Bobby
La luna ci sta seguendo, una bianca mezzaluna in un cielo azzurro polvere. Stiamo tornando a casa dal negozio d’alimentari: io, Erich e Jonathan. Erich in questi giorni è una presenza sfuggente. C’è e non c’è. Se non stessi guidando, potrei agguantarlo per impedirgli di volar via dall’auto. Invece dico a Jonathan: “Come se la cava lì dietro?”
Jonathan si girò verso il sedile posteriore. “Stai bene, Erich?”
Erich non risponde. Ha una crisi di assenza. Chissà cosa ascolta. “Credo che stia bene,” mi dice Jonathan. Annuisco e continuo a guidare. Scorrono fattorie su entrambi i lati della strada. Le mucche si occupano delle loro solite faccende, implacabili come la storia.
Arrivati a destinazione, aiutiamo Erich a scendere dalla macchina, lo guidiamo sugli scalini della veranda. Sorride con la confusa beatitudine dei vecchi. Forse è contento di essere di nuovo a casa. Forse ricorda un giocattolo che gli avevano regalato quando aveva quattro anni. Mettiamo via le provviste in cucina.
“Che ne diresti di un bagno?” dico.
“Pensi che ne abbia bisogno?” mi chiede Jonathan.
“Penso che gli farebbe piacere.”
Lo guidiamo di sopra, apriamo i rubinetti. Il vapore fa luccicare le bianche piastrelle scheggiate. Aspettando che la vasca si riempia, aiutiamo Erich a spogliarsi. Lui non resiste né partecipa. La sua faccia assume un’espressione attonita, qualcosa di diverso dall’inespressività. Quando perde il contatto con se stesso, passa a questo sguardo di mite incomprensione, come se non credesse del tutto al vuoto che vede. È uno sbalordimento disgiunto dalla paura e dalla meraviglia. Niente in comune con la faccia di un neonato.
Una volta nudo, lo mettiamo seduto sul coperchio del gabinetto. La vasca si riempie lentamente. Erich siede tranquillo e obbediente, con le mani che pendono molli fra gli steli delle sue gambe. Jonathan allunga una mano a toccargli i capelli.
“Metto su un po’ di musica,” dico.
“Okay.” Jonathan rimane in piedi accanto a Erich, sostenendogli le scapole con una mano. Con l’altra continua a fargli caute e confortanti carezzine ai capelli.
Accendo la radio della camera da letto. È sintonizzata su una stazione che dà solo vecchi successi, la musica della nostra infanzia. In questo momento Van Morrison canta Madame George. Alzo il volume perché arrivi fino in bagno.
Quando torno, Jonathan dice: “È una grande canzone. È sempre stata una delle mie preferite.”
“Vuoi ballare?” gli chiedo.
Mi guarda dubbioso, chiedendosi se ho voluto fare una battuta.
“Su,” gli dico, tendendo le braccia. “Erich non cadrà. Vero, Erich?”
Erich fissa i suoi piedi nudi. Con cautela, Jonathan ritrae le mani. Erich non casca. Un attimo dopo Jonathan viene fra le mie braccia e balliamo un valzer. Le nostre scarpe battono sulle piastrelle nude. Sento la perenne agitazione di Jonathan. Vibra sulla sua pelle come un groviglio di fili elettrici. Faccio scorrere su e giù le mani lungo i bottoni della sua spina dorsale. Van canta: “Say goodbye to Madame George. Dry you eyes for Madame George.”
“Bobby?” dice Jonathan.
“Uh-huh?”
“Oh, non importa. Stavo per dire qualcosa di stupido tipo ‘Sono spaventato’, ma è ovvio che lo sono. Lo siamo tutti.”
“Be’, sì. Voglio dire, suppongo che sia vero.”
Balliamo fino al termine della canzone. Mi piacerebbe dire che Erich sorride o muove la testa seguendo il ritmo. Sarebbe bello pensare che si unisce a noi sia pure un poco. Ma è assorto nel suo mistero, contempla un buco che continua ad allargarsi. Finito di ballare, lo aiutiamo ad alzarsi e lo adagiamo nella vasca. Fra tutti e due gli sfreghiamo la testa e il collo macilento. Laviamo il suo petto infossato e le cavità profonde sotto le ascelle. Per un attimo sorride. Per il piacere del bagno o per qualcosa di più personale.
Dopo il bagno, lo mettiamo a letto. È il tardo pomeriggio. Jonathan dice: “Farò un salto al ristorante e sistemerò i conti, d’accordo?” Gli dico che io intanto sostituirò le assicelle mancanti.
