Alice

Bobby liberò la sua voce da quella monotonia da metronomo e acquisì una cadenza da ragazzo, finendo ogni frase in crescendo sicché le sue affermazioni sembravano domande ansiose ed esitanti. La sua chioma elettrica, una volta sottoposta alle forbici di un barbiere, emerse come il normale taglio scompigliato dal vento di un adolescente con tendenza ai ciuffi ribelli. Una volta, quando si presentò sorridente alla nostra porta a mezzogiorno, aveva spalmato sulla sua acne una pomata color carne.

Ma non riuscì mai a completare questa transizione. Conservò qualcosa d’inquietante, di leggermente pericoloso – di famelico e di guardingo che veniva fuori a cena, quando puliva meticolosamente il suo piatto, ma era evidente soprattutto nella sua insistente, inesauribile gentilezza. Solo i fuggiaschi sono capaci di comportarsi con una cortesia inappuntabile dalla mattina alla sera. Inoltre il ragazzo che Bobby si sforzava di diventare non avrebbe mai saputo ballare come lui.

Prese l’abitudine di portare dischi che pensava mi sarebbero piaciuti – musiche più dolci e melodiche di quelle che Jonathan prediligeva. Ogni tanto mi chiamava dalla camera: “Signora Glover? Se non ha troppo da fare, perché non viene su ad ascoltare una cosa?” E io quasi sempre salivo. Come potevo essere troppo occupata a cucinare e lavare panni?

Imparai a conoscere tutta una serie di nomi nuovi: Joni Mitchell, Neil Young, Boz Scaggs. A volte me ne stavo semplicemente seduta ad ascoltare insieme con i ragazzi. Altre volte, quando la canzone era particolarmente trascinante, accettavo l’invito di Bobby a ballare.

Il suo ballo meritava di essere visto. Il suo senso del ritmo non veniva certamente dai cornicioni di granito e dalle siepi di bossi di Cleveland. Quando ballava, era originale – ondeggiava i fianchi con una voluttuosa sicurezza sicuramente più aggraziata che libidinosa, e braccia e gambe tracciavano disegni vividi e sorprendenti nello spazio ristretto della camera di mio figlio. Poi, finita la canzone, sorrideva e alzava le spalle come se ballare fosse stata una prova un po’ imbarazzante di mancanza di spirito. Attraverso una serie di passaggi visibili tornava a fare la solita imitazione di uno di quei pallidi ragazzotti di periferia che si dice rallegrino le madri.

A volte Jonathan si univa a malincuore alle nostre danze, altre volte se ne stava lì imbronciato con le ginocchia contro il petto. Io non ero stupida – sapevo che nessun ragazzo di quindici anni avrebbe accolto con piacere la partecipazione di sua madre alla propria vita sociale. Ma Bobby era così insistente. E poi Jonathan e io eravamo sempre stati buoni amici malgrado il nostro legame di sangue. Decisi così che accettando i piccoli doni di Bobby in termini di musica e di danza non avrei fatto niente di male. Ero stata anch’io un po’ scatenata alla loro età, e non era passato così tanto tempo.

Jonathan si era fatto crescere i capelli fin quasi alle spalle, a dispetto dei regolamenti della scuola. Si cuciva sui jeans toppe di colori vivaci e continuava a portare la vecchia giacca di pelle di Bobby, anche quando i gomiti erano ormai consumati. A casa stava generalmente in silenzio. Un silenzio a volte petulante, a volte solo assente. Ma per quanto si sforzasse, non riusciva a diventarmi estraneo. Lo conoscevo troppo bene. Il suo modo di ballare era goffo ed esitante come quello di suo padre e l’impertinente villania che ostentava era chiaramente superficiale. Preso alla sprovvista, scivolava automaticamente nell’arrendevolezza senza averne l’intenzione. Sorrideva prima di ricordarsi di aggrottare le sopracciglia.

Una sera di gennaio, Bobby m’invitò ad ascoltare un nuovo disco di Van Morrison. Mi ero seduta sul pavimento con loro, ondeggiando in sintonia con la musica: Bobby sedeva alla mia sinistra con le gambe incrociate e la schiena eretta come uno yogin in meditazione; Jonathan molto più in là, scontrosamente ingobbito, con le spalle chine sulle ginocchia.

“Carino. Mi piace questo Van Morrison.”

“Van the Man!” sogghignò Bobby. A volte il significato di ciò che diceva risultava indecifrabile, senza che lui lo volesse. Spesso mi limitavo a sorridere e ad annuire, come avrei fatto con uno straniero che parlasse un inglese incomprensibile ma sicuramente cordiale.

