’ di tempo, è un po’ rompicoglioni, non trovi?”

“Oh, non so se direi mai una cosa simile.”

“La dirò io. Clare è una rottura ormai da un pezzo. Da quando è rimasta incinta.”

“Be’, sai com’è.” Infilo una nuova cassetta nell’impianto sonoro. Jimi Hendrix canta Are You Experienced?

“Immagino che si riprenderà,” dice Jonathan. “La maternità è difficile per tutti. So che lo è per me.”

Prendo un pennello e lo aiuto con i ritocchi. Jimi butta fuori il suo ringhio vellutato, una voce viva dal mondo dei morti, mentre Jonathan e io copriamo le ultime tacche. Ondeggiamo seguendo la musica. C’è una sorta di piccola perfezione nel dipingere insieme una parete mentre la musica di Jimi vaga per la stanza. C’è una congiunzione di tempi, il passato che si riversa nel futuro. Mi viene in mente all’improvviso, come una specie di sorpresa: ho avuto quel che volevo. Un fratello con cui lavorare. Un futuro differente che brilla come una lampadina sopra le nostre teste.

C’è qualcosa di indicibile tra noi: Jonathan e io facciamo parte di una squadra talmente antica che nessun altro potrebbe entrarvi anche se noi lo volessimo. Adoriamo Clare, ma lei non è del tutto nella squadra. Non esattamente. Ciò che ci lega è più forte del sesso. È più forte dell’amore. Siamo imparentati. Ciascuno di noi è l’altro nato in una carne differente. Possiamo amare Clare, ma lei non è noi. Noi soltanto possiamo essere noi stessi e contemporaneamente l’altro. Stendo la vernice su un vecchio sfregio. Le facce ombreggiate dei ragazzini delle elementari, oggi tutti quarantenni o cinquantenni, ci guardano dalle pareti con un ottimismo tutto denti e occhi limpidi.

Dopo aver chiuso il ristorante, Jonathan e io raggiungiamo la nostra macchina passando per la strada principale. Io preferisco camminare in mezzo alle cose. È a me che piace questa città. Mi sono messo in cammino per Woodstock da quando avevo nove anni, e adesso che ne sono passati venti ci sono arrivato. Aveva ragione mio fratello – c’è ancora gente qui. Il concerto, ho scoperto, si tenne a cento chilometri di distanza, in un vasto spiazzo erboso. Uno spazio vuoto cinto di alberi nero-verdi. Jonathan e io cerchiamo di nuotare nello stagno color cioccolato mentre Clare siede con Rebecca fra le erbacce, ma le zanzare costringono tutti a tornare alla macchina. Finiamo per pranzare in quello che Clare credeva fosse lo stesso locale dove era andata col suo futuro marito quando erano scappati dal concerto. Ha detto che gli hamburger venivano serviti con tre sottaceti e una busta sigillata di ketchup, ed è ancora così.

Woodstock è ciò che avrebbero dovuto diventare le cittadine prima che il vecchio futuro finisse su un binario morto e ne prendesse il posto uno nuovo. Romantici barbuti strimpellano ancora le loro chitarre sulla piazza principale, sognando ancora di essere creature della foresta o apprendisti stregoni. Vecchie signore con i capelli grigi sciolti e ricciuti ciondolano il capo a tempo di musica sulle panchine. Clare definisce tutto questo patetico e Jonathan non se ne occupa, ma io apprezzo la grazia di queste strade tranquille e l’allegra determinazione della gente di vivere in maniere che sono in gran parte improprie.

Torniamo a casa sulla nostra vecchia Toyota, su e giù per i dossi, con le ombre dei rami che ondeggiano sul parabrezza. Jon siede spaparanzato al posto del passeggero, con le scarpe di tela sul cruscotto. “Ti dirò cosa c’è di veramente strano in tutto questo. Ciò che è veramente, realmente strano è che lo stiamo facendo. Tanti parlano di trasferirsi in campagna e di aprire un ristorantino, ma chi è che lo fa davvero?”

“Noi,” dico.

Arrivati in cima all’ultima collina, freno di colpo. “Che c’è?” domanda Jonathan.

“Niente. Voglio solo star qui un momento a guardare.”

Dal punto dove mi sono fermato possiamo vedere la nostra vecchia casa marrone che drizza il suo camino tra una profusione di ginepri. Tre abbaini colgono la luce che fra poco si rifugerà dietro le montagne, e tremola l’edera cresciuta incontrollata per decenni, le foglie mostrano venature argentee. La casa ha retto per più di un secolo senza cedere al paesaggio. Nessun viticcio è riuscito a insinuarsi nella sua muratura, nessun lago sotterraneo è straripato infiltrandosi nelle fondamenta. Benché io di solito canti per prendere in giro Clare, eseguo ora la canzone di Woodstock a beneficio di Jonathan, con un atteggiamento semiserio che è tanto più gradevole perché è serio solo per metà. “Noi siamo polvere di stelle, noi siamo d’oro e noi dobbiamo tornare nel giardino.” Lui ascolta qualche battuta, poi mi fa il controcanto.

