Jonathan
La nostra settima classe era stata trasferita in quel settembre dai palazzotti dispersi delle varie scuole elementari a un’unica media inferiore centralizzata, un colossale edificio in mattoni chiari con il nome appeso sopra l’ingresso principale in caratteri alti un metro, sobri e severi come i miei presentimenti sulla vita che vi si conduceva all’interno. Mi erano arrivate delle voci: quattro ore di compiti la sera, lezioni tenute interamente in francese, risse a rasoiate nei bagni. Era la fine dell’infanzia.
Il primo giorno a pranzo un ragazzo con i capelli scuri, lunghi fin quasi alle spalle, si mise in fila dietro a me e al mio amico Adam al self-service. Era un ragazzo trasandato e con gli occhi stralunati: un’emanazione del cuore pericoloso della scuola.
“Ehi...” disse.
Non capii bene se si fosse rivolto a me, a Adam o a qualcun altro nelle vicinanze. I suoi occhi, rosei e acquosi sembravano concentrati su qualcosa di sorprendente che s’aggirava nei pressi dei nostri piedi.
Annuii. Mi parve una rispettabile via di mezzo fra la paura di sembrare uno snob e il terrore di apparire troppo interessato. Avevo preso alcune risoluzioni sulla mia nuova vita. Adam, un ragazzo pratico con un corpo da barilotto che conoscevo dalla seconda elementare, si toccò un’invisibile macchia sull’inamidata camicia scozzese. Era figlio di un impagliatore, e aveva maturato una precoce diffidenza per tutto ciò che non gli era familiare.
Avanzavamo lenti nella fila, ognuno col suo vassoio di plastica gialla.
“Visto che galera?” disse il ragazzo. “Voi per quanto ne avrete?”
Stavolta si era indubbiamente rivolto a noi, anche se il suo sguardo continuava a vagare e non si era ancora posato sui nostri occhi. A questo punto ero giustificato se lo guardavo. Aveva una bella faccia larga con una leggera spaccatura sulla punta del naso sottile, e mascelle così massicce da far pensare che avesse sangue indiano. C’erano aureole di peluzzi biondi sulle labbra e sul mento.
“A vita,” dissi.
Annuì meditabondo, come se io avessi detto qualcosa d’ambiguo su cui valesse la pena riflettere.
Passò qualche istante. Adam avrebbe volentieri chiuso la conversazione fingendo un’educata sordità. Io mi sforzavo di mostrarmi distaccato. Il silenzio s’installò e rimase – uno di quei protratti silenzi amichevoli che si aprono nelle conversazioni casuali con gli estranei e permettono a tutti i partecipanti di ritornare, illesi, alla familiarità delle loro vite. Adam concentrò scopertamente la propria attenzione sull’inizio della fila, come se lì stesse avvenendo qualcosa di piacevole mai visto prima.
Ma a quel punto, dimenticando la mia risoluzione, ricaddi in un’abitudine della mia vecchia vita, uno di quei difetti personali che avevo giurato di lasciarmi alle spalle.
Cominciai a parlare.
“Ecco, è proprio questo il punto, non trovi?” dissi. “Finora è stato tutto abbastanza facile, eravamo bambini voglio dire. Non so da quale scuola vieni, ma a Fillmore avevamo gli intervalli, avevamo cioè dei periodi per fare uno spuntino mentre adesso, be’, ci sono qui dei tizi che potrebbero agguantarmi la testa col palmo della mano. Non sono ancora andato in bagno. Ho sentito dire che lì i ragazzi di ottava aspettano l’arrivo di quelli di settima e quando ne vedono uno lo afferrano per i piedi e gli ficcano la testa nel water. L’hai sentito anche tu?”
Adam, spazientito, si tolse un grumo di lanugine dal colletto. Le mie orecchie s’infiammarono.
“No, amico,” disse l’estraneo un momento dopo. “Non ho mai sentito niente del genere. Mi sono fatto uno spinello al cesso prima della terza ora e non ci sono stati problemi.”
Nella sua voce non c’erano sottofondi beffardi. Eravamo intanto arrivati al bancone dove una donna tutta rossa in faccia distribuiva timballi di maccheroni e cucchiai di gelato.
“Be’, forse non è vero,” dissi. “Ma certo è un posto turbolento. L’anno scorso ci hanno ammazzato un ragazzo.”
Adam mi guardò spazientito, come se io fossi una nuova macchia comparsa in qualche modo sul davanti della sua camicia. Avevo violato la mia seconda risoluzione. Non solo chiacchieravo. Cominciavo a dire bugie.
