Clare

Erich portò in casa qualcosa di nuovo. O forse evocò qualcosa di vecchio. Qualcosa che c’era da sempre. Lui percorreva rumorosamente i corridoi, cercando di separare il suo respiro sempre più fievole dall’aria polverosa. I fatti ovvi della malattia e della morte potevano sembrare lontani finché non sentivi il puro odore di gesso delle medicine. Finché non vedevi la sua pelle che si colorava d’argilla.

Essere madre mi rendeva impossibili cose che nella mia vita precedente avrei fatto quasi senza pensarci. Non potevo negare a Erich ciò che gli occorreva e nello stesso tempo non riuscivo ad abbracciarlo. Scoprii, più o meno contro la mia volontà, che ero ormai capace soltanto, e singolarmente, di offrire protezione. Suppongo che in essa ci fosse qualcosa di sentimentale, anche se non mi sentivo in bocca un sapore che assomigliasse al sentimento. Ero anzi dura e distaccata, glaciale. Per la prima volta non pensavo a me stessa. Come se un settore del mio cervello, quello che avevo identificato con me fosse stato completamente risucchiato. C’era al suo posto questa costante inesorabile spinta a fare ciò che era necessario. Davo da mangiare a Erich quando i ragazzi erano al lavoro, mi accertavo che prendesse la sua medicina, lo aiutavo ad andare alla toilette nei giorni in cui aveva bisogno d’aiuto. Gli parlavo con gentilezza. Niente avrebbe potuto impedirmi di fare queste cose. Ma non tenevo a lui. In un certo senso, il nostro era soltanto un rapporto d’affari. In realtà tenevo soltanto a Rebecca, che era ben viva e stava crescendo. Erich era già in parte uscito dal mondo. Se il suo conforto e la sua sicurezza erano per me d’importanza vitale, non lo era la sua esistenza. Adesso capivo meglio perché, nelle favole, le madri sono così spesso delle sante o dei mostri. Noi non siamo umane nell’accezione normale della parola, almeno quando i nostri figli sono molto piccoli. Diventiamo mostri di tenerezza, inesorabili, e se a volte ci lasciamo sfuggire gli aspetti più sottili e immortali dell’anima mentre ci occupiamo del fragile corpo, è cosa che non si può evitare.

Quasi tutti i giorni rimanevo sola con Rebecca e con Erich. Adesso che avevano Marlys e Gert, i ragazzi riuscivano a venire a casa più spesso. Tuttavia passavo la maggior parte del tempo con una bambina di due anni e con un uomo morente.

Noleggiavo film e versavo succhi di frutta. Cominciavo a educare Rebecca all’uso della toilette e cambiavo ogni tanto le lenzuola di Erich. Che aveva giornate discrete e giornate pessime. Nelle peggiori poteva inalberarsi con me. Poteva dire all’improvviso: “Io detesto il succo di mele. Ne sono assolutamente stufo, non ne hanno d’altro tipo al supermercato?” O poteva lamentarsi dei film che portavo a casa. “La signora Miniver? Santo Dio, tutto qui quel che gli è rimasto?”

Ma con Rebecca non perdeva mai la pazienza. A volte, nei giorni che lui restava a letto, guardavano insieme dei video. Io portavo a casa Dumbo, Biancaneve e tutto quello che trovavo con i Muppets. Anche a lui piacevano quei film. Erich non affascinava Rebecca come Jonathan, ma teneva desta la sua attenzione. Aveva una singolare capacità di concentrazione e sospetto che con lui Rebecca si sentisse al sicuro. Sapeva recitare perfettamente la parte dell’uomo che ci sa fare con i bambini. Le permetteva di comandarlo a bacchetta. Eseguiva, a richiesta, una danza spasmodica con una scimmia impagliata che lei aveva misteriosamente battezzata Shippo mentre Rebecca teneva capovolta una bambola di nome Baby Lou e ne dimenava nell’aria le rigide gambe di plastica. Acconsentiva a tutti i giochi che lei inventava, molti dei quali consistevano nel passarsi avanti e indietro un dinosauro di gomma, snocciolando un lungo elenco sempre diverso di domande. Sapeva imitare la voce di Kermit la Rana, cosa che Rebecca sembrava trovare spassosa e piuttosto inquietante.

