Clare
Tutto ciò che disse fu: “Tipica visita ai genitori. Film e senso di colpa. Ora vivono in un pueblo.” Ma da allora Jonathan divenne più silenzioso, più incline alla segretezza e alle frasi lasciate a metà. Tenne chiusa la porta di camera sua. E in marzo annunciò di aver deciso di andarsene.
Gli domandai perché.
“Per avere una vita.”
E quando gli chiesi cosa esattamente stesse vivendo, disse: “Un biglietto annullato.”
Era mattina. Una di quelle pallide e vischiose mattine di marzo che si susseguono come srotolandosi da un rocchetto. Jonathan guardava fuori dalla finestra del soggiorno. Dicendo “biglietto”, si toccò i capelli con la punta delle dita, in un gesto accigliato da bar.
“Tesoro,” provai, “cerca di spiegarti meglio.”
Sospirò, restio ad affrontarmi con parole chiare. Le manifestazioni di gioia, affetto o generosità gli venivano facili. Aveva una buona dialettica. Ma quando era triste o arrabbiato, aveva bisogno di un’immagine da cui partire. Lo avevo visto infuriarsi con gli occhi fuori dalle orbite alla maniera di Bette Davis, e soffrire del proprio imbarazzo come un ragazzo di strada, con lo sguardo abbassato e le mani strette a pugno. Ma i colpetti ai capelli e gli occhi fissi oltre la finestra erano una novità.
“Su, parla.”
Si girò verso di me. “La vita cui mi stavo preparando è stata cancellata. Pensavo di rimanere senza legami e di amare una quantità di persone differenti. Te e Bobby compresi.”
“Puoi farlo.”
“No che non posso. È una nuova epoca, si stanno tutti sposando.”
“Io no, grazie.”
“Sì, invece. Tu stai con Bobby ora. Io devo trovare qualcuno che sia mio, e ho la sensazione di non avere molto tempo. Insomma, Clare, che succederebbe se mi ammalassi?”
Feci una pausa. “Tu non sei malato.”
“Tu non lo sai. Si potrebbe non saperlo per anni.”
“Jonathan, tesoro, stai diventando melodrammatico.”
“Davvero?”
“Sì. Tu stai benissimo, te lo assicuro. Sei in perfetta salute. Non andartene adesso, distruggeresti la famiglia.”
“Siete tu e Bobby, la famiglia. Voi due soli.” E tornò a voltarsi verso la finestra, dove, oltre il pozzo d’aerazione, una giovane portoricana stava stendendo ad asciugare le mutandine di un bimbo e i calzini neri di un uomo.
Pensai che prima o poi sarei rimasta incinta. Avevo smesso di prendere precauzioni. Ma mi sembrava di non poterlo dire a nessuno, né a Bobby né a Jonathan. Mi vergognavo, forse, dei miei motivi. Non mi garbava l’idea di essere una persona subdola e calcolatrice. Ciò che volevo, in realtà, era restare incinta accidentalmente. Lo svantaggio inaspettato della vita moderna è la vittoria sul nostro stesso destino. Siamo chiamati a decidere su tante cose, quasi su tutte, e siamo esaurientemente informati su tutti gli effetti. In un’altra epoca, avrei avuto dei bambini fra i venti e i trent’anni, quando ero sposata con Denny. Sarei diventata madre senza averlo realmente deciso. Senza pensare alle conseguenze. Ma Denny e io eravamo stati prima troppo assennati – vivevamo entrambi del mio fondo fiduciario e lui aveva grandi ambizioni – e poi troppo furiosi per poter procreare. Io rimasi accidentalmente incinta a opera di un membro della compagnia di danza di Denny che mi aveva detto di essere gay. Ma avevo dovuto sbarazzarmene. A quell’età, in quel periodo, ti sbarazzavi degli estranei. Ti mantenevi snella e senza ingombri, pronta a viaggiare.
Ora invece volevo un bambino e volevo crescerlo con Jonathan. Avremmo formato un nuovo tipo di famiglia, più allargata, con zie e zii in ogni parte della città. Ma non potevo indurmi a confessare ciò che avevo in mente. Cercavo di organizzare il mio incidente. Avevo solo bisogno di più tempo.
Nel tentativo di rincuorare Jonathan, lo persuasi a portare a casa Erich per cena. Lui non voleva. Mi toccò insistere. Ci volle più di una settimana. Tuttavia non mi arresi, perché credevo in quello che stavo facendo. La mia teoria sull’inquietudine di Jonathan era semplice. Aveva permesso che la sua vita si dividesse in tanti compartimenti stagni. C’era il suo lavoro, la sua vita con me e Bobby e gli amici degli anni del college, una vita sessuale un po’ disordinata con estranei e una relazione in corso con un uomo che nessuno di noi aveva mai incontrato. Credevo che avesse bisogno di uno spazio più organico in cui confluissero varie esperienze.