Ogni tanto, perfino nei suoi eccessi di appassionata incoerenza, le parole assumevano un senso. Era un forestiero che cercava di assimilarsi. Non mi ero anch’io trasferita in un luogo invernale dove quasi tutte le donne della mia età e della mia posizione erano sovrappeso e sottosviluppate? Anni prima, quando ancora mi sforzavo d’inserirmi, le altre donne dell’Associazione genitori e insegnanti e della parrocchia mi avevano offerto ricette di torte fatte con pudding, caramelle e würstel messi a mollo in una gelatina di senape e uva. Non potevo quindi rimproverare a Bobby i suoi problemi con le usanze locali.

“Van è in gamba,” disse Jonathan. “Se ti piace questo genere di musica.”

“Che genere di musica è?” domandai.

“Be’, popolare, un po’ trasognata. È un bravo tipo che canta l’amore di una brava donna.”

“Non so, Jon,” disse Bobby. “Non ti sembra un po’ meglio di così?”

“È okay,” disse Jonathan. “Solo un po’ insipido. Che ne diresti, mamma, se mettessi su qualcosa di veramente bello?”

“A me sembra abbastanza bello questo,” dissi.

Jonathan diede un’occhiata a Bobby, il cui sorriso aveva assunto un che di duro, di preoccupato. “Questo lo pensi tu,” disse Jonathan. Si alzò, staccò la puntina dal disco a metà di una canzone e ne tirò fuori un altro dalla sua collezione, che teneva in una serie di scatole arancione allineate lungo la parete.

“Questo è Jimi Hendrix,” annunciò. “Il più grande chitarrista defunto del mondo.”

“Jon,” disse Bobby.

“Ti piacerà, mamma. Ma adesso alzo un po’ il volume, perché Jimi bisogna ascoltarlo piuttosto forte.”

“Jon,” disse Bobby. “Non so se...”

Jonathan toccò il vinile con la puntina e la stanza divenne un’esplosione di chitarre elettriche. Stridevano e strillavano come animali torturati. Cominciò un sordo basso continuo, così forte e persistente che lo sentii percorrere la mia spina dorsale. Avevo l’impressione che mi si scompigliassero i capelli.

“Bello, eh?” gridò Jonathan. “Jimi era il più grande.”

I nostri sguardi s’incrociarono in quella tempesta di suoni. La faccia di Jonathan era arrossata, i suoi occhi brillavano. Sapevo che cosa voleva. Voleva scacciarmi dalla stanza, farmi rotolare da basso fino alla sacralità familiare dei piatti sporchi e degli aspirapolvere in funzione. Sul disco una voce maschile cantava: “You know you’re a cute little heartbreaker.”

“Il più grande,” urlò Jonathan. “Molto meglio di Van the Man.”

Presi una decisione. Mi alzai e dissi: “Balliamo, Bobby.”

Mi raggiunse immediatamente. Ballammo insieme nel caos della musica. Non era tanto male, se continuavamo a muoverci. Ti dava quella sensazione di annientamento che deve provare un passero colto da una corrente ascensionale – una sensazione simultanea di aggressione e di liberazione. Potevi urlare in faccia alla musica. Ti faceva praticamente alzare in aria le braccia.

Con la coda dell’occhio vidi che Jonathan era deluso. Sua madre non si era lasciata intimorire dalla provocazione della sua musica. Vidi ancora una volta il bambino racchiuso nell’uomo, che s’andava sviluppando – la sua espressione di quel momento mi ricordò le volte in cui sbagliava una mossa giocando a dama o nessuno abboccava ai suoi pesci d’aprile. Se me lo avesse permesso, avrei allungato la mano per pizzicargli una guancia.

Poi si mise a ballare anche lui. Che altro poteva fare? Mentre noi tre ondeggiavamo secondo la musica, quella cameretta sembrava stipata come Times Square, e riempita fino all’orlo dal peso del momento. Jimi Hendrix ringhiava, inneggiando a una Foxy Lady e mi parve un appellativo giusto. Una matura donna in gamba che non si spaventa facilmente. Che non intende rifugiarsi nelle sue faccende domestiche e cominciare a ingrassare.

Da allora, andai da loro più regolarmente. Abbandonai la vecchia regola di aspettare che m’invitassero. Mi sembrava che l’avessimo ormai superata. Quando le mie faccende domestiche mi portavano di sopra bussavo ed entravo per una canzone o due. Non restavo mai a lungo.

Una notte bussando sentii dall’altra parte uno scalpiccio. Nessuno venne ad aprirmi. Mi sembrò di udirli bisbigliare. Poi Jonathan gridò: “Entra, mamma.”

Lo sentii nel momento stesso in cui entrai – l’odore dolciastro del fumo. La stanza ne era tutta azzurrata. Bobby era in piedi agghiacciato dal panico, mentre Jonathan sedeva al suo solito posto accanto al radiatore. Bobby disse. “Uhm, signora Glover?”