“Ah sì?” disse il ragazzo. Sembrava aver trovato la mia asserzione interessante ma per niente straordinaria. Indossava un camiciotto da lavoro di un blu sbiadito e una giacca di pelle marrone dalle cui maniche spuntavano frange sporche.
“Sì,” dissi. “Uno dei nuovi, uno che faceva la settima. Ne hanno parlato tutti i giornali. Era, be’, un po’ ciccione. E un po’ ritardato. Girava con una ventiquattrore e si teneva su gli occhiali con uno di quegli elastici neri. Comunque arrivò qui e tutta una banda dell’ottava cominciò a sfotterlo. All’inizio si limitarono, come dire, a sfottò normali, e si sarebbero probabilmente stufati lasciandolo in pace se lui fosse stato tanto furbo da tenere la bocca chiusa. Ma aveva un caratteraccio quel ragazzo. E più lo sfottevano, più s’arrabbiava.”
Procedemmo pian piano lungo la fila, accumulando vaschette di chicchi di granturco, cartoni di latte ed ettari di torta giallo chiaro con glassatura gialla. Ci sedemmo insieme senza averlo formalmente deciso, solo perché la storia del ragazzo assassinato non era ancora finita. La tirai in lungo per quasi tutto l’intervallo del pranzo. Non trascurai alcun particolare delle crescenti torture della banda – gli occhiali rubati, la bombetta puzzolente lasciata nell’armadietto, il gatto morto infilato nella ventiquattrore – o della crescente rabbia impotente dello sventurato ragazzo. Adam alternava momenti in cui mi ascoltava ad altri in cui guardava le persone sedute agli altri tavoli, con l’imperturbabile tranquillità di chi pensa che la propria irrilevanza lo renda invisibile. Avevamo finito maccheroni e granturco, prima che la vittima organizzasse la sua vendetta, stendendo un fil di ferro quasi invisibile all’altezza del collo, sul sentiero dove i ragazzi più grandi andavano a correre sulle loro luride motociclette. Avevamo dato fondo al dessert quando fece dei pasticci nel realizzare il suo piano – non aveva stretto abbastanza il fil di ferro ai tronchi d’albero – e stavamo andando alle nostre rispettive lezioni quando la polizia lo trovò galleggiante nella cisterna, con i suoi nuovi occhiali ancora tenuti su da un elastico.
Camminammo tutti e tre insieme fino all’aula di matematica dove ci saremmo fermati io e Adam. Avevamo programmato di seguire insieme il maggior numero possibile di lezioni. Conclusi la storia sulla porta.
“Ehi, amico,” disse l’estraneo. Scosse il capo e non aggiunse altro.
“Mi chiamo Jonathan Glover,” dissi.
“E io, uhm, Bobby Morrow.”
Un attimo dopo Adam disse: “Adam Bialo?” come se non fosse convinto dell’attendibilità di un nome del genere. Era la prima volta che parlava.
“Be’, a più tardi,” dissi.
“Sì. Sì, amico. A più tardi.”
Fu solo quando s’allontanò che vidi lo sbiadito occhio blu cucito sulla schiena della sua giacca.
“Strano,” disse Adam.
“Uh-huh.”
“Credevo che non avresti più detto bugie,” disse. “Credevo che avessi fatto un giuramento.”
Ci eravamo effettivamente scambiati dei giuramenti. Io avrei smesso di raccontare frottole e lui di scrutare i propri indumenti alla ricerca di imperfezioni.
“Quella era una balla. È diversa da una bugia.”
“È strano,” disse lui. “E tu sei strano quasi quanto lui.”
“Be’,” risposi con una certa soddisfazione, “forse lo sono davvero.”
“Ti credo,” disse. “Senza il minimo dubbio.”
Restammo un momento immobili, guardando allontanarsi nel corridoio color biscotto l’occhio ricamato dell’estraneo. “Strano,” disse di nuovo Adam, e c’era nella sua voce una vera indignazione, una fede incrollabile nella persistente responsabilità del mondo di rispettare le norme della pulizia e della modestia. Una delle sue attrattive era sempre stata la sua natura esasperata – ma fondamentalmente spontanea – di subordinato. I suoi modi evasivi, la sua mancanza di curiosità, mi facevano apparire più esotico di quanto fossi; quando eravamo insieme potevo essere io l’audace. Facendo mentalmente la cronistoria delle nostre piccole avventure, assegnavo a Adam un ruolo che era un ibrido fra Becky Thatcher e Sancho Panza, mentre io ero Huck Finn, Tom Sawyer e Nancy Drew mescolati assieme. Adam considerava fare il bagno nudi o rubare una caramella violazioni di quei limiti che io ero ben felice di superare. Mi aiutò a realizzare il mio ideale romantico, ma ultimamente avevo cominciato a rendermi conto che le nostre scappatelle criminali erano pateticamente banali e che Adam non mi avrebbe mai accompagnato in acque più profonde.
