Jonathan

Eravamo quasi amanti. Occupavamo insieme il luminoso regno superiore dell’amore, dove ciascuno gioisce dell’altro, ha care le bizzarrie del suo partner e gli augura ogni felicità. Non essendo amanti nell’accezione carnale del termine, non avevamo bisogno di piccoli omicidi. Clare e io ci raccontavamo i peggiori segreti e ci confessavamo le paure più assurde. Pranzavamo e facevamo compere insieme, valutavamo i meriti degli uomini che incrociavamo per strada. A ripensarci, penso che fossimo come le sorelle di certe vecchie storie; quelle dove la più giovane e carina non può sposarsi prima che qualcuno chieda la mano della più vecchia e meno attraente. Nel caso nostro però, eravamo entrambe le sorelle. Condividevamo una vita di vestiti e pettegolezzi e introspezioni. Aspettavamo, senza particolare urgenza, di vedere se qualcuno ci avrebbe chiesto un altro tipo d’amore, quello più terrificante e travolgente.

Per tre anni avevamo vissuto insieme in un appartamento al quinto piano di una casa senza ascensore nella Terza Strada Est fra le Avenue A e B, dove le donne portoricane discutevano in spagnolo e gli spacciatori andavano e venivano in continuazione dal seminterrato. Giovani drogati di una straziante bellezza ballavano all’angolo, davanti a radio enormi. Abitavamo lì perché costava poco e perché – ce lo confessammo una notte in cui eravamo ubriachi – ci sembrava più interessante dei quartieri più sicuri della città. Avevo anche ammesso che consideravo la zona una fonte di aneddoti da raccontare in quella vita migliore ancora di là da venire. Quando lo dissi, Clare mi guardò e disse: “Credere nel futuro è una virtù disdicevole, non trovi? È come fabbricare navi nelle bottiglie. Capisci? Ammirevole certo, ma ti fa accapponare la pelle.”

Clare aveva trentasei anni, undici più di me. Viveva secondo certi presupposti che difendeva con tranquilla ma implacabile ferocia. Credeva che James M. Cain fosse il più grande scrittore americano, che la società avesse raggiunto il suo apogeo verso la fine degli anni Trenta, e che non ci fossero più uomini per una donna della sua età e con le sue caratteristiche. Se contestavi quest’ultima affermazione, replicava con la pazienza volonterosa ma quasi esausta di una brava maestra che ha davanti il suo decimillesimo allievo poco promettente. “Elimina questi,” diceva, contando sulle dita. “I gay. Gli sposati. Quelli con meno di venticinque anni. Quelli che ne hanno di più ma sono attratti soltanto da donne giovani e belle. Quelli ancora disponibili perché non si impegnano con nessuno. I semplici stronzi. Gli stupratori e gli assassini psicopatici. Bene. Chi rimane?”

Sbrigava le faccende quotidiane con ironico buonumore, come la spalla in uno sketch degli anni Trenta. Come la superstite di una guerra, che porta ancora rossetto e tacchi alti per camminare fra le macerie.

Quando era particolarmente depressa, parlavamo di avere insieme un bambino. Clare era già passata per un matrimonio, un aborto, dozzine di amanti e tre cambiamenti di carriera. Io avevo finito il college da tre anni e curavo la rubrica gastronomica di un settimanale, sicuro soltanto del desiderio che m’ispirava quello che definivo il mio amante. Di notte la nostra strada luccicava di vetri rotti. Ogni giorno un’enorme donna ispanica passava sotto le nostre finestre e andava al lavoro cantando a squarciagola canzoni sentimentali.

Una mattina all’inizio della primavera, quando un’unica pallida foglia d’edera era riuscita a farsi largo fra le sbarre della finestra della cucina, che avrebbe dovuto impedire l’accesso ai ladri, Clare, mentre beveva caffè, disse con un sospiro: “Forse mi farò tingere i capelli del loro colore naturale. Non credi che una donna di una certa età dovrebbe smetterla di cercare d’apparire eccentrica?”

Indossava un chimono da bottega d’occasione, non una delicata seta sbiadita ma un vistoso rayon rosso vivo che forse era stato comprato nuovo cinque anni prima alle Hawaii o a Las Vegas. Clare non era bella e sosteneva di essere contraria alla bellezza, in generale.

“No,” dissi. “Io credo che a una certa età tu ne abbia ancor più il diritto.” Stavo sulla soglia perché nella nostra cucina non c’era spazio per più di una persona alla volta.

“La differenza fra trentasei e venticinque,” disse lei, “è che a venticinque non puoi sembrare patetica. La gioventù è sempre un’ottima scusa. Puoi provare qualsiasi cosa, acconciarti i capelli come ti pare e andare in giro facendo una splendida figura. Stai ancora pensando di te un gran bene, e quindi è tutto okay. Ma poi diventi più vecchia e scopri che i trucchi cominciano a vedersi.”

“Insomma, si prospetta un altro sabato nero?” dissi.

“È presto per dirlo.”

“Cerchiamo d’evitarlo. È così bello fuori. Andiamo a far compere e a vedere un film, invece di pensare al suicidio.”

“Quando avremo il bambino,” disse, “che specie di capelli avrà, secondo te?”

“Di che colore dovrebbero essere i tuoi?”

“Dio mio, devo tornare un bel po’ indietro. Più o meno di un castano scuro opaco, credo. Capelli da commessa.”