E Jonathan disse con voce calma, quasi soave: “Vieni avanti, mamma. Fatti un tiro.”

Tese verso di me una sigaretta accesa fatta a mano.

Rimasi incerta sulla soglia. Per un lungo momento persi la cognizione di ciò che ero e presi a fluttuare come un fantasma, guardando spassionatamente mio figlio che mi offriva una rozza sigaretta dall’aria patetica, la cui brace ardeva arancione nella luce fioca di una lampada a forma di palla da baseball che gli avevo comprato quando aveva sette anni.

Sapevo cosa avrei dovuto fare. Avrei dovuto mostrarmi scandalizzata e indignata, o almeno parlare gentilmente ma con fermezza dei limiti della mia tolleranza. In entrambi i casi, sarebbe stata la fine della familiarità dei nostri rapporti – delle nostre improvvisate feste da ballo – e l’inizio di un periodo più severo, più formale.

Dopo che il silenzio si era protratto fino al punto di rottura, Jonathan ripeté la sua offerta. “Prova a fare un tiro, mamma,” disse. “Se no, come puoi sapere cosa stai perdendo?”

“A tuo padre verrebbe un attacco di cuore,” dissi pacatamente.

“Lui non c’è,” disse Jonathan.

“Signora Glover?” disse inutilmente Bobby.

Fu la sua voce a decidermi – la sua timorosa modulazione del mio cognome da sposata.

“Credo che tu abbia ragione,” risposi assecondandolo. “Come potrei sapere quel che mi perdo?”

Avanzai di tre passi nella stanza e accettai la piccola misera sigaretta.

“Brava, mamma,” disse Jonathan. La sua voce era gaia e opaca.

“Come si fa?” domandai. “Io non ho neanche mai fumato le sigarette normali.”

Bobby disse: “Uhm, non ha che da aspirare il fumo nei polmoni. E tenercelo il più possibile.”

Accostandomi la sigaretta alle labbra, vidi me stessa che nella camera di mio figlio, in camicetta celeste e gonna a portafogli, mi accingevo a compiere la prima azione chiaramente illegale della mia vita. Il fumo era così acre e amaro che rischiai di soffocare. Mi bruciava gli occhi, e non potei trattenerlo nei polmoni come mi aveva detto Bobby. Soffiai subito fuori una densa nuvoletta che rimase sospesa nell’aria, scura e pesante di chi non ha deglutito neanche un po’, un secondo dopo si dissolse.

Tuttavia i ragazzi applaudirono. Porsi la sigaretta a Bobby.

“Lo ha fatto,” disse lui. “Lo ha fatto.”

“Ora posso dire d’aver vissuto,” replicai. La mia voce aveva un suono teso, stridulo.

Bobby fece un rapido tiro, tenendo la sigaretta fra il pollice e l’indice. La cenere prese fuoco. Quando espirò, si levò nell’aria soltanto un sottile e trasparente filo di fumo.

“Visto?” disse. “Ce la fa a trattenerlo un po’ di più?”

Mi porse di nuovo la sigaretta. “Ancora?” dissi.

Alzò le spalle, con uno dei suoi sorrisi spaventati e perplessi. “Sì, mamma,” fece Jonathan. “Bisogna fumarlo tutto lo spinello. Un tiro non significa nulla.”

Spinello. Si chiamava spinello, non sigaretta.

“E va bene, ancora uno,” mi arresi. Provai di nuovo e stavolta riuscii a trattenere il fumo per un paio di secondi. E di nuovo ne espulsi un fiotto, molto diverso dall’elegante scia grigio chiara da jet soffiata da Bobby.

Gli restituii lo spinello. Jonathan disse: “Ehi, ci sono anch’io.”

“Ops. Scusa.” Glielo porsi. Lo prese con avidità, come aveva un tempo afferrato i regalini che gli portavo, quando andavo a fare spese.

“Che effetto farà, esattamente?” domandai. “Cosa dovrei aspettarmi?”

“La farà semplicemente ridere,” disse Bobby. “La farà sentire allegra e un po’ sciocca.”

“Non succederà niente di speciale, mamma,” confermò Jonathan. “Non è che le cotolette d’agnello ti rivolgeranno la parola, o cose del genere.” Fece un tiro, con la rapidità di un esperto, e porse lo spinello a Bobby. Ma quando poi Bobby lo passò a me, scossi il capo.

“Penso che basti,” dissi. “Fammi solo un favore.”

“Uh-huh?” disse Bobby.

“Metti su una canzone di Laura Nyro, poi andrò a sbrigare le mie faccende.”

“Certo,” disse.