“Perché non vuoi portare a cena Erich?” gli domandai una buia mattina che non si decideva a risolversi in pioggia. “Ti vergogni di noi?”
Indossavo una vestaglia rosa di ciniglia e mi ero legata i capelli con una bandana a strisce. Mi vidi per un attimo come una moglie bisbetica, con le mani chiuse a pugno sui fianchi ossuti. Un’immagine tutt’altro che lusinghiera. Ma non mi dispiaceva completamente. Una donna del genere, se non altro, sapeva ciò che voleva. L’ambiguità e l’indecisione non le sciamavano intorno come mosche.
“No, naturalmente. Te l’ho già detto. Lui e gli Henderson non andrebbero d’accordo.”
Stava cercando di uscire a lavorare. Si era già messo una scarpa. E stava sorseggiando un caffè, mentre Bobby gli imburrava una ciambella.
“Non inviteremo gli Henderson. Saremo solo noi quattro, cittadini normali troppo preoccupati delle proprie manchevolezze per notare quelle altrui.”
“Tra noi non c’è questo tipo di rapporto.”
“Quale tipo?”
“Il tipo ‘vieni a conoscere i miei coinquilini’. Sarebbe imbarazzante. Per tutti.”
“Come lo sai, se non hai mai provato?” domandai. “Tesoro, se devo essere sincera, penso che tu ponga dei limiti ai tuoi rapporti decidendo in anticipo, e del tutto arbitrariamente, cosa possono e non possono comportare.”
Bobby portò a Jonathan la sua ciambella e mi diede una pacca affettuosa sul sedere. Pensai spaventata alle notti tranquille che avremmo passato insieme. All’immutabile routine domestica che si prospettava.
“Forse hai ragione. Ora devo andare. Ciao.”
Lo seguii in anticamera. “Non gli racconteremo nulla dei tuoi segreti,” gli gridai dietro. “Non faremo battute cretine né gli mostreremo diapositive della nostra gita al parco nazionale.”
A forza d’insistere, ottenni ciò che volevo. La mia persistenza, anche se il più delle volte funzionava, poteva essere difficilmente considerata una virtù, poiché non avevo la pazienza di sostenerla. La caparbia determinazione mi aveva portato, contro qualsiasi ragionevole consiglio, a sposare un ballerino misticheggiante, e poi a innamorarmi di una donna famosa che prometteva di insegnarmi a non odiare più me stessa, fino al commercio di abiti usati, alla scuola per parrucchieri, al buddismo e alla modern dance. I bulldog forse avevano lo stesso genere di problema. Una volta che piantano i denti nell’orecchio o nella coda di un toro, pensano probabilmente di aver già abbattuto l’intero animale.
Erich venne a cena un venerdì sera. Bobby e io stavamo preparando quel tipo di pasto sano e frugale che era allora di moda. Pasta con erbe fresche, pollo arrosto, verdure di tre continenti. Volevamo impressionare. E mentre cucinavamo, si facevano congetture sulla personalità dell’ospite.
“Un tipo pensieroso, credo,” dissi io. “Uno di quegli individui silenziosi e umorali che la gente definisce ‘difficili’, intendendo dire in realtà che sono dei rompicoglioni.”
“Pensi che Jonathan possa perdere la testa per un tipo del genere?” disse Bobby.
“Penso che possa esserne attratto. Ricordati che non l’ha presentato a nessuno dei suoi amici.”
Bobby stava tagliando a cubetti un peperone giallo. Io, con la schiena premuta contro la sua, lavavo la rucola. Ci eravamo abituati a lavorare insieme in quella minuscola cucina, imparando a muoverci in armonia.
“Uh-huh. Be’, forse hai ragione. Io invece m’immagino una specie di criminale.”
“Un criminale? Davvero?”
“Non un assassino. Non un criminale cattivo, piuttosto uno spacciatore. Un truffatore.”
“Ma è un attore. Almeno questo lo sappiamo.”
“Oh, io credo che molti di loro spaccino. Non lo pensi anche tu? Come potrebbero mantenersi, se no?”
“E come te lo vedi?”
“Be’, scuro. Non bello ma interessante. Una specie di hippy, del tipo inappuntabile. Me lo figuro con una piccola coda di cavallo.”