“Forse il piccolo avrà i miei colori,” dissi. “È sorprendente cosa riescono a combinare dei geni deboli ma determinati.”

Sorseggiò il suo caffè. “Se devo essere proprio sincera,” disse, “ho la sensazione che i miei neri antenati romeni travolgerebbero i tuoi mesti antenati svedesi.”

“È questo che vorresti? Una versione di te in miniatura?”

“No, santo cielo. Un’altra me stessa? Ci odieremmo. Per prima cosa vorrei che il bambino avesse la tua intelligenza.”

“Non far la modesta,” dissi. “Tu sei molto in gamba.”

“Se fossi così in gamba,” disse, “non credo che a trentasei anni me ne starei in questo cucinino, cercando di scoprire il miglior modo di avere un figlio senza innamorarmi.”

Continuavamo a parlare del bambino. Non facevamo progetti, ma ne parlavamo moltissimo. Era il nostro modo di stare insieme. In passato avevamo avuto altre idee: parlavamo di creare un servizio di colazione a letto, e di trasferirci sulla costa spagnola. Discutevamo i particolari di queste iniziative con tale minuzia che finivamo per varcare un’invisibile linea di confine e cominciavamo a ritenere d’averle già realizzate; così le nostre conversazioni finivano per assumere l’aspetto di un sogno a occhi aperti. Avevamo provato a portare uova Benedict dalla Terza Strada alla parte alta di Park Avenue in un contenitore a vapore (arrivavano come un pasticcio solidificato); avevamo comprato guide turistiche e cassette per imparare lo spagnolo parlato. Non mi aspettavo che col bambino sarebbe stato diverso.

“A me per un maschio piace il nome Ethan,” dissi. “O Trevor.”

“Ti prego, tesoro,” disse lei. “Niente nomi stravaganti. Se sarà un maschio lo chiameremo Jon junior. E se sarà una femmina, che ne diresti di Mary o di Ann?”

“Perché non Clare junior?”

“Te l’ho già detto. Voglio che sia differente da me.”

La rivale di Clare era la sua stessa immagine, quell’elaborata personalità che si era inventata. Viveva a una mutevole e inquieta distanza dalla sua capacità di essere solida e arguta e “interessante”. Quando i suoi gesti erano eseguiti in maniera troppo perfetta, poteva essere leggermente grottesca – falsa e artefatta. Vedevo che questo la turbava. A volte accettava la propria immagine in un chiaro atteggiamento di sfida, guardando il mondo come se gli dicesse: “Va bene così, e allora?” Altre volte si spaventava. Era diventata così esperta che le era difficile comportarsi in modi che non corrispondessero al suo personaggio.

Conduceva, tuttavia, quella che consideravo una vita piena, interessante, e non mi piaceva sentirla denigrarsi. Era stata la moglie di un ballerino che viveva ora a Berlino Ovest e si esibiva ogni tanto a New York con la sua compagnia, accolto da applausi, fin troppo eccessivi. Era stata l’amante di una scrittrice quasi famosa. Aveva preso eroina e oppio, e tanta dexedrina che aveva dovuto disintossicarsi in una clinica di Baltimora. La mia vita, paragonata alla sua, sembrava timida e guardinga. Non mi garbava pensare che entrambe le alternative – una vita fuori misura, pericolosa, o una vita tranquilla da salariato – conducevano prima o poi allo stesso vago disagio, allo stesso convincimento che la nuova generazione avrebbe dovuto migliorare la propria sorte.

“Cosa pensi delle punizioni?” domandai.

“Personalmente? O per la bambina?”

“Per la bambina.”

“Non la picchierei mai,” disse. “Non ne sarei capace. Oh, non so, sarei probabilmente una di quelle madri che si offendono mostrandosi deluse, e la figlia vorrebbe solo che ti decidessi a sculacciarla e la facessi finita.”

Clare lavorava per un gioielliere di St. Marks Place. Aveva un talento per mettere assieme le cose più disparate – creava orecchini e spille di strass, cocci di vetro, lattine arrugginite e figurine di plastica comprate a poco prezzo nei grandi magazzini. Il suo lavoro aveva una clientela limitata ma fedele. Io ero inaspettatamente diventato il critico gastronomico di un settimanale che, nato come periodico underground, aveva avuto troppo successo per le sue attrezzature rudimentali e i suoi inesperti redattori. Quando accettai quel lavoro, appena uscito dalla New York University, lo avevo considerato un primo passo della mia vera carriera nello staff di una rivista patinata a diffusione nazionale, ma in realtà ero capitato senza rendermene conto – e quasi contro la mia volontà – al pianterreno di una buona cosa. In tre anni il giornale era passato da un umido appartamento nel quartiere dei grandi magazzini a una suite in Union Square. La redazione era triplicata. E io, da dattilografo e cronista occasionale, ero stato promosso critico gastronomico.