L’indomani Bobby ci stava aspettando a pranzo. O meglio era riuscito a mettersi di nuovo in fila vicino a noi. Aveva una capacità particolare di dare alle proprie azioni un’apparenza di casualità – la sua vita, vista da lontano, poteva sembrare poco più di una serie di coincidenze. Non esercitava una volontà visibile. Eppure, grazie a qualche trucco misterioso, era di nuovo in fila con noi.
“Ehi,” disse. Oggi i suoi occhi erano ancora più rossi, più sfocati.
“Ehi,” dissi io. Adam si chinò per tirar via un filo dal risvolto dei calzoni di velluto a coste.
“Giorno numero due, amico,” disse Bobby. “Ne restano solo millecinquecento. Evviva!”
“Davvero ci rimangono ancora millecinquecento giorni di scuola?” domandai. “È il numero esatto, voglio dire?”
“Uh-huh,” disse lui. “Più o meno.”
“Deve essere il totale, no? Due anni qui, quattro alle superiori e quattro al college.”
“Il college non lo contavo, amico.” Sorrise, come se l’idea del college fosse qualcosa di grandioso e un tantino assurdo – una visione da coloniale di luccicanti servizi da tè in argento nella giungla.
“Giusto, amico.”
Di nuovo regnò il silenzio e ancora una volta, sfidando la feroce concentrazione di Adam sulla testa della fila – dove la donna dal viso rubizzo scodellava una specie di triangoli marrone in salsa marrone – cominciai una storia. Quel giorno raccontai di un college sperimentale che insegnava agli studenti ciò che avrebbero avuto bisogno di sapere per sopravvivere nel mondo: viaggiare spendendo poco, suonare blues al piano e riconoscere il vero amore. Come storia non era un granché – ero un discreto bugiardo, ma non brillante. La mia tecnica di costruzione aveva a che fare più con l’insistenza che con l’ispirazione. Dicevo bugie come Groucho Marx snocciolava battute, accatastandole una sopra l’altra e sperando che la mia perseveranza gettasse sul tutto una luce di credibilità.
Bobby ascoltava con una concentrazione acritica. Non insisteva sulla differenza fra il credibile e l’assurdo. Qualcosa nel suo atteggiamento faceva pensare che tutte le manifestazioni terrene – dalle mezze pesche della tavola calda galleggianti nello sciroppo al mio racconto di un’università che richiedeva agli studenti di passare una settimana a New York senza un soldo – fossero ugualmente bizzarre e divertenti. Allora non conoscevo bene gli effetti del fumare più di quattro spinelli in un giorno.
Non faceva che ascoltare, sorridere vagamente, interloquire ogni tanto con un “Sì” o un “Oh”.
Di nuovo si sedette a mangiare con noi, accompagnandoci poi alla lezione di matematica.
Quando se ne fu andato, Adam disse: “Ieri mi sbagliavo. Sei più strano tu di lui.”
Ci volle meno di un mese per accorgerci, Adam e io, che la nostra amicizia era già un ricordo d’infanzia. Facemmo qualche tentativo per trascinarcela appresso nel futuro, perché ci eravamo voluti davvero bene, in una maniera leggermente bisbetica, basata sulla reciproca disapprovazione. Ci eravamo confidati segreti e scambiati giuramenti. Tuttavia, era giunto il momento del distacco. Quando un pomeriggio gli proposi di rubare il nuovo album di Neil Young dal negozio di dischi, mi guardò col disprezzo di un fiscalista, non tanto per la mia disonestà del momento quanto per la vita disordinata, irregolare che avrei sicuramente avuto. “Non hai neanche mai ascoltato Neil Young...” disse. “Amico,” dissi io, e abbandonai la sfera delle sue caute e pedanti abitudini per accostarmi a un gruppo di allievi capelloni delle superiori, intenti a parlare di Jimi Hendrix, che io non avevo mai sentito nominare. Rubai Electric Ladyland dopo che Adam, con un sospiro di virtù esasperata, era uscito dal negozio.