A volte, quando portavo loro uno spuntino, li trovavo tutti e due seduti sul letto di Erich, che guardavano la televisione con giocattoli sparpagliati dappertutto. E dovevo trattenere il respiro nel vederli così, con Rebecca che chiacchierava e faceva camminare uno dei suoi animali da cortile in miniatura sullo scarno ginocchio di lui o Erich che le accarezzava distrattamente i capelli mentre guardavano insieme un cartone animato. Comunque si sentisse quel giorno, con mia figlia era sempre premuroso. Il suo autocontrollo era impressionante. Sembrava essersi proposto di non mostrare mai a questa bambina un comportamento sgradevole o meschino, di essere sempre docile e socievole in sua presenza. Era differente da Jonathan. Lui non l’amava. Ma gli piaceva abbastanza. Essere buono con lei era uno dei pilastri organizzativi su cui costruiva le sue giornate. Ne aveva fatto il suo lavoro.

In un primo momento sentii solo una vaga irrequietezza, a metà fra la nausea e il dolore, che pulsava dalle parti del mio ventre. Pensavo a volte che mi stesse venendo un’ulcera, o peggio, ma il medico mi diceva che era soltanto ansia. Infine, dopo qualche mese, capii. Stavo arrivando a una decisione. O una decisione stava arrivando a me. Mi cresceva dentro, quasi contro la mia volontà.

Raggiunse la sua forma definitiva un pomeriggio di marzo, mentre stavo facendo la siesta con Rebecca. Era diventata recalcitrante ai pisolini, e acconsentiva a sdraiarsi nel pomeriggio solo se la portavo nel letto mio e di Bobby e le leggevo qualche pagina di uno dei suoi libri. Aveva allora quasi due anni e mezzo. Le era venuta la mania di alcuni libri, fra cui quello di un coniglio che augura la buona notte a tutti gli oggetti della sua camera e quell’altro del maiale che trova un osso magico. Li avevamo letti entrambi più volte, e ci addormentammo insieme. Mi svegliò venti minuti dopo il suono della sua voce. Giaceva accanto a me raccontandosi una storia. Anche questa era un’abitudine recente. Era capace di parlare a se stessa per ore. Io giacevo in silenzio, ascoltando.

“Andai al negozio,” disse. “Chiesi un osso parlante. La ragazza non l’aveva mai visto. Lei lo prese e andò a casa di Bunny. E Bunny era lì, e c’era anche Jonathan. E dissero: ‘Oh oh oh, che bel micino.’ E Jonathan prese l’osso. Disse: ‘Con questo adesso farò qualcosa di buono.’ E fece del porridge. Era molto molto buono. E Bunny disse: ‘Uhm’, e poi lo dissero anche Mammina e Bobby e Erich. E io diedi a Erich un po’ d’insalata perché, era malato. E anche Jonathan ne ebbe un po’. E poi si fece notte e Bunny dovette andare a letto. E poi era l’indomani e il micino andò in città. ‘Oh oh oh,’ disse il micino. Immagina la sua sorpresa.”

Mentre stavo lì ad ascoltarla, il petto mi si contrasse per il panico. Sentivo il calore che mi saliva alla faccia. Subito non capii perché ero così spaventata da ciò che udivo. Era il solito flusso di coscienza di Rebecca, quel tipo di chiacchiericcio che ascoltavo ormai da più di un mese. Ma a poco a poco, sdraiata a letto con lei, cominciai a capire. Stava acquistando coscienza di sé. Usciva dalla nebbiosa concentrazione totale su se stessa e cominciava a comprendere la vita indipendente di altre persone. Avrebbe presto lasciato il suo disincarnato mondo infantile. Avrebbe ricordato cose. Era una macchina fotografica pronta a scattare. Clic, una casa marrone con la porta blu. Clic, i suoi giocattoli preferiti. Clic, Jonathan che veniva a prenderla al mattino. Si sarebbe portata appresso queste immagini per il resto della vita. Ma se fosse arrivata alla piena consapevolezza di sé quando Erich fosse morto e Jonathan avesse cominciato a star male? Quali sarebbero state le conseguenze se i suoi ricordi più lontani avessero ruotato intorno al declino e alla successiva scomparsa delle persone che più adorava?