Il buffo era questo: non sapevo niente di gastronomia. Era stata l’ossessione di mia madre, e io mi ero violentemente rifiutato di accedere a qualsiasi granello di conoscenza sull’argomento. Quando il direttore decise di varare una sezione dedicata ai ristoranti, dicendomi che voleva fossi io a scriverla, obiettai che non sapevo neppure in cosa consistesse una quiche lorraine. Lui disse: “È proprio questo il punto. C’è tanta gente che non lo sa.” Mi offrì un aumento e uno spazio minimo di quattro colonne la settimana. Divenni così Plain John, un personaggio con mezzi relativamente modesti che apprezzava la buona tavola ma non andava in estasi se si aggiungeva inaspettatamente un pizzico di cardamomo a una purea di peperoni, che amava uscire a cena con amici o amanti una volta o due la settimana ed era disposto a provare qualcosa d’insolito se l’occasione lo richiedeva. Recensii ristoranti polacchi e cinesi, perlustrai Manhattan cercando il meglio in fatto di pizze, hamburger e pad Thai. Segnalai quali ristoranti alla moda trattavano gentilmente anche chi non era una celebrità, quali servivano porzioni ridicolmente esigue, quali impressionavano i genitori in visita da fuori città, senza però intimorirli. Clare e io ci sostentavamo grazie ai pasti pagati dal giornale, ma saldavamo il debito con le eccentricità della nostra dieta. Una settimana mangiavamo solo bruito, un’altra nient’altro che anatra alla pechinese. Clare temeva che questo monismo alimentare ci avrebbe inflitto qualche danno permanente. Portava a casa vitamine, bibite a base di aloe e proteine in polvere che si affermava venissero consumate dai famosi body-builder, i quali sogghignavano flettendo i muscoli sulle etichette a colori vivaci.

Ci dicevamo che avremmo dovuto entrambi leggere molto di fronte al bambino, anche prima che fosse grande abbastanza per capire. Concordavamo sul fatto che i genitori dovrebbero parlare francamente ai figli degli aspetti più cupi come di quelli più piacevoli della vita.

L’altro mio quasi amante si chiamava Erich. Insieme facevamo sesso, ma non m’ispirava né quel bisogno impellente, né quella dolorosa entusiasmante tensione che, uniti al desiderio, dovrebbero comporre l’amore. Con Erich non perdevo la testa. Per essere sincero, da quando avevo lasciato Cleveland non mi ero mai innamorato di un uomo con cui andavo a letto, né mi ero mai avvicinato a questo sentimento, pur avendo conosciuto dozzine di corpi di ogni genere e condizione. In realtà la mia personale capacità di devozione si concentrava su Clare e, ipoteticamente, su certi uomini che vedevo camminare per strada: uomini d’aspetto vigoroso che non aspiravano a una fama o a una felicità convenzionali, ma fendevano l’aria con assoluta noncuranza. Osservavo, con la massima discrezione possibile, i punk in stivali militari neri, gli accigliati ragazzi italiani, e i duri capelloni di provincia venuti a New York con la speranza di confermarvi la loro fama di criminali.

Sapevo che i miei interessi non erano realistici, anzi probabilmente malsani. Ma resistevano caparbiamente – erano la geografia del mio desiderio. Un ragazzo particolare che vedevo ogni tanto davanti all’edicola all’angolo, con la chioma scarmigliata e un’espressione irritata, era in grado di eccitarmi sfiorandomi un gomito con la sua manica. L’uomo con cui andavo a letto mi sembrava invece vago e distante.

Erich e io facevamo l’amore una o due volte la settimana, di solito nel suo appartamento nelle East Twenties. Ci eravamo conosciuti due anni prima, nel ristorante dove lui si occupava del bar. Quella settimana stavo passando in rassegna i ristoranti gay – avrei valutato nella mia rubrica i locali dove i lettori gay potevano andare con i propri amanti se volevano prendersi la mano attraverso il tavolo. Quella sera avevo mangiato da solo, e mi ero fermato al bar per bere un brandy prima di andarmene. Il bar non era affollato, ma il barista lasciò passare quasi cinque minuti prima di chiedermi cosa desideravo. Se ne stava chino all’altro estremo del banco, con le braccia incrociate come una massaia fiamminga che si sporge dalla porta di casa, e ascoltava con continui e decisi cenni d’approvazione quel che gli stava raccontando un signore anziano con gioielli d’oro e una sciarpa verde smeraldo. Aspettavo guardando il culo piccolo e sodo del ragazzo, che si contraeva in controritmo rispetto ai suoi cenni d’assenso.

Infine il vecchio che gli raccontava la storia piegò la testa nella mia direzione e disse: “Credo che tu abbia un cliente.” Il barista si girò con aria sorpresa. La sua faccia era sottile, il naso e il mento troppo a punta per i canoni estetici consueti, ma aveva un bel colorito e occhi azzurri limpidi e innocenti come quelli di un bimbo. Quel tipo di faccia che, data una certa propensione alla vanità, poteva essere oggetto d’angoscia davanti a uno specchio – una faccia capace di passare in un attimo dalla bellezza alla bruttezza e viceversa. New York è piena di facce del genere, quelle non esattamente belle di giovani che, troppo coccolati dalle proprie madri, sono convinti, con un ottimismo indistruttibile – anche se leggermente intimidito – di potersi costruire un futuro con il loro aspetto.

“Ops, mi scusi,” disse. “Cosa posso servirle?”

Ordinai un brandy. “Stasera gli affari vanno un po’ a rilento?” domandai.

Annuì, versando il brandy in un napoleone. L’uomo anziano con la sciarpa verde smeraldo prese una sigaretta dal pacchetto che aveva posato sul bancone e l’infilò in un corto bocchino d’oro con elaborata meticolosità.

“Vanno un po’ a rilento in generale,” disse il barista.