Mise su il disco, e restammo tutti e tre in piedi ad ascoltarlo. Io aspettavo di cominciare a sentire quel che c’era da sentire. Ma quando la canzone finì, mi resi conto che la marijuana non aveva alcun effetto, se non quello di farmi venire un raschio in gola. Mi sentii insieme sollevata e delusa

“Okay. Grazie dell’ospitalità, ragazzi.”

“Torna quando vuoi, mamma.” Non riuscii a decifrare la sua voce: era beffarda o smargiassa o semplicemente cordiale?

“Non una parola a tuo padre,” dissi. “Prometti? Me lo giuri?” Per un attimo, pensai che la marijuana alla lunga mi avesse fatto effetto. Ma era solo l’erompere del mio senso di colpa.

“Prometto,” disse. “Lo giuro.”

Bobby disse: “Signora Glover. È stata davvero in gamba. Lei è... non so come dirlo. Proprio in gamba. Uh!”

“Oh, chiamami Alice per l’amor del cielo,” gli dissi. Poi li lasciai soli.

Una settimana dopo provai di nuovo la roba (si chiamava roba, non marijuana) e scoprii che se riuscivi a trattenere il fumo sortiva qualche effetto. Ti faceva girare la testa e ti rendeva piacevolmente confusa. Smussava i bordi della tua attenzione.

Un mercoledì pomeriggio di febbraio, quando sul mondo si stende un gelido bianco silenzio, sedevo con Jonathan e Bobby a dividerci uno spinello. Era il quarto della mia vita e avevo ormai acquisito una certa perizia. Trattenni il fumo, sentendone nei polmoni il peso e il calore. Sullo stereo Bob Dylan cantava Girl from North Country. La lampada era stata accesa nella semioscurità pomeridiana e i pannelli delle pareti avevano assunto un ricco colore di miele scuro.

“Io penso,” dissi, “che dovrebbe essere legale. È dolce e assolutamente innocua, no?”

“Uh-huh,” disse Jonathan.

“Be’, dovrebbe essere legale,” dissi. “Se Nixon ne fumasse un po’, il mondo sarebbe migliore.”

Bobby rise, poi mi guardò imbarazzato, per accertarsi che la mia fosse stata solo una battuta. La sua espressione era così esitante – a volte si tormentava profondamente per i più semplici scambi verbali, – che mi misi a ghignare anch’io. La mia risata gli ispirò un altro scoppio di risa, cui si unì Jonathan, sogghignando per qualche barzelletta che solo lui conosceva. Era una delle migliori qualità d’erba: sotto la sua influenza potevi metterti a ridere per qualsiasi inezia e, una volta cominciato, ti bastava guardarti attorno per alimentare la risata. Ogni cosa sembrava buffa e assurda – l’incensiere a forma di Budda che stava accanto a una ballerina di hula hula a molla; l’aspetto addomesticato, canino delle scarpe scamosciate marrone di Bobby.

A volte in quei giorni pensavo alla Wendy di Peter Pan – mamma in un’isola di un gruppo di ragazzi smarriti. Non mi resi completamente ridicola. Non mi comprai gonne di velo o gioielli indiani o sandali messicani. Non mi lasciai crescere i capelli. Ma mi sentivo diversa. Avevo un nuovo segreto, migliore degli altri. In precedenza i miei soli segreti potevano elencarsi nella paura del sesso e nello scarso interesse a conoscere i nostri vicini. Mi ero sentita fragile e sottile, quasi trasparente, una figura inconsistente che soffriva di mal di testa col freddo e di sinusite col caldo. Ma questo nuovo segreto era eccitante, entusiasmante – se mi avessero scoperta sarei stata lo scandalo del vicinato. Era un segreto che mi dava calore quando percorrevo le corsie del supermercato. Ero una madre che si faceva con suo figlio. Le donne del quartiere – donnoni che caricavano i loro carrelli di marshmallow e di gelati, di pezzi di carne di un rosa acceso e di cereali zuccherati – mi avrebbero giudicata indegna, scandalosa, degenerata. Mi sentivo giovane e snella, ricca di ambigue promesse.

Inoltre, scoprii con soddisfazione che quando ero fatta me la cavavo meglio con Ned. La roba mi rilassava, al punto che se premeva la bocca sulla mia o mi accarezzava ruvidamente, potevo lasciarmi andare in una pigra, liquida disposizione d’animo del tutto differente da quella che intendevo una volta per eccitazione. Il sesso mi aveva sempre provocato un nauseato irrigidimento interiore che si trasformava presto da piacere a panico e da panico a sofferenza, col risultato che mentre Ned sgobbava sudando per arrivare a concludere, io giacevo nervosa e adirata sotto di lui, pregando silenziosamente: “Finisci, finisci, finisci.” Ora invece potevo accoglierlo con un languore che non mi dava né piacere né sofferenza, ma una pura sensazione di solletico, leggermente buffa. La roba miniaturizzava il sesso; riduceva l’atto in sé da un obbligo rumoroso a una commediola della carne, divertente e abbastanza gradevole. Quello era Ned, soltanto Ned, che cavalcava e gemeva; un ragazzo divenuto grosso e goffo. Quello era Ned e questa ero io, una donna capace di sorprendere se stessa.