“Hmm. Io lo immagino giovanissimo. Sai, uno di quei biondini tirati a lucido che arrivano dal Middle West e finiscono girando spot per i dentifrici.”
“Be’, vedremo,” disse Bobby. E mezz’ora dopo vedemmo.
Jonathan ed Erich arrivarono insieme. Portarono tulipani gialli da serra e una bottiglia di vino rosso. Jonathan fece entrare Erich per primo. E rimase vicino alla porta come se potesse sgusciar via piantandoci lì tutti e tre.
Erich strinse la mano prima a me, poi a Bobby. “Piacere di conoscervi.”
Era magro e semicalvo. Indossava un paio di jeans e una camicia polo blu scura con il marchio di Ralph Lauren – un cavallino da polo – cucito in rosso sul petto.
“Erich, l’uomo del mistero.”
La sua fronte alta si offuscò. Aveva un viso aguzzo, con un piccolo mento aguzzo e un naso aguzzo e luminosi occhietti ravvicinati. Un viso tirato, spaventato. Erich poteva essere uno di quelli che finiscono con la testa schiacciata fra le porte di un ascensore. Annuì.
“In realtà non sono un mistero. Oh, per niente. Mi dispiace che non ci siamo conosciuti prima. Io sono, ecco, sono molto contento di essere qui.”
Rise, in un modo da far pensare che gli avessero dato un pugno nello stomaco.
“Che ne diresti di un drink?” dissi. Rispose che avrebbe gradito un bicchiere di soda, e Jonathan corse a prendere da bere. Ci sedemmo in soggiorno.
“È un bell’appartamento,” disse Erich.
“È una topaia,” replicai. “Ma grazie. Nell’atrio non hai dovuto scavalcare cadaveri, vero?”
“Oh, no. Perché? È già successo?”
Non capii se l’idea che nell’atrio fossero stati commessi dei delitti gli ripugnasse o lo eccitasse. Aveva una di quelle voci entusiastiche e indecifrabili.
“Non di recente... Dunque, sei un attore.”
“Sì. Be’, non lo so più. Ultimamente sono solo una specie di barista. E tu che cosa fai?”
Si era seduto sulla poltrona che avevo trovato nella First Avenue. Un vecchio mostro con lo schienale a ventaglio e una fodera di broccato verde. Era appoggiato come se gli avessero raccomandato di occupare il minimo spazio possibile, con le gambe incrociate al ginocchio e le mani giunte sulla coscia.
“La trafficante di ciarpame. Faccio orecchini con i rifiuti.”
Annuì. “E ci guadagni da vivere?”
“In certo qual modo.”
Non parlavo mai agli estranei del mio fondo fiduciario. Mi sentivo troppo frivola e viziata disponendo di un reddito che non mi ero guadagnata, quando attorno a me tutti arrancavano per pagare l’affitto. Avevo sempre avuto un lavoro, ma non di quelli orribili e inesorabili che la gente si costringe a fare per coprire tutte le spese.
Ora mi sentivo, confusamente, come se avessi rivelato qualcosa d’incriminante. Erich poteva essere un infiltrato della CIA. Un agente segreto talmente banale e scoperto che la gente gli spiattellava i suoi piccoli raggiri perché si sentiva a disagio.
Jonathan ci portò da bere. “Alla fine del mistero,” dissi io, e tutti brindammo a questo.
“C’è qualche tipo di musica che ti piace?” domandò Bobby.
Erich batté le palpebre girandosi verso di lui. “Ma... Per me tutti i tipi vanno bene.”
“Adesso metto su un disco,” disse Bobby alzandosi. “C’è qualcosa di particolare che ti piacerebbe ascoltare?”
“Vediamo cos’hai.” E con grazia sorprendente balzò in piedi dalla sua sciagurata poltrona e seguì Bobby fino al mangiacassette.
Ciò diede a me e a Jonathan la prima occasione di un contatto di sguardi. Le sue labbra emisero senza alcun suono le parole: “Te l’avevo detto.”
Bobby s’accovacciò davanti agli scaffali dove tenevamo le cassette. “Abbiamo un po’ di tutto, copriamo, più o meno, l’intera gamma.”
“Avete Coltrane,” disse Erich. “Oh, guarda, avete anche i Doors.”
“Ti piacciono i Doors?” domandò Bobby.
“Quando ero più giovane avrei voluto essere Jim Morrison. Mi esercitavo tutti i giorni a ripetere i suoi movimenti nel cortile dietro casa, sincronizzando sia i gesti che le labbra. Ma poi mi accorsi che non avevo ‘l’attrezzatura’ necessaria.” Rise, con una stupefatta e improvvisa emissione d’aria.