Sospettai che il ristorante non sarebbe durato molto. Aveva un’aria di declino, e io sapevo già più o meno cosa avrei scritto l’indomani nella mia rubrica. Certe frasi si erano già presentate nella mente: “Un’anonima zona delle Fifties che serve pasti normali e un tantino imbarazzanti”, “Come uno spettrale transatlantico che entri in porto a mezzanotte ogni cento anni”. Era il tipo di locale dove poteva portarti una vecchia e ricca zia, solo che i clienti erano uomini anziani e famelici ragazzi dagli occhi luminosi, anziché mature signore in pelliccia e spille.

“Be’, se devo essere sincero,” dissi, “questo posto fa un po’ paura.”

Mi servì il brandy su un tovagliolo da cocktail, e gettò un’occhiata al vecchio signore che stava soffiando languidi pennacchi di fumo dalle narici. “Non è addirittura il più repellente?” disse sottovoce. “Io sto cercando un altro posto.”

“Probabilmente è una buona idea,” dissi.

Gettò un’altra occhiata al fumatore e rimase dalla mia parte del bar. Incrociò le braccia sul bancone e annuì.

“Ti sorprenderebbe quanto è difficile trovare un posto da barista,” disse. “Voglio dire in un buon locale, naturalmente. Tu non c’eri mai venuto, vero?”

“No.”

“Non mi sembrava d’averti mai visto.”

Un’attenta indagine si svolse per un attimo dietro i suoi chiari occhi azzurri. Stava cercando, senza troppa convinzione o curiosità, di capire chi fossi. Immaginai che il bar fosse frequentato da giovani in cerca d’incontri redditizi. Io non ero abbastanza bello per essere in vendita e non avevo neppure l’aspetto florido di un possibile acquirente.

“Volevo solo provarlo,” dissi. “Non si possono frequentare sempre gli stessi locali.”

Annuì, per nulla convinto. Non era un ristorante dove si potesse capitare per caso; né il tipo di locale per chi non avesse altri motivi.

“Tu, uhm, lavori qui vicino?” domandò.

“In centro,” dissi. “Mi trovavo a passare da queste parti. Sono uno scrittore.”

“Davvero? Che cosa scrivi?”

Dissi il nome del giornale e lui annuì con particolare entusiasmo. Il giornale era allora sulla cresta dell’onda. “Cosa scrivi?” domandò ancora.

“Oh, varie cose. Senti, smonti presto?”

“Be’, chiudiamo fra un’ora.”

“Vuoi che c’incontriamo per bere qualcosa in un posto un po’ meno squallido?” domandai.

“Be’, okay,” disse lui. “Sì, voglio dire.”

“Io mi chiamo Jonathan.”

“Io sono Erich. Mi chiamo Erich.”

Annuì pronunciando il suo nome. I suoi occhi persero la loro incertezza. Era questo il mio obiettivo segreto – ero lì per rimorchiare il barista.

Andai a fare una passeggiata e un’ora dopo c’incontrammo in un bar delle Thirties. Era arrivato prima lui. Stava al bar con una bottiglia di Budweiser, fingendo di interessarsi al film di Esther Williams sul video. Mi disse “Salve” con un lieve cenno del capo, come per approvare il suo stesso saluto.

Ordinai una birra e avviammo faticosamente una conversazione. Parlammo delle solite cose, ci fornimmo brevi resoconti delle nostre origini e delle nostre ambizioni. Era un mercoledì sera e il bar non era molto affollato. Sul video, ballerine in technicolor si pigiavano in un mondo d’acquamarina, riempiendo la sala di una colorata e mutevole penombra. Erich era tutto nervi e disattenzione, quel tipo di persona che fa a brandelli i tovaglioli di carta e batte i piedi e si lascia sfuggire metà di quel che gli si dice. I suoi capelli si stavano già diradando sul cocuzzolo – mi sorprese scoprire che aveva tre mesi meno di me.

Dopo quello che ci parve un intervallo decente – due birre – andammo nel suo appartamento sulla Ventiquattresima, dove mi fece la sua seconda sorpresa.

A letto era favoloso. Non c’è altro modo di definirlo. Sembrava letteralmente trasfigurato. Conversando, era agitato e sfuggente, con una tendenza a pause aritmiche e a occasionali scoppi di risa. Ma una volta spogliato, acquisiva la fluida sicurezza di un ballerino. Il suo corpo era modesto e nerboruto, con le braccia solcate da vene e una cassa toracica prominente. Quella prima notte, una volta entrati nel suo studio (un monolocale con cucinino e bagno), si denudò con la rapidità di chi indossa uno di quegli abiti facilissimi da aprire che portano i comici. In un attimo, da vestito che era, mi si presentò nudo, mentre mi stavo ancora slacciando l’ultimo bottone della camicia.

“Ehi,” dissi, “come hai fatto?”

Sorrise e mi aiutò a spogliarmi. I suoi movimenti erano rapidi ed efficienti ma delicati. Aveva bruscamente sostituito a quei modi volubili e vaghi una pacata concentrazione e una calma e garbata competenza. Mi slacciò i jeans e li fece teneramente scivolare fino alle caviglie, mi avvolse le braccia intorno alla vita e mi sollevò sul letto, tradendo appena lo sforzo.