Una mattina di qualche settimana dopo ero a letto con Rebecca, Bobby e Jonathan. Una mattina qualsiasi. Rebecca si era svegliata di buon umore e si stava raccontando una complicata storia sul coniglietto Bunny e un elefantino volante. Fra un minuto Bobby sarebbe sceso strascicando i piedi a fare il caffè. Erich dormiva ancora nella sua camera sul corridoio e Jonathan sedeva accanto a me con il lenzuolo tirato sul petto.

Bobby disse: “Dopo il lavoro dovrò sostituire qualche assicella. Avete visto quante ne ha soffiate via il vento? Quel tetto non ce la fa più.”

“Dovremmo farcene costruire uno nuovo,” dissi. “Cominciamo a chiamare i muratori.”

“Quando la casa sarà più o meno a posto,” disse Jonathan, “voglio che venga di nuovo a trovarci mia madre. Credo che le sarebbe più facile credere nella mia vita se la vedesse un po’ di più.”

“Genitori, genitori,” dissi. “Sapete, sto pensando che dovrei portare Rebecca a Washington per qualche giorno a trovare mia madre.”

Bobby si alzò per preparare il caffè, un secondo prima che io sapessi che lo avrebbe fatto. “Perché non la inviti qui?” disse.

“Perché ha sessantacinque anni e non è per niente di larghe vedute. Credetemi, non vi piacerebbe proprio avere qui Amelia che blatera sul nostro stile di vita. Perché è questo che secondo lei abbiamo. Non una vita. Uno stile di vita.”

“Non pensi che farebbe meglio ad abituarsi?” disse Jonathan.

“Tesoro, mia madre non si è ancora abituata al fatto che io abbia il seno. Vedermi nuda la mette ancora a disagio. Credimi. È meglio che io porti Rebecca da lei per qualche giorno.”

“Be’, se proprio devi,” disse Bobby, e andò a sbrigare le sue incombenze mattutine.

“Solo per qualche giorno,” disse Jonathan. “Giusto? Facciamo due o tre?”

Annuii e accarezzai i capelli a Rebecca. Temevo che lei potesse sentire la tensione nella mia mano e mettersi a piangere. Ma continuò a cianciare indisturbata. I nostri sotterfugi interiori non lasciano molti residui nel mondo.

Sapevo soltanto in parte che cosa mi accingevo a fare. Divenne un piano solo quando mi trovai ad attuarlo, e allora mi sembrò di seguire una procedura che conoscevo da mesi o addirittura da anni. Imballai le cose di Rebecca: i suoi vestiti e i suoi giocattoli essenziali, il suo passeggino e il suo seggiolone. Aiutandomi a caricarle in macchina, Jonathan disse: “Tesoro, starete via solo qualche giorno. Non per tutto il millennio.”

“Voglio essere preparata,” dissi. “È importante evitare a qualsiasi costo di andare a fare spese con mia madre. Se restassi senza pannolini, mi porterebbe da Saks.”

“Non mi sembra una gran disgrazia,” disse Jonathan. Indossava una giacca di denim con la gentile faccia bianca di Albert Einstein appuntata al bavero. Sul prato era spuntato uno sciame di tulipani di un nero rossastro. Una stornella impazzita che aveva il nido da quelle parti inveiva contro di noi dai rami più bassi della quercia. Caricai il passeggino nel bagagliaio e Jonathan gli sistemò attorno il sacco dei pannolini.

“È il senso di colpa,” dissi. “Perfino il sentirmi in colpa per i soldi di mia madre mi sembra a volte una cosa decadente. Meglio evitarlo. Non mettermi in una situazione in cui può comprarmi un vestito da cinquecento dollari che mi dà l’aria della moglie di un astronauta. È meglio avere a disposizione delle scorte e starmene in casa con lei.”

Mi chiesi se non stavo spiegando troppo. Non volevo aver l’aria di una criminale con un alibi troppo sospettosamente perfetto, e movimenti spiegati nei minimi particolari.

“Se lo dici tu,” replicò. Non c’era diffidenza nella sua voce.

Chiuse il portello del bagagliaio. “Mi mancherai,” disse.

Da un momento all’altro Bobby sarebbe uscito di casa con Rebecca. Allungai una mano per toccare la manica di Jonathan.

“Senti,” dissi. “Mi dispiace.”

“Cosa?”

“Oh, lo sai. Mi dispiace di essere così pusillanime quando si tratta di mia madre. La prossima volta la porterò qui. Tu hai ragione. Si deve abituare.”