A cena parliamo del ristorante e della bambina. Da qualche tempo le nostre vite sono consacrate all’attualità – ci preoccupiamo della tosse di Rebecca e della consegna del nostro grande frigorifero, usato ma rimesso a nuovo. Comincio a capire la vera differenza fra giovinezza ed età matura. I giovani hanno tempo per far progetti e farsi venire in mente idee nuove. I più anziani hanno bisogno di tutte le loro energie per reggere al passo di ciò che è già stato avviato.

“Non mi piace il dottor Glass,” dice Clare. Seduta accanto al seggiolone di Rebecca, le sta ficcando in bocca cucchiaiate di budino alla vaniglia. Fra un boccone e l’altro, la bambina guarda il cucchiaio con diffidenza, controllandone più volte il contenuto. Ha ereditato il mio appetito, ma anche lo scetticismo di Clare. È insieme famelica e guardinga.

“Perché?” domando.

“Be’, è un hippy. E non può avere più di trentacinque anni. Avrei preferito portare Rebecca da un vecchio barbogio. Uno con belle scarpe comode che ha guarito tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle da malattie come il morbillo e la rosolia quando erano piccoli. Quando Glass mi dice di non preoccuparmi per questi accessi di tosse, continuo a pensare: ‘Chi mi fa questi discorsi è un uomo in Birkenstock.’”

“Sono d’accordo,” dice Jonathan. “Glass fa Tai Chi. Preferirei uno che giocasse a golf.”

“A me Glass sembra a posto,” dico io. “Voglio dire che mi piace. È uno con cui puoi parlare.”

Jonathan dice: “Immagino, se vogliamo venire al sodo, che quello che veramente vuoi è che il medico di tua figlia sia una sorta di figura paterna. Sai cosa voglio dire? Uno che non segue le mode.”

“Amen,” dice Clare. “Domani andrò a cercare un nuovo pediatra.”

“Io sono convinto che Glass sia bravo,” dico.

Clare tiene un cucchiaio di budino a un paio di dita dalla bocca spalancata di Rebecca. “Voglio provare qualcun altro,” dice. “Glass m’innervosisce. È troppo accomodante per me.”

“Be’, okay,” dico.

“Okay.” Infila il cucchiaio in bocca a Rebecca con tranquilla ed esperta precisione. Clare si sta trasformando nel personaggio di Mamma di quando facevamo gli Henderson. Noi non parliamo più degli Henderson, forse perché la differenza fra la nostra vita reale e la loro vita ipotetica è rimpicciolita oltre il punto in cui si può ancora misurarla.

Più tardi, messa a letto Rebecca, guardiamo insieme la televisione. Con una bambina piccola è la sola cosa che si possa fare di sera in campagna. Ce ne stiamo sdraiati sul lettone circondati da chicchi di granturco abbrustoliti, birra e Diet Coke. Le camere del piano di sopra sono buie e accoglienti. I soffitti seguono la curva del tetto. Gli ultimi proprietari – quelli che arredarono il pianterreno con aquile sulla tappezzeria e armadietti di stile spagnolo – dovevano aver finito i soldi una volta arrivati alle scale. Quassù lo squallore ha una patina più evidente. In questa stanza la tappezzeria brulica di fiori sbiaditi dall’aria carnivora e le veneziane penzolano da corde sfilacciate che hanno il colore del tè scuro. Clare passa continuamente da un canale all’altro. Abbiamo l’antenna parabolica, una potente calamita che risucchia tutti gli impulsi invisibili di passaggio sopra le nostre teste. Oltre alle stazioni normali, prendiamo spettacoli di spogliarello da New York, telenovelas messicane, donne giapponesi che fanno allegramente dimostrazioni di invenzioni così complesse che solo altri inventori possono davvero apprezzarle. Occasionalmente ci sintonizziamo su un canale tremolante, a puntini bianchi e neri, che fa quasi paura – sembra che uomini e donne camminino e basta, in un campo deserto. Potrebbe essere una trasmissione captata da noi per sbaglio, proveniente da un mondo che non dovremmo vedere.

“Centoventi stazioni e non c’è niente da vedere,” dice Clare.

“Niente alla TV stasera, allora scopiamo,” dice Jonathan.

Clare lo guarda con le sopracciglia arcuate e gli occhi infossati. “Scopate voi due,” dice.