Alla separazione non arrivammo senza rancore o recriminazioni. Io avevo già un nuovo amico e lui no. La nostra ultima conversazione ebbe luogo alla fermata dell’autobus davanti alla scuola in una calda mattinata d’ottobre. Una luce autunnale cadeva da un cielo blu cobalto che mostrava, qua e là, una nuvola così grassa e densa da sembrare gonfia di latte. Feci cenno ad Adam di staccarsi dal gruppo dei ragazzi in attesa dell’autobus e gli mostrai quel che avevo portato: due pillole giallo chiare sottratte all’armadietto dei medicinali di mia madre.
“Cosa sono?” domandò.
“Il flacone dice Valium.”
“Cos’è?”
“Non so,” dissi. “Un tranquillante, suppongo. To’. Prendine una e vedi che effetto ti fanno.”
Mi guardò senza capire. “Prendere una di quelle pillole?” disse. “Adesso?”
“Ehi, amico,” bisbigliai. “Abbassa la voce.”
“Prenderne una e andare a scuola?” domandò, a voce ancor più alta.
“Sì,” dissi. “Dai.”
“Non sappiamo nemmeno che effetto ci faranno.”
“È un modo per scoprirlo. Dai, se le prende la mia mamma, come possono far male?”
“La tua mamma è malata,” disse.
“Non più della maggior parte della gente,” replicai. Sul mio palmo le pillole, dischetti gialli grandi come unghie, riflettevano la luce suburbana. Per troncare la discussione, ne presi una e l’inghiottii.
“Strano,” disse Adam rattristato. “Strano.” Mi voltò le spalle e si unì agli altri che aspettavano l’autobus. La conversazione successiva l’avremmo avuta dodici anni dopo, quando sbucò con la moglie dalla rossa penombra di un bar di New York e mi parlò della sua lavanderia, specializzata nei lavori più difficili: vestiti da sposa, pizzi antichi, tappeti che erano ormai una cosa sola con la polvere di dieci decenni. Sembrava, a dire il vero, piuttosto soddisfatto.
Mi ficcai in tasca la seconda pillola e passai la mattinata in uno stato di sonnolenta beatitudine che s’accompagnava bene al clima. Quando vidi Bobby a pranzo, ci sorridemmo e ci dicemmo: “Ciao, amico.” Diedi a lui la pillola di Adam. L’accettò e se la ficcò in bocca con gratitudine e senza far domande. Quel giorno non raccontai storie; non aprii quasi bocca. Scoprii che per Bobby sedere in silenzio accanto a me era divertente quanto ascoltarmi.
“Mi piacciono quegli stivali,” dissi mentre lui si sedeva, per la prima volta, sul pavimento di camera mia, arrotolandosi uno spinello. “Dove li hai presi? No, un momento, questa è una di quelle domande che non bisognerebbe mai fare, vero? Penso comunque che i tuoi stivali siano meravigliosi.”
“Grazie,” mi rispose, mentre incollava abilmente lo spinello con un guizzo della lingua. Io non avevo mai fumato marijuana, ma sostenevo di farlo regolarmente da quando avevo undici anni.
“Sembra roba buona,” dissi riferendomi al sacchetto di plastica pieno di erba verde-oro che aveva tirato fuori da una tasca della giacca.
“Be’... – ecco – non è male,” disse accendendo. Non c’era disprezzo nelle sue frasi mozze, soltanto torpore e perplessità. Il tipo di esitazione, insomma, di uno smemorato che si sforza di ricordare.
“Mi piace l’odore,” dissi. “Ma forse sarebbe meglio aprire la finestra, caso mai entrasse mia madre.”
Davo naturalmente per scontato che avessimo bisogno di nemici comuni quali gli Stati Uniti, la nostra scuola, i miei genitori.
“È simpatica tua madre.”
“È a posto.”
Mi passò lo spinello. Cercai naturalmente di maneggiarlo con eleganza e professionalità. Naturalmente al primo tiro soffocai al punto che rischiai di vomitare.
“È piuttosto forte,” disse. Riprese lo spinello, aspirò una bella boccata di fumo, e me lo restituì senza far commenti. Mi sentii di nuovo soffocare e, quando mi ripresi, mi passò lo spinello per la terza volta, come se fossi stato in tutto e per tutto quel fumatore esperto che fingevo di essere. La terza volta me la cavai un po’ meglio.
Così, senza badare alla mia inesperienza, Bobby cominciò a insegnarmi le usanze dell’epoca.