Durò fino alla primavera. Nella mia nuova vita ero sensuale ed eterodossa, di mente aperta e sessualmente generosa – ero il personaggio che volevo essere. Quel personaggio visse per tutto il disgelo e il primo verdeggiare, fino all’aprile, quando il pero del cortile dietro casa esplose in un profluvio di fiori bianchi. La sera del Sabato Santo, finito di cucinare il prosciutto, uscii a guardare l’albero. Era quasi mezzanotte ed ero sola in casa. Il venerdì e il sabato, Ned aveva aggiunto una proiezione a tarda sera per far concorrenza alle multisale che si stavano aprendo nei centri commerciali. Bobby e Jonathan erano fuori, da qualche parte.

Sopra il maglione indossavo una vecchia camicia di lana di Ned. L’aria odorava di terra umida e fresca; i fiori del pero al centro del nostro cortiletto sprigionavano una fievole luce bianca, tanto che l’albero sembrava uno splendido e strano vestito da sposa. Rimasi per un po’ sui gradini della cucina. Era una notte senza luna, ma abbastanza chiara da permettere alla band della Via Lattea di farsi vedere fra le moltitudini di stelle. Quella notte, perfino il nostro modesto cortile avrebbe potuto generare nuove possibilità. Se il futuro si potesse rappresentare con una nazione, la sua migliore bandiera potrebbe essere quella con un albero in fiore su un campo di stelle.

Scesi nel prato, sebbene le mie scarpe fossero un po’ troppo leggere per quel clima. Volevo sentire lo scricchiolio dell’erba ghiacciata. Camminai sotto i rami dell’albero, oltre le aiuole dove stavano già spuntando i miei tulipani. Nel momento stesso in cui il pero avrebbe perso i suoi fiori, sarebbero sbocciati i lilla. Un giorno avremmo vissuto in una casa con la vista sull’acqua. Feci scorrere le dita sulla corteccia incrostata di uno dei rami più bassi, scrollandomi qualche fiore sui capelli.

Ero lì da un po’ quando notai che i ragazzi erano andati a sedersi nella mia macchina. L’avevo parcheggiata nel viottolo ghiaioso fra il garage e la casa, all’ombra di una tettoia d’alluminio, in una sacca d’oscurità talmente fitta che non mi sarebbe stato possibile vederli se non mi fossi trovata esattamente nella posizione giusta, dalla quale le loro teste erano visibili in controluce fra il parabrezza anteriore e il posteriore.

La loro presenza mi parve strana ma meravigliosa. Forse immaginavano un viaggio attraverso i campi. Ero troppo innamorata della notte per fare domande. Vederli mi sembrò semplicemente un colpo di fortuna. Potevamo fumare uno spinello insieme e scuotere i fiori del pero sulle nostre teste. Mi avviai verso la macchina senza esitare. Avvicinandomi, sentii che la radio trasmetteva musica rock. Derek & The Dominos, pensai. Raggiunsi d’un balzo la portiera del guidatore, l’aprii e dissi: “Ehi, posso avere un passaggio?”

Cadde su tutti e tre un silenzio scioccato, riempito dal frastuono delle chitarre. Un fumo dolciastro usciva dalla macchina. Jonathan sedeva al posto del guidatore. Vidi il suo pene, pallido ed eretto, alla luce delle stelle.

“Oh,” dissi. Soltanto questo.

I suoi occhi parvero traboccare dalle orbite, come spinti da dietro. Perfino in quel momento ricordai perfettamente che aveva avuto quella stessa espressione quando, a due anni, gli avevo negato un sacchetto di caramelle rosa in una corsia del supermercato.

“Vattene via,” disse in un tono di tremolante autorità che fendette la musica come un filo metallico che tagli la nebbia. Era una voce interamente adulta. “Come osi?”

“Jon?” disse Bobby. Si tirò su i jeans, ma avevo fatto in tempo a vedere anche il suo pene, più grosso di quello di Jonathan, più scuro.

Jonathan allontanò con un gesto il suono del proprio nome. “Vattene via,” disse. “Mi senti? Hai capito?”

Ero troppo sorpresa per discutere. Mi limitai a chiudere la portiera della macchina e a rientrare in casa. L’interno era caldo e luminoso. Rimasi in piedi nell’ingresso, ansimando. Vedevo il soggiorno deserto con assoluta chiarezza: le riviste distese a ventaglio sul tavolo del soggiorno, un cuscino con la conca lasciata dal gomito di qualcuno. Una mosca tracciò un semicerchio sul vaso di celadon di mia nonna.