Jonathan le salta addosso e simula una copulazione frenetica, da coniglio. “Oh baby oh baby oh baby,” geme.

“Via,” dice lei. “Via da me. Dico sul serio. Sbattiti Bobby.”

“Oh baby,” dice Jonathan.

“Bobby, fallo smettere,” dice lei.

Alzo le spalle impotente. “Mi metterò a gridare,” dice Clare. “Chiamerò la polizia.”

“Per dirle cosa?” domanda Jonathan.

“Che due uomini mi tengono prigioniera in questa casa. Che mi hanno attirata qui per farmi procreare e mi costringono a vivere in un eterno 1969.”

“Adesso hai procreato,” dice Jonathan. “Se venendo qui non avevi altro scopo, noi con te abbiamo chiuso.”

“La bambina ha ancora bisogno di latte, no?” dice Clare. “E la casa ha bisogno di una mamma. No?”

Jonathan fa una breve pausa per riflettere. “No,” dice. “Sei libera di andartene.” Rotola via da lei e prende il telecomando. “Vediamo se stasera c’è qualcosa di buono da Giove.”

“Se me ne vado, mi porto via la piccola.”

“Oh no che non te la porti via,” risponde lui. Poi si ricorda di moderare il tono. “Lei è di tutti,” dice più gentilmente.

Clare si tira indietro, piega la testa verso di me. “Bobby?”

“Uh-huh?”

“Mi piacerebbe conoscere il segreto della tua calma imperturbabile. Siamo nel pieno di una situazione estremamente singolare ed eterodossa, in una casa che potrebbe crollarci addosso da un momento all’altro, Jonathan e io stiamo litigando per il possesso di mia figlia...”

“Di nostra figlia,” la interrompe Jonathan. “Devi proprio smetterla, Clare, con questo tua.”

“Per il possesso di nostra figlia,” dice lei, “e tu te ne stai lì come Dagwood Bumstead. Certe volte penso che sia tu che arrivi da Giove.”

“Forse lo sono,” dico. “Voglio dire che niente di tutto questo mi sembra strano.”

Clare alza lo sguardo verso il soffitto, con occhi dilatati che sembrano uscire dalle orbite. “Avrei dovuto capirlo,” dice. “Avrei dovuto immaginarlo fin dalla prima volta che ti ho visto, con i capelli asciugati dal vento e i jeans Calvin Klein. E poi quasi dall’oggi al domani riuscisti a trasformarti in un hippy del Village. È buffo. Si viene a scoprire che siamo Jonathan e io i veri conservatori. Siamo noi che abbiamo bisogno di guardarci allo specchio e di sapere che cosa vedremo giorno dopo giorno. Mentre tu puoi fare qualsiasi cosa, vero?”

“No. Non posso fare qualsiasi cosa.”

“Dimmene una che non faresti.”

“Be’, non vorrei star solo. Non lo sono più stato, vedi, da quando ero ragazzo.”

“Ecco,” dice lei. “Tu sei un tipo socievole, no? Tu rispecchi i desideri di tutti. Oh, perché non me ne sono accorta subito? Quando vivevi con i genitori di Jonathan eri un bravo ragazzo dell’Ohio, quando vivevi nell’East Village eri uno trendy, e adesso che vivi in campagna sei una specie di papà hippy. Tu dai agli altri esattamente ciò che loro vogliono. Non è così?”

“Non so.”

Ci sono cose che non posso confessarle, cose che non saprei esprimere. Faccio parte dei vivi e faccio parte dei morti. Vivo per altre persone e non solo per me.

“Oh, Clare,” dice Jonathan dai piedi del letto. “Cosa sei diventata all’improvviso, una specie di Nancy Drew della psiche? Credi davvero di poter riassumere Bobby in una frase?” “Tu vai avanti nella vita a forza di frasi,” ribatte lei.

Allungo un braccio e le accarezzo i capelli. Cerco di baciare le sue labbra turbate.

“Ragazzi, ragazzi,” dice lei, sottraendosi al mio bacio. “Siamo proprio una squadra di pervertiti. Un gruppo profondamente strambo.”

“In realtà non siamo più strambi di qualunque altra famiglia,” dico. “Se non altro, ci vogliamo bene. Non sei stata tu la prima a dirlo?”

“Forse. Mille anni fa.”

Guardo la sua faccia spaventata, invecchiata. Penso di sapere che cosa le fa paura – è andata persa una certa capacità di inventare il nostro futuro. Adesso stiamo attuando un piano accidentalmente formulato su un’autostrada della Pennsylvania. Adesso le cose buone sono quelle prevedibili, e le sorprese sono sempre negative.

Poso di nuovo le labbra sulle sue. Stavolta risponde al bacio. Jonathan continua a cambiare canale, guardando pigramente e distrattamente.