Passavamo insieme ogni giornata. Era una di quelle amicizie avventate e improvvise proprie delle persone giovani, solitarie e ambiziose. A poco a poco, pezzo per pezzo, Bobby portò da me i suoi dischi, i poster e i vestiti. A casa sua restammo il tempo strettamente necessario per farmi capire da cosa lui stesse fuggendo: un odore acre e stantio di panni sporchi e di vecchi cibi e un padre che passa furtivo da una stanza all’altra con la cautela di un ubriaco. Bobby dormiva in un sacco a pelo sul mio pavimento. Giacendo nel buio, ascoltavo il rumore del suo respiro. A volte gemeva nei suoi sogni.
Dopo essersi svegliato, si guardava attorno con aria sbigottita, ma poi si rendeva conto di dov’era e sorrideva. La luce che penetrava obliqua dalla mia finestra tingeva di rame il medaglione di peli dorati sul suo petto.
Mi comprai un paio di stivali come i suoi. Cominciai a farmi crescere i capelli.
Col tempo prese a parlare con maggiore scioltezza. “Mi piace questa casa,” disse una sera d’inverno mentre sedevamo pigramente in camera mia, fumando erba e ascoltando i Doors. Fiocchi di neve battevano contro il vetro, turbinando nella strada deserta e silenziosa. I Doors cantavano L.A. Woman.
“Quanto può costare una casa come questa?” disse.
“Non molto,” risposi. “Non siamo ricchi.”
“Un giorno voglio anch’io una casa così,” disse passandomi lo spinello.
“No, invece.” Avevo ben altro in mente per noi due.
“Sì,” insisteva, “la voglio. Questa casa mi piace.”
“Non è che la vuoi,” dissi. “Credi di volerla solo perché sei fatto.”
Aspirò lo spinello con un modo raffinato, quasi femmineo, tenendolo esattamente fra il pollice e il medio. “Così sarò fatto in continuazione,” disse espirando. “E allora amerò sempre questa casa e Cleveland e tutto quanto, proprio com’è adesso.”
“Be’, potrebbe essere un modo di vivere,” replicai.
“A te non piace?” disse. “Dovrebbe piacerti. Non ti rendi conto di quello che hai qui.”
“Quello che ho qui... è una madre che al mattino mi domanda innanzitutto cosa mi piacerebbe mangiare a cena, e un padre che non lascia quasi mai il suo cinematografo.”
“Già, amico,” sogghignò.
Se ne stava lì, con l’avambraccio – polso grosso e i peli dorati – appoggiato con noncuranza sul ginocchio, come se non ci fosse niente di speciale.
Credo di sapere in quale momento il mio interesse si mutò in amore. Una sera, all’inizio della primavera, Bobby e io sedevamo insieme in camera mia ad ascoltare i Grateful Dead. Era una sera qualsiasi di questa mia nuova vita. Bobby mi passò lo spinello e ritirando la sua mano, scoprì un neo rosso scuro sotto il polso sinistro. La faccia era leggermente incredula – evidentemente nei tredici anni di conoscenza con il proprio corpo non si era mai accorto di questo particolare che io avevo invece notato in più occasioni, una macchia scolorita leggermente fuori centro, a cavallo tra due vene. Era sorpreso, forse anche un po’ spaventato vedendo la sua stessa pelle diventargli estranea. Lo toccò incuriosito con l’indice della mano destra, con un’espressione scopertamente stizzita come quella di un bambino piccolo. Mentre si preoccupava per questa piccola imperfezione, io vidi che abitava il proprio corpo così totalmente e con la stessa miscela di meraviglia e confusione con cui l’abitavo io. Prima d’allora avevo sempre creduto – pur non avendolo mai confessato, neppure a me stesso – che gli altri fossero tutti un po’ meno reali di me; che le loro vite fossero un sogno composto di scene ed emozioni simili a istantanee: discrete e precise, ovvie, uniformi. Toccò il neo sul suo polso con tenerezza, e con un pizzico di paura. Fu un gesto minuscolo. Osservarlo non era più drammatico che vedere uno che controlla il proprio orologio, e si stupisce poiché pensava fosse un’ora diversa. Ma in quel momento Bobby si aprì. Lo vedevo – era lì dentro. Si muoveva nel caos, sbalordito e spaventato di essere qui, proprio qui, vivo in una camera rivestita di pannelli di pino.
Poi quel momento passò e mi trovai dall’altra parte di qualcosa. Dopo quella sera – un martedì – non sarei più potuto tornare, neanche volendo, a una condizione che comportasse il non pensare a Bobby, e non sognarlo. Non potevo evitare di considerare ogni sua qualità con un senso accentuato del reale, né smettere di chiedermi in ogni momento come sarebbe stato esattamente entrare nella sua pelle.