Non era lui che mi eccitava. Era l’idea di far sesso, la naturalezza della cosa – ero uscito e avevo trovato uno, un uomo che non aveva niente di eccezionale e con il quale potevo fare ciò che mi garbava. Lo ammetto – c’era una vena di sadismo nel mio desiderio. C’era un’ombra di vanità. Sceglievo uomini qualsiasi che non mi avrebbero respinto; che si sarebbero sentiti fortunati di avermi. Non mi eccitava la vista dei loro corpi – che potevano essere massicci o scheletrici, ma sempre grati e imbarazzati – quanto il fatto di averli conquistati. Quando Erich mi depose sul suo letto, ero insomma eccitato in quel modo generico, indeterminato che mi era divenuto familiare. Lo avrei lasciato padrone di guidare il nostro rapporto, ma sarei uscito vincitore dal suo appartamento. Una parte di me se n’era già andata, perfino adesso che i nostri petti si toccavano per la prima volta e le gambe annaspavano cercando una posizione. Io ero più importante di questo. La mia era un’eccitazione nervosa e non del tutto gradevole, come uno sciame d’api all’interno del petto.

Erich strofinò il viso su una mia spalla, fece scorrere delicatamente le dita sulle mie costole. Aveva un tocco secco, friabile. C’era qualcosa di dolce nella sua coscienziosità e nella stempiata, sfuggente bellezza. C’era qualcosa di terribile.

Per un po’ rimase steso su di me, tempestandomi il petto di baci. Poi girò abilmente i nostri corpi e mi trovai sopra. Per la prima volta lo osservai a fondo. Era magro ma con una grossa ossatura, con un addome più peloso del petto. Il suo cazzo pendeva sulla destra e tutt’intorno gli girava una vena frastagliata. Il suo stomaco magro e peloso e il suo cazzo obliquo mi ispirarono un’improvvisa ripugnanza. Con gli estranei avevo di solito un momento di shock come questo, quando coglievo a pieno l’intimità dei loro corpi. Guardando l’esile torso di Erich, mi sentii come se lo avessi sorpreso in una situazione imbarazzante. Vidi la sua alterità e passai in un attimo dall’eccitazione al disgusto. La mia agitazione s’inasprì e cominciai a bluffare ficcandomi in bocca il suo cazzo con gli occhi chiusi. Stavo già pensando di tornare a casa per bere qualcosa con Clare. Già nel momento in cui accadeva, era una storia che le avrei raccontato. Avremmo entrambi scosso il capo, discutendo della sconcertante rarità dell’amore.

“Rilassati,” sussurrò Erich. Non potevo rispondere con la bocca piena. E quando lo ridisse, alzai la testa e replicai: “Sono assolutamente rilassato, grazie.” Lo avrei fatto venire in fretta, sarei venuto a mia volta e sarei tornato padrone di me, libero per la strada.

Scivolò via, invitandomi a mettermi a pancia in giù sul materasso. “Sei troppo teso,” disse. Obbedii con scetticismo, e allora cominciò a massaggiarmi la schiena, percorrendo con la punta delle dita le curve delle mie spalle e della mia spina dorsale. “Sei molto teso,” disse. “Lo sento da qui.”

Con scarsa convinzione, mi affidai alle sue mani. Non mi piaceva sentirmi dire che ero teso – era come se avesse scoperto una crepa nella mia persona. Nei miei incontri sessuali assumevo sempre un’identità che non era esattamente la mia. Quando facevo l’amore ero come un mio ipotetico fratello maggiore, un uomo forte e un po’ cinico che viveva avventurosamente, senza i dubbi da coniglio che tormentavano l’altra parte di me. Alla mia scrivania o in metropolitana, fantasticavo di uomini possenti e collerici che avevano bisogno di me per alleviare la loro sofferenza. A letto con docili estranei pensavo solo ad arrivare in fretta all’orgasmo e a squagliarmela.

Erich mi manipolò la schiena con ardente delicatezza; le sue dita seguivano abilmente la confluenza fra tendini e ossa. Quando accennai alla sua perizia, disse: “Ho seguito un corso su questo.” Avrei appreso in seguito che credeva nella necessità di ottenere riconoscimenti ufficiali. Era uno studioso diligente del mondo in generale e amava che le cose venissero suddivise in sequenze. Aveva anche seguito corsi di francese parlato, di scrittura creativa e di cucitura di trapunte.

Grazie alle sue cure, mi rilassai quasi contro la mia volontà. Senza averlo deciso, mi addormentai all’improvviso. Non era assolutamente nelle mie abitudini. Ma avevo continuato a far tardi la notte e a lavorare molto di giorno. Fu una sensazione simile alla perdita di conoscenza sotto anestesia. Un momento ero sveglio e stavo guardando la fotografia incorniciata di due sconosciuti dalla faccia insipida sul comodino; un attimo dopo venivo destato dal sonno con un bacio.

Sussultai e mancò poco che cadessi dal letto. Per un attimo persi il contatto con le cose. Dov’ero e di chi era quella mascella che odorava di colonia. “Sss,” sussurrò lui. “Va tutto bene.”

“Oh Dio, mi ero addormentato?” domandai. Ero intontito e pieno di vergogna. Avevo russato? Avevo sbavato?

“Solo per un paio di minuti,” disse lui. Mi baciò sul collo e gentilmente ma con decisione si sistemò fra le mie gambe.

“Non posso crederci. Non mi era mai successo.”

“Rimani rilassato. Stai sognando.”