Andai di sopra e mi preparai un bagno caldo. Era la sola cosa che mi fosse venuta in mente. Immergendomi in acqua, provai una sorta di sollievo. Era qualcosa di reale e definito, perfino l’acqua, fin po’ troppo bollente per essere veramente sopportabile. Mi bruciavano i piedi come se vi avessero conficcato degli spilli. Cosce, natiche e sesso scottavano, ma tenni duro. Non mi sollevai da quel liquido fumante.

Non era del tutto una sorpresa. Non per quanto riguardava Jonathan. Avrei dovuto capire. Ma non avevo mai pensato consapevolmente: “Mio figlio non si sposerà mai.” Avevo invece pensato: “Mio figlio è più dolce degli altri ragazzi, più gentile, più accessibile a forti sensazioni.” Erano alcune delle sue virtù. Sapevo che la durezza e la villania dei ragazzi non erano nella sua natura. Mi calai ancor più profondamente nella vasca, in modo che l’acqua bollente mi coprisse le spalle e scottasse il mento. Quando cominciò a raffreddarsi, riaprii il rubinetto dell’acqua calda.

Come avevo potuto non accorgermi dei segnali? Jonathan e Bobby avevano quindici anni, e tuttavia non parlavano mai di ragazze. Non affiggevano foto di nudi alle pareti. Certo, dovevo averlo sospettato ma non avrei mai immaginato neppure lontanamente le implicazioni carnali del loro amore. Per me Jonathan era un eterno bambino, un innocente. Ciò a cui non riuscivo ad adattarmi era la vista della sua piccola erezione e di quella più grande di Bobby, nascosta nella notte.

Quale era stato il mio contributo? Io sapevo troppo di psicologia, e nello stesso tempo ne sapevo troppo poco. Ero stata una di quelle madri che allontanano il figlio dalle donne? Ne avevo fatto un effeminato con la mia caparbia insistenza di essergli amica?

Jonathan rientrò qualche ora dopo, quando Ned era già tornato a casa a dormire. Pensai che avrebbe forse bussato alla porta della mia camera ma naturalmente non poteva farlo, non con suo padre presente. Raggiunse la sua stanza con il solito fracasso degli stivali sulla moquette del corridoio. Avrei voluto andare a confortarlo, a dirgli che andava tutto bene. Avrei voluto andare a tirargli i capelli con tanta forza da far uscire il sangue.

Era Pasqua e facemmo finta di comportarci come si usa quel giorno. Ned, Jonathan e Bobby infilarono le mani nei loro panieri, con esclamazioni di gioia a ogni piccolo dono e si riempirono la bocca di caramelle alla frutta e di galletti di pasta dolce. Jonathan con un morso staccò un orecchio a un coniglietto di cioccolato con un entusiasmo che mi fece inaspettatamente rabbrividire in tutto il corpo. Ned mi regalò una cassetta di Delphinium che mi piacque molto, e una sciarpa di seta a fiori brillanti, di quelle che si mettono a volte le donne più anziane quando vogliono apparire eleganti andando fuori a pranzo.

Ned doveva aver letto in faccia la mia costernazione quando tirai fuori quella vivace sciarpa da anziana dalla carta velina. Disse teneramente: “Che ne so io di sciarpe? Viene da Herman Brothers, puoi sempre restituirla e prendere qualcos’altro.”

Gli diedi un bacio. “È bella,” dissi. “È una magnifica sciarpa.”

Non potei fare a meno di pensare che Jonathan avrebbe saputo quale sciarpa scegliere.

Consumammo il pasto che avevo cucinato, parlammo del più e del meno. Poco dopo, Ned andò al suo cinematografo. E mentre stava uscendo, Jonathan gli disse: “Verremo allo spettacolo delle otto, okay?”

“Ma certo,” rispose lui con una grande strizzata d’occhio. Dopo la sua partenza, i ragazzi lavarono i piatti. Cercai di dar loro una mano, ma mi allontanarono dalla cucina. Dal soggiorno, dove stavo sfogliando una rivista, li udii parlare con voci sommesse, indecifrabili. Ogni tanto ridevano.

Quando ebbero finito con i piatti, salirono in camera di Jonathan. “Un gran pranzo, mamma,” disse Jonathan passando per il soggiorno. “Uau! È stato, come dire, il migliore.”

Non m’invitarono a salire. Non ascoltarono musica. Scesero dopo un’ora con la giacca addosso. E uscirono quasi immediatamente.

“’Notte, mamma,” gridò Jonathan dal prato.

“’Notte, signora Glover,” aggiunse Bobby.