Andiamo a sbrigare le nostre incombenze. È un normale pomeriggio, sempre più afoso con l’avvicinarsi della sera. Jonathan va in città. Io appoggio la scala a pioli alla casa e mi arrampico con le braccia cariche di nuove assicelle di cedro. Sembreranno nude e gialle accanto alle vecchie color caffè. Le vecchie assicelle, cosparse di aghi di pino, scricchiolano e si scheggiano sotto le mie mani e i miei piedi.
Dal tetto posso vedere lontano. Posso vedere la nostra piccola proprietà, e i campi e le montagne dietro di essa. Posso veder sfrecciare una decappottabile rossa. Sull’erba vicino alla veranda c’è un giocattolo di Rebecca, una bambola che si chiama Baby Lou. Giace lì sorridendo in gelida estasi al cielo. Non riesco a credere che Clare abbia dimenticato di metterla in valigia.
Ho un momento di panico. So che Clare e Rebecca non torneranno. Avrei potuto dire qualcosa prima che partissero, ma non potevo rischiare – e se Jonathan avesse deciso di accompagnarle? Non posso permettere che la casa si sfasci. C’è voluto troppo tempo per costruirla. Jonathan e io le siamo legati, insieme. Clare ha portato Rebecca nel mondo dei vivi – con il suo rumore e le sue sorprese, i suoi rischi di delusioni. Probabilmente ha fatto bene. È là che Rebecca dovrebbe stare. Noi siamo qui, nell’altro mondo, un posto più tranquillo, più incline a perdonare. Io ho seguito mio fratello in questo altro mondo e in realtà non l’ho mai abbandonato.
Ho un lavoro da fare. Un tetto da riparare.
Il panico passa.
Rebecca un giorno tornerà e la casa sarà qui ad aspettarla. È sua. Non è un granché – una struttura rosicchiata dalle termiti e rifatta a pezzetti da mani inesperte. No, non è un granché, ma adesso regge e reggerà ancora quando lei avrà venti anni. Ora, in questo momento, la vedo. Chiaramente come da una finestra spalancata sul futuro. Quella che vedo è una donna con i capelli castano chiari, non bella secondo i criteri di giudizio del mondo ma dotata di una grazia furtiva e di un modo risoluto di riempire la propria pelle. La vedo in piedi sulla veranda della casa che ha ereditato. Una casa che non ha mai chiesto, una casa di cui non sa bene che fare. La vedo lì, in piedi con un cappotto invernale, che soffia vapore luminoso nell’aria brillante. Tutto qui quello che vedo. Non è una visione significante. Ma la vedo con chiarezza sorprendente. Vedo i suoi stivali sulle assi del pavimento e il crepitio invernale dei suoi capelli. Vedo come la sua mascella fende la luce fredda davanti a questo dono non desiderato. Mi tocco una mascella. M’inginocchio lì, sul tetto, sentendo la semplice sporgenza umana della parte inferiore del mio cranio. Il tempo passa e io mi metto al lavoro. Il martello fa una sorta di musica, metallica e costante, che fa vibrare per tutta la sua altezza la struttura della casa. Sistemo a martellate un’assicella al posto che le compete. Ne sistemo un’altra.
Quella sera tardi Jonathan mi sveglia toccandomi i capelli. Apro gli occhi e vedo la sua faccia, luminosa nell’oscurità della camera, e così vicina che il suo respiro mi fa il solletico alla guancia. Si porta un dito alle labbra e mi fa cenno di seguirlo. Gli vado dietro in corridoio. I pallini dei suoi shorts nuotano nel buio. Lui non indossa altro; io sono in jockey e maglietta. Mi fa di nuovo segno e io lo seguo da basso. Le ombre s’abbarbicano alle complicazioni della sua schiena.
Arrivati in soggiorno, dice: “Scusa se ti ho svegliato in questo modo. Ma mi occorre il tuo aiuto per un lavoro.”
Gli chiedo che razza di lavoro si debba fare a mezzanotte. Per tutta risposta, prende un oggetto dal tavolo vicino al divano. Mi ci vuole un momento per metterlo a fuoco – è la cassetta con le ceneri di Ned. Tenendola con entrambe le mani, si avvia verso la porta d’ingresso.
“Vieni,” dice.
Usciamo sulla veranda e ci fermiamo davanti alla ringhiera, guardando l’oscurità profonda come due passeggeri su un transatlantico. Nelle notti senza luna è come se la casa stesse galleggiando; come se navigasse nello spazio. Tutto ciò che ci mostra la notte circostante è un campo di stelle e l’irrequietezza degli alberi.
Jonathan dice: “Ho cambiato idea sull’aspettare a spargerle. Mi è venuto in mente all’improvviso che questo può essere un buon posto.”
“Vuoi dire che intendi spargere le ceneri di Ned adesso? Proprio qui?”