“Be’, i genitori sono sempre rigidi. Credimi, io lo so.”

“Mi dispiace veramente,” dissi. Potevo udire nella mia voce una possibilità di lacrime.

“Tesoro, che ti succede?”

In quel momento ero sicura che sapesse. Scossi il capo. “Nulla.”

Mi diede una piccola stretta rassicurante. “Stupida vecchia Clare. Cara vecchia matta.” In realtà non sapeva. Non aveva ancora sviluppato l’abitudine alla perdita. Credeva che la sua vita sarebbe stata sempre più ricca. Forse era questo il difetto fondamentale della sua intelligenza. Forse era questo che gli impediva di innamorarsi.

“Oh, piantala con questa stronzata della ‘cara vecchia matta’, d’accordo? Io sono un’adulta. Non una tua compagna di giochi.”

“Ops. Scusa.”

“Vorrei solo, Jonathan, che tu...”

“Cosa? Vorresti che io cosa?”

“Non so. Per quanto tempo intendi essere un ragazzo? Per tutta la vita?”

“Invece di diventare una ragazza?” disse.

“Invece di... oh, non importa. Oggi sono un po’ pestifera. Me ne sono accorta da quando mi sono svegliata.”

“Senti, mi telefoni quando sarai arrivata? Per farmi sapere che stai bene?”

“Sì. Certo che lo farò.”

Restammo lì un momento a guardare il paesaggio come se per noi fosse una novità. Come se fossimo appena scesi dalla nostra Winnegabo per sgranchirci le gambe e ammirare quel particolare tratto di un parco nazionale.

“Non dovrebbe essere tutto più semplice?” domandai.

“Bobby dice che questo è un mondo nuovo. Dice che possiamo fare qualsiasi cosa ci venga in mente.”

“Questo perché Bobby è un coglione pieno d’illusioni. Lo dico solo per fargli un complimento.”

Mi resi conto che tenevo ancora stretta la manica di Jonathan. Quando la mollai, il denim conservava la forma della mia mano.

“Vado a vedere cosa lo trattiene,” dissi. “Se io e Rebecca non ci muoviamo in fretta, finiremo intrappolate nel traffico di New York.”

“Okay.”

Jonathan rimase ad aspettare vicino alla macchina, con le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni cachi e il sole che si rifletteva nei suoi capelli biondi. Arrivata sulla veranda, mi voltai verso di lui. Mi rivolse un sorriso ironico, da sorella, e io entrai in casa.

Bobby stava scendendo le scale con Rebecca. “Vi davo quasi per persi,” dissi. “Se non saremo oltre Manhattan per l’una...”

Si portò un dito alle labbra. “Erich sta dormendo. Ha avuto una mattina difficile.”

Presi Rebecca dalle sue braccia. Anche lei aveva una brutta mattina. “Io non voglio,” disse.

“Avete preso tutto?” bisbigliò Bobby.

“Mm-hm. La macchina è stracarica. Fai i miei saluti a Erich, okay?”

“Okay.”

“Io non voglio,” disse Rebecca.

Bobby rimase sull’ultimo gradino, con la pancia che tendeva leggermente la stoffa della sua T-shirt. In quel momento sembrava così innocente e così benintenzionato che avrei potuto picchiarlo per punirlo di essere così stupido, così ingenuamente ottimista. Me lo immaginavo vecchio, che camminava strascicando le ciabatte. Sostenendo che l’ospizio era davvero perfetto. Il venerdì servivano il budino al cioccolato, avrebbe detto. La cameriera si chiama Harriet, mi porta le foto dei suoi bambini.

“Senti,” dissi. “Mi è venuta un’idea folle. Vuoi venire con me?”

Eh?”

“Adesso. Devi solo ficcare un po’ di roba in una sacca e venir via.”

“Pensavo che tua madre non mi approvasse. Non ci approvasse.”

“Chi se ne fotte di mia madre. Vuoi venire?”

“Dobbiamo occuparci di Erich,” disse lui.

“Può occuparsene Jonathan. È ora che si assuma qualche responsabilità, non credi? Fra tutti e due se la caveranno a meraviglia. Staranno benissimo da soli.”

“Clare, che c’è? Che ti ha preso?”

Strinsi a me la bambina. “Niente,” dissi. “Non badarmi. Sono soltanto una cara vecchia matta.”