Rimasi un po’ a guardarli mentre s’allontanavano, con le mani nelle tasche della giacca. Il passo di Bobby era agile e sicuro, mentre Jonathan camminava con le gambe leggermente arcuate come fanno gli adolescenti, più spavaldi che convinti. Alle mie spalle, la casa era vuota, i piatti asciugati e messi via.

Per parlare a Jonathan aspettai un’occasione in cui fossimo soli. Ci volle quasi una settimana. Ma finalmente una volta rientrò da uno dei suoi giri notturni non accompagnato da Bobby, così lo fermai mentre stava salendo. Faceva sempre un gran baccano con quegli stivali.

“Jonathan,” lo chiamai. “Posso dirti due parole?”

“Uh-huh.” Si fermò a metà della scala e si sporse dalla ringhiera come un cowboy che tira le cuoia sul bancone di un bar. I capelli lisci gli pendevano sulla faccia.

“Non ti andrebbe di scendere?” dissi. “Non ho una gran voglia di recitare la scena del balcone.”

“Okay,” disse abbastanza di buonumore. Si lasciò poi condurre in soggiorno, dove ci mettemmo a sedere.

“Be’...” Non sapevo bene come avviare una conversazione che si annunciava difficile. Avevo sempre comunicato con lui senza problemi, come se stessi parlando a me stessa.

“Allora?”

“Jonathan, tesoro, so che tieni molto a Bobby.” Sbagliato. Il tono era asessuato, da professoressa. Tentai una risata, ma la risata si smorzò, suonò stridula al mio stesso orecchio. “Moltissimo,” aggiunsi.

Sbagliato di nuovo. Il mio tono adesso era troppo furbesco, troppo insinuante. Ero sua madre dopo tutto.

Lui annuì, guardandomi con un viso inespressivo, sereno.

“Dunque... tesoro, se devo essere sincera, mi sto chiedendo se per te sia un bene vedere Bobby così spesso. Non pensi che dovresti avere anche altri amici?”

“No,” disse.

Di nuovo cercai di sorridere, ora più disinvolta: “Almeno su questo non hai pregiudizi.”

Alzò le spalle e si arrotolò una ciocca di capelli su un dito.

“Ricordo che quando avevo la tua età andavamo in giro in una grande banda,” dissi. “Eravamo più o meno innamorati l’uno dell’altro ed eravamo in tutto sette o otto. Ragazze e ragazzi. Voglio dire che so cosa significa essere disperatamente innamorati di un amico.”

“Uh-huh,” disse lui, con una voce che sembrava un po’ meno impenetrabile, una voce da bravo ragazzo. Sospettavo – sapevo – che il suo amore per Bobby doveva averlo spaventato. Poteva essere stata la vera causa del suo atteggiarsi da macho, di quei rumorosi stivali delle sette leghe.

“Ascoltami, adesso,” dissi. “Io ti sono amica. Credo di capire i tuoi sentimenti per Bobby. Può essere, diciamo... irresistibile. Ma c’è una cosa che devo dirti. Non buttarti troppo in questa storia. Non alla tua età.”

Mi guardò da sotto l’irsuta sporgenza dei suoi capelli, e gli vidi in faccia un pizzico del mio Jonathan di una volta, tormentato dai dubbi, e quasi ostentatamente vulnerabile. Sembrò per un momento che avessimo fatto dei progressi.

“Oh, tesoro,” dissi. “Lo so come ti senti. Davvero. Allora fidati di me. Verrà il giorno in cui Bobby ti sembrerà soltanto uno che conoscevi una volta.”

La sua faccia si chiuse. Fu un atto visibile, come la chiusura delle imposte su una finestra illuminata.

Disse: “Tu non sai come mi sento. E non conosci Bobby. Io invece sì. Piantala di voler controllare la mia vita.”

Non è quello che sto facendo.”

“Sì, invece. E io non lo sopporto. Tu consumi tutta l’aria che c’è qui dentro. Perfino le piante stanno morendo.”

Lo guardai incredula. “La tua vita è la tua. Sto solo cercando di dirti che sono al tuo fianco.”

“Be’, cocca, al mio fianco non c’è posto per nessuno che non sia io.”

Gli diedi uno schiaffo, quasi nel momento stesso in cui sapevo che l’avrei fatto. Lo colpii in piena faccia, così forte da far colare un filo di saliva dall’angolo della sua bocca. Mi doleva la mano per l’impatto.

Un attimo dopo sorrise e si asciugò le labbra col dorso della mano. Sembrava che lo schiaffo gli avesse dato una gran soddisfazione, dimostrando qualcosa che sospettava da tempo.

“Mi dispiace,” dissi. “Non avrei mai voluto picchiarti. Non l’avevo mai fatto, no?”