“Mettiamolo subito,” disse Bobby, e spinse dentro la cassetta.
“Ti piace Bob Dylan?” domandò poi a Erich.
“Oh, certo. Avrei voluto essere anche lui.”
“Mi sono portato qualche disco dall’Ohio,” disse Bobby. “Ce ne sono anche di piuttosto rari. E Hendrix?”
“Lo adoro. Era, come dire, il più grande.”
“Certi dischi sono riuscito a sostituirli con delle cassette. Ma alcuni sono troppo rari. Vuoi vederli?”
“Okay. Certo. Certo che voglio vederli.”
“Ma non possiamo ascoltarli. Non abbiamo ancora un giradischi. Dovremo comprarne uno. Anche se stanno passando di moda.”
“Io ce l’ho un giradischi. Se vuoi, potresti venire un giorno a casa mia ad ascoltarli. Se vuoi.”
“Oh, magnifico. Sarebbe magnifico. Vieni, i dischi li teniamo nella camera mia e di Clare.”
Erich disse a me e a Jonathan: “Volete scusarci un momento?” E lo vidi all’improvviso quale doveva essere stato a otto o nove anni: gentile e pronto all’entusiasmo come alle lacrime, un mistero per i suoi genitori.
“Naturalmente,” risposi. E quando se ne furono andati, dissi a Jonathan, sottovoce: “Be’, sembra che i ragazzi vadano perfettamente d’accordo.”
Lui scosse il capo: “Te l’avevo detto che sarebbe stato un disastro. Ma tu non hai voluto ascoltarmi.”
“Sciocchezze. Non è un disastro. Bobby se n’è innamorato.”
“E tu lo consideri un fessacchiotto e un noioso.”
“Jonathan. Lo conosco da meno di cinque minuti.”
“Cinque minuti bastano. Dovresti andarci a letto perché lui abbia più senso di adesso.”
“Non capisco perché, se ti è tanto antipatico, tu abbia continuato a vederlo per tutti questi anni.”
“Sesso. È la mia follia. Oh, suppongo di essergli anche affezionato, ma in modo tutt’altro che romantico. Solo che non volevo mischiarlo al resto della mia vita, e avevo ragione.”
“Sei proprio un tipo strano.”
“Figurati se non lo so.”
Quando tornarono Bobby e Erich, proposi di berci un aperitivo sul tetto per vedere il tramonto. L’importante era tenere il party in movimento, anche fisicamente se necessario. Era una serata insolitamente tiepida di fine marzo. Quel tipo di clima che fa pensare a una primavera anticipata o agli effetti di un esperimento nucleare.
Jonathan approvò con entusiasmo. Bobby e Erich meno. Sapevo che cosa stavano pensando. Se fossimo saliti sul tetto, si sarebbero persi il prossimo brano di Strange Days.
“Ragazzi, possiamo sempre riprendere la musica da capo quando torneremo giù,” dissi, e fu una sorpresa sentirmi parlare come una madre.
Salimmo le scale fino al tetto, un piano incatramato delimitato sui bordi da frontoni di calcestruzzo. Un sole arancione incombeva sull’orizzonte del New Jersey. Le antenne televisive gettavano ombre intricate simili a uccelli. Le finestre degli alti edifici del centro mandavano lampi color ambra e bronzo. Una grossa nuvola macchiata di rosa, ogni onda della quale si staccava dalle altre come avorio scolpito, veleggiava assorbendo le ultime luci di Brooklyn. Tendine increspate e musica salsa erompevano da una finestra aperta sull’altro lato del vicolo.
Restammo in piedi guardando verso ovest, con ombre lunghe sei metri dietro di noi.
“Bello,” disse Jonathan. “Proprio quando pensi di trasferirti in campagna, la città ti offre un simile spettacolo.”
“Io adoro il tetto,” dissi. E di nuovo mi sorprese il suono della mia voce. Quando mi ero trasformata in una perfetta padrona di casa?
“Nel mio quartiere non si sente mai una musica del genere,” disse Erich. “Mai questa roba messicana.”
“A me piace,” disse Bobby.
“Anche a me,” disse Erich.