Una sera dopo l’altra vagavamo per le strade come spie. Facemmo amicizia con un barbone di nome Louis che viveva in una cassa d’imballaggio e ci portava bottiglie di vino rosso in cambio del cibo che rubavamo nella cucina di mia madre. Ci arrampicavamo sulle scale antincendio fino a raggiungere i tetti del centro, per godere della strana sensazione di starcene ritti in piedi a quell’altezza. Ci facevamo di acido e ci aggiravamo per ore in un deposito di rottami luccicante come una miniera di diamanti, ricco di caverne e di bizzarri scintillii e di spazi brillanti di una pallida luce lunare che cercavo di raccogliere con le mani. Andammo in autostop fino a Cincinnati per vedere se potevamo arrivare e tornare indietro prima che i miei genitori si accorgessero della nostra scomparsa.
Una volta, un giovedì sera, Bobby mi portò al cimitero dove erano sepolti il fratello e la madre. Ci sedemmo sulle loro tombe, passandoci uno spinello.
“Amico,” disse, “io non ho paura dei cimiteri. I morti, vedi, sono soltanto persone che volevano le stesse cose che vogliamo noi.”
“E noi cosa vogliamo?” domandai con voce impastata.
“Be’, lo sai,” disse lui. “Vogliamo soltanto, be’, le stesse cose che volevano quelli che sono qui.”
“Ed era?”
Alzò le spalle. “Vivere, immagino.”
Fece scorrere le dita sull’erba. Mi passò lo spinello, inumidito dalle nostre salive e io soffiai uno sbuffo di fumo bianco verso il cielo, dove tremolavano e scintillavano le Pleiadi. Cleveland mandava lassù le sue luci – televisori e lampade da tavolo. Un’auto di passaggio si lasciò dietro qualche battuta di Fletter Skelter nella fredda aria notturna.
Venne aprile. Non era ancora tempo di nuotare, ma io insistetti perché andassimo alla cava, appena fossero sparite dalle zone in ombra le ultime croste di neve. Sapevo che avremmo nuotato nudi. Volevo accelerare l’avvento della stagione.
Era una di quelle giornate di primavera che emergono terse dal lungo lunghissimo gelo con un cielo chiaro come neve sciolta. Sul terreno erano spuntati i primi intrepidi fiori a grosso stelo. La cava, cinque chilometri fuori città, rifletteva l’aria su una superficie scura e immota come ossidiana. A parte una mucca solitaria color caramello che si era allontanata da un pascolo per venire a bere nelle secche, Bobby e io eravamo le sole creature viventi. Come se fossimo andati in gita in un lago ghiacciato in cima all’Himalaya.
“Bello,” disse, mentre ci passavamo uno spinello. Da un frassino ancora in boccio si levò in volo una ghiandaia azzurra con un unico stridio interrogativo.
“Dobbiamo nuotare,” dissi io. “Dobbiamo farlo.”
“Fa ancora troppo freddo,” mi rispose. “L’acqua sarà gelata.”
“Dobbiamo farlo lo stesso. Dai. È la prima nuotata ufficiale dell’estate. Se oggi non nuotiamo, domani nevicherà di nuovo.”
“Chi te l’ha detto?”
“Lo sanno tutti. Dai.”
“Può darsi,” disse lui. “Ma fa un freddo cane.”
Intanto eravamo arrivati a quel letto di ghiaia che passava per una spiaggia, dove la mucca, ferma in un atteggiamento compassato sul bordo dell’acqua, mi guardò con quei suoi occhi neri come il carbone. La cava aveva grosso modo la forma di un ferro di cavallo, con rocce di calcare che si levavano in un frastagliato semicerchio per poi ricadere sulla spiaggia.
“Non fa per niente freddo,” dissi a Bobby, “sembra di stare alle Bermude. Guardami.”
Stimolato dal timore che per quel giorno ci saremmo limitati a fumare uno spinello, completamente vestiti, davanti a un cerchio d’acqua scura, mi avviai su per il pendio roccioso che portava in cima alla scogliera. Le rocce più vicine erano alte meno di sei metri, e d’estate i nuotatori più coraggiosi le usavano per tuffarsi nelle acque profonde. A me non era mai venuto in mente di farlo. Ero tutt’altro che un ardimentoso. Ma quel giorno m’inerpicai, con gli stivali da cowboy che ancora mi facevano male, fino alla piattaforma di calcare incrinato, dove qua e là spuntava un fiammeggiante croco giallo.