“Mm-hm. E voglio che lo facciamo insieme.”
“Uhm, non credi che anche Alice vorrebbe essere presente? Voglio dire, non ci dovrebbe essere una specie di cerimonia?”
“No. Mamma sarà contenta di sapere che le ho sistemate. Non ci tiene tanto alle cerimonie, adesso.”
“Be’,” dico.
“Andiamo.” Scende dalla veranda e io vado con lui. Camminare sull’erba è come inoltrarsi nello spazio. Mi muovo con un senso di vertigine, come se passeggiassi nel vuoto.
“Jon,” dico. “Jonny, forse dovremmo aspettare un po’ a farlo. Voglio dire, non credi che ti dispiacerà di non aver fatto un vero piano?”
“Se non vuoi, lo farò io da solo,” dice. Avanza di qualche passo verso la strada, che è un’opaca macchia d’argento nell’oscurità. Le raganelle emettono schiocchi e gemiti. Le Pleiadi pulsano sopra le nostre teste in un piccolo ammasso stellare. Lo seguo. Attraversando la strada mi torna in mente quando, bambino, seguii mio fratello nel cimitero per celebrare il nostro eroico futuro comune. Jonathan avanza con una determinazione insieme ritualistica e un po’ folle. Indossa soltanto quegli shorts a pallini, mentre in alto esplodono le galassie.
Oltre la strada si stende un campo deserto di erba medica. L’erba medica ci sfiora frusciando le gambe nude. Benché io sappia da quel che ho visto di giorno che questo campo finisce con una boscaglia e un capanno abbandonato, la sola cosa che riesco a vedere in questo momento è un oceano di erba medica. Camminando, Jonathan dice: “Mi sono appena reso conto quanto sia ridicolo conservare le ceneri di mio padre finché non avrò trovato per loro una perfetta dimora. Ho deciso che è questo il luogo perfetto. Questo campo. Non so nemmeno a chi appartenga, e tu?”
“No.”
“Oh, Bobby. Volevo essere parte di qualcosa che non stesse morendo.”
“Lo sei.”
“No. Pensavo di esserlo, ma in realtà non lo sono.”
“Jon,” dico. “Jonny.”
Aspetta, ma io non posso dirglielo. Non posso dirgli quello che so – abbiamo entrambi attaccamenti estranei al mondo dei vivi. È ciò che ci separa da Clare, e da altri. È ciò che ci ha tenuti insieme quando il corso normale delle circostanze ci diceva di diventare adulti e separarci.
Dopo un po’ dice: “Penso insomma che sia venuto il momento di sbarazzarci di queste ceneri. Subito. Qui. Mi sembra che il posto vada abbastanza bene.”
Ci siamo talmente inoltrati nel campo che il buio si è chiuso alle nostre spalle cancellando la nostra casa e la nostra strada. Vediamo solo erba medica. I grilli stridono rumorosi e le zanzare sciamano intorno alle nostre teste, incapaci di credere alla loro fortuna. Noi ce ne stiamo qui, in questa stellata e ronzante oscurità completa come la fine del mondo.
“Il coperchio è un po’ complicato,” dice. “Un minuto solo. Ecco.”
Posa a terra la cassetta. “È difficile crederlo,” dice. “Mio padre mi portava spesso sulle spalle. E una volta mi fece talmente il solletico che mi pisciai addosso. Ricordo ancora come ci rimase male. Era imbarazzato. E anche un po’ sdegnato.”
“Vuoi dire qualche parola?” domando.
“Oh, credo di averle già dette. Senti, vuoi infilar la mano contemporaneamente a me?”
“Okay. Se vuoi.”
Ci chiniamo entrambi. “Adesso conto fino a tre,” dice. “Uno, due, tre.”
Infiliamo le mani dentro. Nella cassa c’è un sacchetto di plastica e noi spingiamo le mani nella plastica. Le ceneri di Ned danno una sensazione come di velluto, di sugna. Sono costellate di frammenti d’osso. Quando le tocchiamo, Jonathan trattiene il fiato.
“Oh,” dice. “Okay, penso che questa fosse la parte peggiore. Ne hai prese un po’?”
“Uh-huh.”
Ora siamo in piedi con una manciata di ceneri e ossa. “Aveva ragione lei,” dice Jonathan. “In realtà non sono molto di più di un paio delle sue scarpe vecchie. Okay. Forza.”
In silenzio spargiamo le ceneri sul campo. Nel distribuirle camminiamo descrivendo piccoli cerchi. Fa troppo buio per vederle cadere. Scompaiono dalle nostre mani. Se fanno qualche rumore, viene soffocato dagli insetti e dal fruscio dell’erba medica.