Portai fuori Rebecca, e Bobby mi seguì fino alla macchina. Mentre le legavo la cintura di sicurezza, Rebecca cominciò ad agitarsi e a piagnucolare. Più avanti, il movimento dell’auto l’avrebbe calmata, ma per un po’ sarebbe stata inconsolabile. Mi preparai ai suoi gemiti.

“Addio, ragazzi,” dissi.

“No,” disse Rebecca dal suo sedile. “No, no, no, no, no.”

Mi baciarono entrambi, mi raccomandarono di guidare con prudenza. Baciarono Rebecca. Le loro attenzioni erano l’unica cosa che mancava per scatenarla del tutto. Aprì la bocca e rischiò di soffocare per un urlo che stava maturando da quando aveva fatto colazione.

“Addio, Miss Rebecca,” disse Jonathan attraverso il finestrino. “Ti amiamo tanto anche se sei sporadicamente mostruosa. Divertiti con la tua terribile nonna.”

“Abbiate cura di voi,” dissi. Uscii a marcia indietro dal vialetto. Salutai con la mano e i ragazzi mi resero il saluto. Se ne stavano vicinissimi, davanti alla casa fatiscente. Mentre mi allontanavo, Jonathan all’improvviso si mise a correre verso la macchina. Pensai per un momento che avesse qualcosa da dirmi, ma poi mi resi conto che intendeva correre accanto a noi per qualche passo, stupido e fedele come un cane. Proseguii. Ci raggiunse e per un po’ tenne la nostra andatura, mandandoci baci. Gli feci un altro cenno di saluto, l’ultimo. Prima di arrivare alla curva, guardai nello specchietto retrovisore e li vidi tutti e due, Jonathan e Bobby, fermi in mezzo alla strada. Sembravano un paio di beatnik, vestiti in modo trasandato, in un luogo remoto e senza importanza. Con i loro occhiali da sole, le T-shirt e i capelli arruffati, avevano l’aria di essere sull’orlo di un nuovo ciclo: gli anni Sessanta che stavano per esplodere loro intorno, una lunga tempesta d’amore e rabbia e aspettative frustrate. Bobby cinse con un braccio le spalle di Jonathan. Entrambi continuavano a salutare.

La strada era argentea nel sole del mattino. La giornata ideale per viaggiare. Rebecca continuava a gemere sul sedile posteriore. Chilometri e chilometri sfilavano sotto le ruote. Sapevo che la nostra vita non sarebbe stata facile. Immaginavo noi due a San Francisco o a Seattle, in un appartamento con degli estranei che litigavano di là dal muro. Avrei spinto il suo passeggino su strade sconosciute, alla ricerca di un negozio d’alimentari. Lei non avrebbe visto niente di strano nella nostra vita – fin quando, una volta cresciuta, non avesse cominciato ad accorgersi che altre ragazze vivevano in maniera diversa. Allora avrebbe cominciato a odiarmi perché ero sola, perché ero vecchia ed eccentrica, perché non ero stata capace di crescerla con un cortile dietro casa e una stanza per ricevere, e con un padre. Pensai per un attimo di tornare indietro. Ebbi questo impulso e se avessi potuto fare un’inversione a U forse lo avrei seguito. Ma eravamo su un rettilineo. Costeggiai la doppia linea gialla finché l’impulso non fu assorbito dall’accumularsi della distanza. Tenni le mani sul volante senza pensare a nulla che non fosse il prossimo miglio e quello dopo. Girai la testa per dare un’occhiata alla bambina. Si stava finalmente calmando col movimento dell’auto. Prima di sprofondare nel sonno, mi guardò minacciosa, col naso che colava e il cappellino di cotone di traverso, e disse una sola parola. Disse: “Mammina.” La pronunciò con una punta riconoscibile di disperazione.

“Un giorno mi ringrazierai, dolcissima,” dissi. “O forse no.”

Ora sono sola con questo. Con questo amore. L’amore che ti entra dentro come una radiografia, che non contiene veri elementi di gentilezza o di compassione.

Perdonatemi, ragazzi. Sembra che, alla fine, io abbia ottenuto quel che volevo. Una bambina tutta mia. Una direzione nella quale andare. La casa e il ristorante possono non essere stati un granché da offrire in cambio, ma era tutto quello che avevo da darvi.

Uscii dall’autostrada e mi diressi a ovest.