“Quassù è estate,” gridai a Bobby, che era rimasto solo sulla spiaggia con le mani a coppa per proteggere lo spinello. “Su,” gridai. “Non stare a saggiare l’acqua con le dita, vieni qui e ci tuffiamo. Dobbiamo farlo.”
“No, Jon,” gridò a sua volta. “Torna indietro.”
Allora cominciai a spogliarmi, in uno stato di assoluta canticchiante euforia. Era un Jonathan più sicuro di sé e più intrepido quello che sulla cima di una roccia scaldata dal sole si stava spogliando nudo sotto lo sguardo perplesso di una mucca intenta ad abbeverarsi.
“Jon!” gridò Bobby, più pressante.
Mentre mi toglievo la camicia, e poi gli stivali e i calzini, conobbi una sensazione di abbandono totale che non avevo mai provato. Aumentava ogni volta che un nuovo tratto di pelle entrava in contatto con la luce e con l’aria fresca e luminosa. A ogni indumento che toglievo, mi sentivo più leggero, era come aprire nuove possibilità. Mi sfilai goffamente jeans e mutande, e per un attimo, magro, nudo ed eccitato, mi lasciai accarezzare da quel sole freddo.
“Ecco,” urlai.
Bobby, molto più in basso, disse: “Ehi, amico, no...”
Allora, per amore di Bobby, per amore della mia nuova vita, mi tuffai.
Un sottile strato di ghiaccio galleggiava ancora sull’acqua, non più di una membrana, invisibile prima che lo sfondassi. Udii un leggero crepitio, sentii il ghiaccio frantumarsi tutt’intorno a me, e precipitai in un freddo inimmaginabile, che mi tolse il fiato e mi diede anche per un attimo l’impressione di avermi fermato il cuore. Mi si contrasse la carne, aggrappandosi alle ossa in un terrore animalesco, e pensai con estrema lucidità: “Sono morto. Ecco di che si tratta.”
Poi tornai in superficie, sfondando il ghiaccio per la seconda volta. La consapevolezza scivolò letteralmente fuori dal mio corpo, e ripensandoci ebbi la netta impressione di guardarmi nuotare verso la spiaggia, ansimante, con i polmoni contratti come pugni e il ghiaccio che si frantumava a ogni bracciata, mandando in aria schegge di diamante.
Bobby entrò in acqua immergendosi fino alle cosce per aiutarmi a venire fuori. Ricordo i suoi jeans bagnati che aderivano alle gambe come un’altra pelle. I suoi stivali si sarebbero ormai rovinati.
Ci volle ancora un momento prima che la mente mi si schiarisse quanto bastava per capire che stava sbraitando contro di me persino mentre mi aiutava a uscire dall’acqua.
“Maledizione,” urlava, con la bocca vicinissima al mio orecchio. “Maledizione a te. Maledizione.”
Ero troppo occupato a respirare per poter rispondere. Mi trascinò fin sulla sabbia prima di lasciarmi andare e di dare il via a una vera e propria predica. Non potei far altro che starmene lì a respirare e rabbrividire mentre lui continuava a sbraitare.
Dapprima camminò avanti e indietro con un’andatura rigida, come se volesse raggiungere due obiettivi invisibili a tre metri di distanza l’uno dall’altro, urlando: “Pezzo di merda, stupido pezzo di merda.” E man mano che urlava, il percorso fra i due obiettivi diventava sempre più breve, finché non si trovò a camminare in piccoli e stretti cerchi, seguendo il modello di una molla attorcigliata. Era rosso in viso. Infine smise di camminare, ma girò completamente su se stesso altre tre volte, come se la molla continuasse ad attorcigliarsi dentro di lui. E non cessava di urlare. Però non mi dava più del pezzo di merda, preferendo emettere suoni che non potevo capire, un flusso di furenti balbettii apparentemente rivolti non a me ma al cielo e alle rocce, agli alberi muti.
Io guardavo in silenzio. Non avevo mai visto una collera del genere; non potevo immaginare che lui potesse sfogarsi nella vita di ogni giorno. Dovevo soltanto aspettare, sperando che finisse al più presto.
Dopo un po’, senza avvertirmi su cosa intendesse fare, Bobby corse a recuperare i miei vestiti in cima alla roccia. La sua furia, pur essendosi un po’ placata, non si era ancora esaurita. Io rimasi nudo sulla ghiaia ad aspettarlo. Quando tornò coi miei vestiti e i miei stivali, li lasciò cadere in una pila ai miei piedi, dicendo: “Sbrigati a metterteli”, in un tono di profondo rimprovero. Feci quel che mi aveva ordinato.