Torniamo più volte alla cassetta. Non parliamo finché non ci siamo liberati di tutte le ceneri.
“Bene,” disse Jonathan. “Papà, fin qui ci sono arrivato. Era il meglio che potessi fare.”
Raccoglie la cassetta e ci avviamo verso quella zona di buio dove pensiamo debba essere casa nostra. Abbiamo perso l’orientamento spargendo le ceneri, e finiamo per mancare la casa di parecchio. Dobbiamo camminare sulla strada per quasi un quarto di miglio. Diamo a una Volvo di passaggio qualcosa di cui stupirsi – due uomini in mutande che camminano su una strada di campagna, portando una cassetta vuota.
“Bobby,” dice Jonathan.
“Sì?”
“Sai perché ho deciso di farlo così all’improvviso?”
“No.”
“Da quando Clare e Rebecca se ne sono andate, ho cominciato a pensare che non volevo tornassero qui con Erich che stava così male al piano di sopra e le ceneri di mio padre su uno scaffale del soggiorno. Mi è sembrato all’improvviso che in questa casa ci fosse troppa morte. È allora che ho deciso di gettare le ceneri in quel pascolo. Voglio dire, per quale motivo avrei dovuto conservarle?”
“Be’, per niente, immagino.”
“Voglio dipingere la camera di Rebecca,” dice. “È troppo tetra. Che ne diresti se andassimo a comprare un po’ di vernice domani dopo il lavoro? Qualcosa di chiassoso che la farà impazzire, rosa acceso per esempio. Nessuno mi aveva mai detto che una bambina avrebbe avuto un tal cattivo gusto.”
Sento il suo respiro. Quel tanto di luce stellare che c’è qui brilla grigia e incerta sulla sua pelle. Per alcuni minuti camminiamo in silenzio.
“Senti,” dice.
“Uh-huh.”
“Se mi succede qualcosa, questo posto andrà benissimo anche per spargerci le mie ceneri. Se e quando verrà il momento, voglio che tu lo dica a mia madre. Dille che era la mia ultima richiesta. Dio, ma se mio padre e io finiamo sparpagliati qui attorno, dove andrà mia madre quando muore?”
“Potrebbe venire qua anche lei.”
“Be’, viene sempre trascinata in posti dove non vorrebbe andare. Perché le cose dovrebbero essere diverse dopo la sua morte, giusto?”
“Giusto. Voglio dire che è questo che io credo. Che è diventato il posto di noi tutti.”
“E se fosse vero?” dice. “Non sarebbe qualcosa?”
Non parliamo più. Ci sono troppe cose da dire. Percorriamo l’ultimo breve tratto, sotto l’invisibile sorveglianza di animali notturni. È come un sogno, uno di quei sogni infantili in cui si sente in imbarazzo davanti agli altri, questo camminare su una strada pubblica con le mie mutande sfilacciate. Ma in questo particolare sogno non mi sento in imbarazzo. Sono qui, svestito, su una strada di campagna, con un vento buio che soffia tutt’intorno a me. Le ceneri di Ned si stanno mischiando alla terra in un mondo in miniatura di formiche e di goffi e blindati scarafaggi. Erich dorme il suo sonno schiumante, illuminato in maniera complessa da sogni. C’è bellezza nel mondo, che pure è più duro di quanto ci aspettassimo. È diverso dalla fattoria autunnale sulla parete della sala da pranzo della mia famiglia come un osso lo è da un uomo o da una donna. In qualche punto di questo continente Clare e Rebecca stanno dormendo, in un motel o nel soggiorno di un amico. Quando davanti a noi compare la sagoma blu della casa, ricordo che la propria casa è anche un posto da cui fuggire. Questa è la nostra; l’abbiamo per scapparne e l’abbiamo per tornarci.
In questo momento fa abbastanza buio per vedere il futuro – le mattine fredde e le lunghe notti, la musica d’ogni giorno. Jonathan e io siamo qui per conservare un presente, perché la gente possa tornarvi quando si restringerà il loro futuro. Abbiamo camminato a lungo per arrivarci. Imbocchiamo il viale d’accesso e io vedo qualcosa che smuove le tendine nella finestra della camera. Penso per un attimo che sia tornata Clare. Afferro una spalla di Jonathan.
“Eh?” dice. “Che c’è?”
“Niente. Non è niente. Non badarci.”
Tra l’impulso e il contatto mi sono ripreso. Clare non è tornata. Ciò che ho visto era solo un refolo di vento. O il vento o lo spirito della casa, temporaneamente sconvolto dalla nostra assenza notturna, ma troppo vecchio per farsi sorprendere da incombenze nate dal divario fra ciò che possiamo immaginare e ciò che creiamo in realtà.