Obbedii, non so per quale ragione. Benché l’istinto mi spingesse a tornare in me, a liquidare in fretta la faccenda sesso e a occuparmi di nuovo dei fatti miei, decisi di rilassarmi. Provai allora un piacere sorprendente e squisito. Lasciai l’iniziativa a Erich e il nostro far l’amore fu come se davvero stessi sognando. Portò a termine la cosa come perseguiva ogni suo progetto, con l’attenzione scrupolosa di uno studioso. Se al nostro accoppiamento mancava l’abbandono della vera passione, c’era però una solidità professionale che, subito dopo, era quanto di meglio ci si potesse augurare. Erich sapeva versare un’oncia esatta di whisky senza bisogno di misurare. Sapeva fare a mano la trapunta di un letto matrimoniale. E sapeva fin dove spingere, quando tirarsi indietro, quando uscirsene con una mossa inaspettata. Mi lasciai andare. A lui piaceva controllare la situazione e io rinunciai al desiderio di far colpo.

Quella notte facemmo l’amore tre volte. Dopo la prima, non rotolò lontano. E io non fuggii. Lui mi tenne abbracciato e io gli accarezzai i radi peli della coscia. Sentivo il suo odore, forte ma non sgradevole. Restammo avvinghiati in silenzio per almeno dieci minuti. Poi mi disse: “Sei di nuovo pronto?”

Prima che mi rivestissi, l’appartamento aveva in parte perduto la sua estraneità. Non era un alloggio attraente, e neanche particolarmente confortevole – una stanza, senza nessuna particolare vista, in un edificio di mattoni bianchi che doveva essere stato costruito, sbrigativamente, all’inizio degli anni Sessanta. Conteneva un letto su una piattaforma, coperto di trapunte, uno stereo, un televisore e un divano nero di dimensioni assurde che, all’alba, cominciava a svolgere, come ogni giorno, la funzione di risucchiare quel poco di luce che filtrava dall’unica finestra. Alla parete era appeso in una cornice d’argento un poster con la riproduzione di un quadro di Matisse, che raffigurava una sfarzosa stanza lussuosamente drappeggiata e priva di vita, a parte tre pesci rossi a forma di pugnale in una vasca di un azzurro intenso. L’appartamento di Erich poteva sembrare la sala d’aspetto di un medico. Faceva capire poco di chi lo abitava, a parte una sottile tristezza. Tuttavia, prima che mi rivestissi e prendessi nota del suo numero di telefono dopo aver scritto il mio su un foglietto, aveva acquisito un certo peso. Non che sembrasse meno squallido di quando eravamo arrivati; aveva solo cominciato a rivelarsi un luogo dove qualcuno, in effetti, viveva. Una luce rossa lampeggiava sulla segreteria telefonica, a segnalare messaggi non ancora ascoltati. Dalla porta, gli mandai un bacio, bisbigliai “A presto” e feci tre rampe di scale a piedi per tornare in strada.

Questo di solito era il mio momento preferito, quando, finito il sesso, ero di nuovo me stesso, giovane e vitale, libero di andare dappertutto. Quella notte, però, mi sentivo irritato e svuotato; non riuscivo a recuperare il senso di ciò che ero. La Ventiquattresima Strada giaceva tranquilla nel suo bagno di luce giallo scuro. Una prostituta solitaria passeggiava in calze nere e giacca di pelliccia, una bancarella d’alimentari aperta tutta la notte esponeva arance, mele troppo lucide e garofani tinti di verde per la festa di San Patrizio. Ero colmo di un piacere fisico cui s’accompagnava in maniera complicata e instabile una punta di rammarico. Avevo perduto qualcosa, almeno per il momento – una qualche possibilità. Feci a piedi i venti isolati che mi separavano da casa, ma non potei scuotermi di dosso questa sensazione. Mi veniva dietro come un ladro.

Arrivai a casa solo alle quattro passate. Clare dormiva. Quando la vidi la sera dopo, non le raccontai molto di Erich. I nostri discorsi sugli uomini si fondavano su un comune atteggiamento di ironico disprezzo, e io non sapevo bene come descriverle uno come Erich. Non ne ero innamorato, ma una volta tanto una serata di sesso era stata qualcosa di diverso da un numero da clown, senza disperazione né noia.

Clare disse: “Sei molto reticente su questa faccenda, Jonathan. Cosa ti succede esattamente?”

“Non mi succede nulla.” Stavamo sul divano a sorseggiare Pernod. Il Pernod era il nostro drink più recente. Eravamo abituati a brevi ma esclusive passioni per differenti liquori esotici.

“Ti vedo circospetto,” disse lei, “e non sei il tipo. Pensi che questo tizio possa diventare qualcosa di speciale? Cosa mi stai nascondendo?”

“Questo tizio, come lo chiami tu, è uno dei tanti aspiranti attori che servono da bere all’inferno. Ed è favoloso quando scopa.”

“Tesoro, non sottovalutare questo aspetto,” disse lei. “Io l’ultima scopata favolosa l’ho fatta nel... Che anno era, il 1979? Dammi qualche particolare, ti prego. Su, coraggio. Io sono la zia Clare.”

Mandò giù un gran sorso del suo drink e a me parve di scorgere sotto l’amichevole curiosità la semplice paura che l’abbandonassi, che mi dileguassi nell’amore. Gliela si leggeva negli occhi e intorno alla bocca, capace di esprimere una severa disapprovazione, malgrado l’abbondante rossetto cremisi.