Quando ebbi finito di vestirmi, coprì la mia giacca con la sua. “No, serve a te,” dissi. “Hai i pantaloni tutti bagnati...”
“Sta’ zitto.” E io obbedii.
Tornammo sulla superstrada a fare l’autostop per tornare in città. Lungo il cammino, Bobby mi cinse le spalle con un braccio stringendomi a sé. “Stupido coglione,” mormorò. “Stupido, stupido. Stupido.” E continuò a tenermi abbracciato sia quando stavamo con i pollici alzati sul ciglio della strada, sia sul sedile posteriore della Volkswagen di due studenti di Oberlin che ci avevano dato un passaggio. Tenne il braccio intorno a me per tutto il percorso, senza mai smettere di borbottare.
Arrivati a casa, aprì al massimo il rubinetto dell’acqua calda e mi ordinò di andare sotto la doccia. Solo quando ebbi finito e mi aveva avvolto nell’accappatoio, anche lui si tolse i vestiti bagnati e fece la doccia. Nel bagno pieno di vapore, la sua pelle nuda era di un rosa vivo. Quando ne uscì, luccicante e costellato di goccioline, un medaglione di peli chiari era incollato al suo petto.
Andammo in camera mia, mettemmo su Jimi Hendrix e arrotolammo uno spinello. Sedemmo a fumare in accappatoio. “Stupido,” sussurrò. “Potevi ammazzarti. Lo sai come mi sarei sentito se l’avessi fatto?”
“No,” dissi.
“Mi sarei sentito come, non so.”
Mi guardò allora con un’espressione così addolorata che posai lo spinello nel portacenere e, con un atto di coraggio ben superiore a quello di gettarmi da una roccia nell’acqua ghiacciata – che aveva eclissato già tutti i miei atti di coraggio messi assieme – allungai una mano e la posai sul suo avambraccio. Ora quel braccio muscoloso con i peli dorati era sotto le mie dita. Abbassai lo sguardo sul pavimento – il tappeto intrecciato e le assi color zucca. Bobby non ritirò il braccio.
Passò un minuto. Doveva succedere qualcosa o niente. Terrorizzato, con le pulsazioni che salivano fino al collo, cominciai ad accarezzargli il braccio con la punta dell’indice. Adesso, pensavo, capirà cosa voglio. Adesso si ritrarrà inorridito e disgustato. Ma insistetti in quell’unico minuscolo gesto, con una paura così potente da essere indistinguibile dal desiderio. Non indietreggiò e non rispose.
Riuscii finalmente a guardarlo in faccia. I suoi occhi erano accesi e impassibili come quelli di un animale, la sua bocca allentata. Capii che era anche lui spaventato, e fu la sua paura che mi permise di spostare la mano sulla sua spalla nuda. Uno strato di pelle d’oca si stese sulla larga e liscia curva della scapola. Sentii il suo respiro lieve alzarsi e abbassarsi.
Rapidamente, non avendo il coraggio di agire con gradualità, posai la mano sulla sua coscia. Bobby sussultò e fece una smorfia, ma non si ritrasse. Infilai allora la mano sotto il suo accappatoio. Vidi scorrere nei suoi occhi espressioni di paura e di piacere. Non sapendo bene che fare, ripetei le stesse carezze che facevo a me stesso. E quando s’irrigidì nella mia mano, mi sembrò un gesto di perdono.
Poi allungò una mano e, con sorprendente delicatezza, mi toccò a sua volta. Non ci baciammo. Non ci abbracciammo. Jimi cantava Purple Haze. La caldaia rimbombava nelle profondità della casa. Il vapore sibilava nei tubi.
Poi ci asciugammo con dei kleenex e ci vestimmo in silenzio. Ma, una volta vestito, Bobby si riaccese lo spinello e cominciò con la sua solita voce a parlare delle solite cose: il prossimo giro di concerti dei Dead, il nostro progetto di trovarci un lavoro e comprarci una macchina in società. Ci passavamo lo spinello e sedevamo sul pavimento come due adolescenti americani qualsiasi, in una casa qualunque circondata dalla noia e dal primo verde di una primavera nell’Ohio. Era stata un’altra lezione nella mia educazione permanente: come altre pratiche illegali, anche l’amore fra ragazzi era bene trattarlo come un fatto ordinario. La cortesia imponeva che questa goffa e maldestra prestazione non fosse oggetto di commenti come se, di fatto, ci fossimo comportati con la pacata perizia di perfetti criminali.