Bobby dimenò i fianchi seguendo il ritmo, e cominciò subito a ballare. Guardandolo camminare un po’ incerto e con una punta di perplessità nel corso della giornata, rischiavi di dimenticare la sua bravura di ballerino. Era una delle sue sorprese. Dal momento in cui echeggiava una nota musicale, sapeva muoversi con grazia e vivacità straordinarie. Come se si liberasse di qualche peso interiore. Un fantasma di carne, ossa e cartilagini che si dissolveva al primo strimpellare di una chitarra o al gemito di una cornetta telefonica. Sul disco una donna, con un sottofondo di maracas e chitarre, cantava a squarciagola in spagnolo, con una passione spudoratamente semplice. Bobby, che amava ogni sorta di musica, buona o cattiva, continuò a ballare mentre spariva il sole.
Erich gettò un’occhiata a me e a Jonathan. Capii che cosa stava pensando. “Buttati,” dissi. E lui, con un timido sorriso, si mise a ballare con Bobby.
Come ballerino non era neanche lontanamente paragonabile a Bobby, ma muoveva i piedi a tempo e faceva piccole contorsioni con le braccia. Bobby si girò verso di lui mentre il cielo rinunciava al suo ultimo frammento d’azzurro e una pallida stella compariva a est in un violetto sempre più carico.
Jonathan e io restammo a guardare col bicchiere in mano. “Non credo di voler fare lo chaperon a questa festa. E tu?”
“No,” risposi. “Non particolarmente.”
Jonathan posò il suo bicchiere sul parapetto e si unì a Bobby e Erich. Era un ballerino controllato ma elegante. Si muoveva all’interno di una piccola colonna d’aria di cui non varcava mai i confini. Io guardavo. Per un attimo – un attimo soltanto – sentii il mondo che girava vorticosamente allontanandosi da me. Mi vidi in piedi nell’ultima luce del giorno, invecchiare in un vestito rosso preso in un negozio d’abiti usati, mentre giovani uomini ballavano fra loro. Un attimo tutt’altro che consueto. Sentii tuttavia di averlo già vissuto in passato.
Per tornare alla realtà, mi misi a ballare anch’io. Cos’altro potevo fare? I tacchi delle mie scarpe restavano appiccicati al catrame, producendo tutta una serie di macchie, finché non mi decisi a toglierle e a ballare coi piedi coperti solo dalle calze.
Jonathan disse: “Okay, facciamo il numero sul tetto di West Side Story. Sei pronta?”
“Come comincia?” domandai.
“Vediamo. I like to be in America.”
“Okay by me in America.”
“Everythingfree in America.”
“For a small fee in America.”
Urlavamo battendo le mani. Finito il numero, feci tre ruote perfette, una dopo l’altra. Non mi succedeva da almeno quindici anni. Sentii le gambe che lampeggiavano linde e diritte come coltelli.
“Una volta volevo diventare una ragazza pon-pon,” dissi. “Quando non avevo ancora deciso di andare semplicemente all’inferno.”
A quel punto qualcosa s’impadronì di noi. Ricordai la sensazione di quando ero bambina e un gioco cominciava a prendere quota. Bobby si sbottonò la camicia, che si gonfiò al vento. Danzammo tutti esageratamente, come membri di un corpo di ballo di Broadway, con salti e piroette. Finita la musica salsa, ci mettemmo a cantare quel che ricordavamo della canzone dei Jets e Officer Krupke. Cantammo anche tutti i numeri di Hair.
Bobby disse: “Mio fratello metteva su quel disco dieci volte al giorno. Finché nostra madre non lo buttò via. Lui se ne comprò un altro. E allora lei buttò via il suo stereo.”
“Un mio cugino ha recitato in Hair,” feci io. “Un paio d’anni fa, in un caffè-teatro della Florida.”
Cantammo qualche numero di South Pacific e tutto quello che ricordavamo di My Fair Lady. Ballammo al suono delle nostre voci. E quando non ce la facemmo più ci sedemmo sul catrame scaldato dal sole a respirarne l’odore misto di terra acida e sostanze chimiche. Continuammo a cantare. A un certo punto, mentre cantavamo Get Me to the Church in Time, gettai un’occhiata a Jonathan e lo sorpresi a guardarmi con un’espressione che non gli avevo mai visto. Era uno sguardo torvo e ferito, una via di mezzo fra la rabbia e il dolore. Quando i nostri occhi s’incontrarono, s’affrettò ad alzare i suoi al cielo. Cantammo I Heard It Through the Grapevine e Norvegian Wood. Bobby e Jonathan cantarono insieme un paio di canzoni di Laura Nyro finché non li costrinsi a passare a qualcosa che conoscessimo tutti. Restammo seduti a cantare su quel tetto finché non venne davvero buio e intorno a noi la città fiammeggiò di dieci milioni di party.