“Tesoro, ci sono luoghi dove neppure gli amici più intimi possono viaggiare insieme,” dissi.

“Oh, non è vero,” disse lei. “Non dirai sul serio, solo che l’argomento ti mette in imbarazzo. Vero?”

Clare e io non avevamo segreti – era l’inebriante, temerario aspetto della nostra amicizia. Forse il sostituto di quella conoscenza umana che altre coppie ricavano dal sesso. Noi due ci confessavamo tutto. Ci spogliavamo nudi ed elencavamo le nostre pecche. Conoscevamo entrambi le fantasie più sconvenienti dell’altro, i raggiri e le avidità, le bugie con cui eravamo in grado di lusingare noi stessi. Ci descrivevamo tutti i nostri coinvolgimenti sessuali, e ognuno conosceva i problemi intestinali dell’altro.

Ma ora, per la prima volta, volevo tenere qualcosa per me. Senza sapere bene perché. Forse per quella stessa incertezza che volevo proteggere. Erich mi aveva sorpreso con la sua gentile competenza. C’era in lui qualcosa che mi aveva commosso – il suo ansioso buonumore, le sue fragili prospettive. E c’era anche qualcosa che m’irritava. Non sapevo che cosa provavo e non amavo che mi si chiedesse di dare un nome ai miei sentimenti. Temevo forse che descrivendoli così presto li avrei privati delle loro possibilità di sviluppo o di cambiamento. Forse avevo ragione.

Ma quella notte scelsi di non coltivare segreti. Temevo anch’io la solitudine e l’abbandono e sapevo che non avrei mai potuto vivere con Erich. Lui sarebbe stato, nella migliore delle ipotesi, un primo passo verso qualcosa d’imprecisato che stava oltre quel cerchio di calore domestico della mia vita con Clare. Era lei il mio più grande amore. Nessun altro attaccamento era, anche solo lontanamente, così profondo.

Così le raccontai tutto. Risultò che non c’era molto da raccontare. Quando ebbi finito, Clare disse: “Tesoro, ti sei semplicemente trovato un Dottor Feelgood.” Cantò un paio di versi della canzone di Aretha: “Non chiamatemi un medico, che mi riempia di pillole. Io mi sono trovata un uomo che si chiama Dottor Feelgood, mi fa stare proprio be-ene.”

Sembrava una spiegazione sufficiente, almeno per il momento. Erich sarebbe stato il mio Dottor Feelgood. Da quella notte in poi, quanto più spesso lo chiamavo con quel nome, tanto più gli si addiceva. Clare e io continuammo il nostro rapporto fraterno, senza che la nostra devozione reciproca si diluisse. Io mi ero trovato una cosetta simpatica per mio conto. Clare mi consigliava di portarla avanti finché non si fosse logorata, come capita inevitabilmente a relazioni del genere. Sembrava un consiglio assennato.

Così Erich e io cominciammo a vederci. Poiché lavorava di sera, ci s’incontrava di solito dopo le undici. Bevevamo qualcosa in un bar e andavamo a casa sua.

Non appresi molti particolari della sua vita. Aveva una singolare ambizione, non ben definita ma persistente: essere riconosciuto. Le vie per arrivare a ciò erano quanto mai vaghe – stava semplicemente aspettando un’occasione, e cercando le giuste situazioni perché qualcuno potesse scoprirlo. Faceva audizioni per tutto. Si presentava ai provini per i musical di Broadway pur non sapendo cantare. Lavorava quattordici ore al giorno come comparsa di qualsiasi film che si girasse a New York e a Natale impersonava volentieri un soldato meccanico in grandezza naturale da F.A.O. Schwarz. Prendeva innumerevoli lezioni di recitazione, parlava convinto della sua aspirazione a migliorare come attore, ma conoscendolo meglio cominciai a capire che la cosa importante non era in realtà recitare. L’obiettivo era sentire gli applausi: uno spettacolino al negozio di giocattoli gli dava pressappoco quella stessa miscela di sofferenza e soddisfazione che avrebbe tratto da una parte di protagonista in uno spettacolo di Broadway. Amava il perseguimento metodico e adorava attirare l’attenzione; non sognava il successo in quanto tale. Nella vita d’ogni giorno era praticamente invisibile – indossava jeans e magliette polo, contribuiva alla più semplice delle conversazioni con semplici balbettii, viveva da solo in un appartamento sgombro. Ma da Schwarz nel periodo natalizio non perdeva mai il suo personaggio, né interrompeva mai i suoi rigidi movimenti da robot per tutto un turno di otto ore. In calzoncini da ginnastica, e con una temperatura sotto lo zero faceva per quarantacinque volte il giro di un isolato di Bleecker Street al piccolo trotto per poter comparire come una vaga figura sullo sfondo in un film che non sarebbe mai stato distribuito. E di notte, una volta spente le luci, a letto era favoloso.

Pur vedendolo una volta o due la settimana, non arrivai a conoscerlo. Credo lo preoccupasse l’idea che se io – o chiunque – fossi riuscito a conoscerlo troppo bene, il movimento della sua vita avrebbe subito un rallentamento, e avrebbe trovato conferma il suo oscuro destino. Personalmente mi preoccupava che vivesse sull’orlo di una resa totale alla volontà di un’altra persona. Pensavo che quando finalmente avesse cessato di sperare nel raggiungimento della fama si sarebbe tramutato in un fan, e avrebbe trovato un amante rinunciando allegramente a ogni residuo della propria volontà. L’avevo forse intuito dal primo momento che l’avevo visto, quando annuiva con zelo ai discorsi da bar di un vecchio. Stava esercitando la sua capacità d’attenzione. Non volevo che le concentrasse su di me con troppo ardore.

Quando eravamo insieme, parlavamo di cose superficiali: aneddoti delle nostre vite di lavoro, film che ci piacevano o che non sopportavamo. Infine, in quello che era forse il nostro decimo o quindicesimo incontro, mentre giacevamo in silenzio, sudando ognuno nella carne dell’altro, mi disse: “Insomma, tu chi sei?”

“Come?”

Le sue orecchie divennero rosse. Sospettai che quella battuta l’avesse imparata da un film.

“Voglio dire che in realtà io di te non so niente,” disse lui.

“Nemmeno io so molto di te,” replicai. “Sostanzialmente so soltanto che sei un attore ma lavori come barista, che vorresti cambiare lavoro ma non ti dai molto da fare per riuscirci e che ti è piaciuto molto Le urla del silenzio.”

“Be’, sono cresciuto a Detroit,” disse.

“Anch’io vengo dal Middle West.”

“Lo so. Di Cleveland.”

Dopo una pausa, aggiunse: “Be’, è molto interessante. Veniamo tutti e due dal Middle West. E questo spiega tante cose, non trovi?”

“No, non spiega proprio nulla,” dissi. Credetti che questa conversazione fosse per noi il principio della fine, e non mi dispiaceva molto. Addio, Dottor Feelgood. Rimandami in strada dentro la mia pelle, con il mio vecchio senso di un futuro illimitato.

Un momento dopo disse: “Una volta ero un musicista. Da ragazzo. Era una vera mania. Non sognavo altro. Facevo sogni che erano solo musica, solo... musica.”

“Davvero?” dissi. “Cosa suonavi?”

“Piano. Violoncello. Un po’ di violino.”

“Suoni ancora?”

“No,” disse. “Mai. Non ero abbastanza bravo. Ero discretamente bravo. Ma non abbastanza.”

“Capisco.”

Per un po’ restammo sdraiati in un silenzio imbarazzante, aspettando di vedere cosa sarebbe successo. All’infuori del sesso, nessuno dei due aveva trovato una porta naturale per entrare nei pensieri dell’altro. Io credevo di sentire il peso dell’infelicità di Erich come un tuffatore sente quello dell’oceano, ma non potendo far niente per aiutarlo. Era il prezzo che pagavamo per essere andati a letto insieme senza aver avuto il tempo di conoscerci – condividevamo un’intimità, non una conoscenza o un affetto. Non potevo ascoltare le confessioni di Erich; non lo conoscevo abbastanza. Ricordai il suggerimento di Clare – portare avanti la relazione finché non si fosse logorata.

“Ascolta,” dissi.

Mi passò un dito sulle labbra. “Sss,” bisbigliò. “Non parlare. Non è un buon momento per farlo.” E cominciò ad accarezzarmi i capelli e a mordicchiarmi la spalla.

Il nostro rapporto mantenne questo carattere esitante, formale. Ogni volta che ci vedevamo era come se ci fossimo conosciuti da pochissimo tempo. Mesi dopo, quando lo interrogai sul suo amore per la musica, la sola cosa che mi disse fu: “È passato. È una storia antica. Hai visto qualche film?” A volte le nostre conversazioni s’impantanavano, e i silenzi che ne seguivano si rifiutavano di assumere un aspetto di naturalezza. Non venne mai nel mio appartamento, non incontrò mai né Clare né altri miei amici. Io lasciavo la mia vita per andare a trovarlo nella sua. In compagnia di Erich, sviluppai una nuova personalità. Ero duro e quasi insensibile; poco più che un oggetto. La nostra comunione avveniva soltanto a livello fisico, e tutto sommato ci andava bene così. Qualsiasi altra cosa sarebbe stata sentimentale, forzata, indiscreta. Era un rapporto cordiale, rispettoso. Credo che in un certo senso ci disprezzassimo a vicenda. E poiché in questa relazione io investivo soltanto i miei nervi e i miei muscoli, scoprii che a letto potevo essere sorprendentemente rumoroso. Potevo camminare senza il minimo scrupolo sulle assi del pavimento, con gli stivali che risuonavano come colpi di scure. E potevo anche essere un po’ crudele. Mordere la pelle di Erich con tanta forza da lasciarvi rossi segni a forma di valve. Potevo fantasticare su di lui – uno sconosciuto – ammanettato, umiliato, denudato e legato a una macchina kafkiana che lo scopava senza dargli tregua.

Nell’altra mia vita, uscivo ogni sera con Clare per mangiare falafel o pollo allo spiedo o piatti vietnamiti. Discutevamo su quanta televisione un bambino potesse essere autorizzato a guardare. Concordavamo che la severità della scuola pubblica era di per sé educativa e bilanciava i mediocri insegnamenti dei maestri. A volte giovani padri di bell’aspetto passavano davanti alla vetrina del ristorante in cui eravamo, spingendo passeggini o portando sulle spalle i figlioletti addormentati. Li seguivo sempre con lo sguardo.

Quella era la mia vita nel bel mezzo degli anni di Reagan.

Poi Bobby venne a vivere a New York.