Si alzò senza parlare e andò di sopra visibilmente soddisfatto della sua scoperta. I suoi stivali rimbombarono sugli scalini come cannonate.

La nostra vecchia amicizia era finita. Jonathan e Bobby passavano sempre più tempo fuori casa, rientravano tardi e andavano subito a letto. Non m’invitavano più a fumare insieme a loro o a ballare. Ned mi raccontò che andavano abbastanza spesso al cinema. E ogni tanto, disse, lui sedeva con loro a guardare un film che aveva già visto una mezza dozzina di volte. Disse che i commenti di Jonathan erano sorprendentemente sagaci – aveva forse la stoffa di un critico cinematografico.

Avevo abbastanza buon senso da non vietare a Bobby di venire a casa nostra. I miei genitori non mi avevano forse proibito di vedere Ned? E non erano stati i loro glaciali ultimatum a spingermi al matrimonio? Sinceramente, non avrei saputo dire se mi preoccupavo più per l’amore di Jonathan per i ragazzi in generale, o per il suo attaccamento a Bobby. Avevo naturalmente sperato che crescendo sarebbe diventato un uomo normale, avrebbe incontrato una ragazza e avuto dei bambini, ma sapevo che la sua decisione era già oltre ogni mia possibilità d’intervento. Jonathan era ormai indipendente. Ma Bobby, un amabile incerto ragazzo senza ambizioni riconoscibili e con un’intelligenza dubbia... Se fosse rimasto legato a lui, forse Jonathan non avrebbe mai saputo tutto quello che il mondo aveva da offrirgli. Bobby era ineluttabilmente un ragazzo di Cleveland, e io sapevo quale futuro poteva offrire questa città. Le strade del centro erano piene di giovani che non se n’erano andati: uomini con cravatte vistose di poco prezzo, panciuti a venticinque anni, che si gingillavano nelle tavole calde in attesa di riprendere il lavoro sotto le luci fluorescenti, mentre la lancetta dei secondi percorreva il quadrante dell’orologio.

Passò quasi un’altra settimana prima che Bobby e io c’incontrassimo.

Ero scesa in cucina, a mezzanotte passata, per stendere la sfoglia di un paio di torte. Non avevo dormito bene nelle ultime due settimane, in più c’era il russare asmatico di Ned. Rassegnata, ero scesa in camicia da notte, sperando che un semplice lavoro culinario potesse calmarmi tanto da conciliare il sonno.

Mi limitai ad accendere la lucina della cappa del fornello, di cui in realtà non avevo bisogno. Avrei potuto cucinare una torta senza nessun problema persino in una miniera di carbone.

Avevo quasi finito quando comparve Bobby con un’aria assonnata, disorientata, anche se con lui a volte era difficile capire. Si fermò sulla soglia della cucina, grosso, pallido e muscoloso, in mutande.

“Oh, salve,” mormorò. “Non sapevo che lei fosse qui. Ero sceso, uhm, solo per bere un bicchiere d’acqua.”

Avrebbe potuto prenderla anche dai rubinetti del bagno. Sapevo, invece, cosa era venuto a cercare: il gin che tenevamo su uno scaffale della cucina ormai era per metà acqua. Ma gli diedi corda:

“Non riuscivo a dormire, così ho deciso che tanto valeva fare qualcosa di utile.”

“Uh-huh,” disse. Rimase sulla soglia, combattuto fra il pericolo dell’avanzare e l’imbarazzo del ritirarsi. Riempii un bicchiere di acqua del rubinetto e glielo porsi.

“Grazie,” disse. E quando venne avanti a prendere il bicchiere portò nella cucina il suo odore particolare, un odore di giovane maschio con un sostrato che ricordava quello del metallo in una giornata fredda. Udii il gorgogliare della sua gola nel deglutire.

“Bobby.”

“Uh-huh?”

“Bobby, non siamo amici? Pensavo che fossimo amici, tu e io.”

Lui lasciò quasi cadere il bicchiere. Sorrise in uno spasmo di nervosismo e disse: “Be’, lo siamo. Voglio dire, io la considero molto in gamba.”

“Grazie. Mi fa piacere che mi consideri molto in gamba. Ma non ci siamo visti spesso negli ultimi tempi, no?”

“Credo di no,” disse. “Sono stato piuttosto occupato, sa...”

Non potei soffocare una risata di scherno. “Tu non sei esattamente l’amministratore delegato della General Motors,” polemizzai. “Cerchiamo di non prenderci in giro, d’accordo? È solo una perdita di tempo.”

Il sorriso si spense. Alzò le spalle, smarrito. “Be’,” disse. “Ecco, Jonathan...”

“Jonathan cosa?”

“Be’, è fatto a modo suo. Lo sa bene. Lei è, come dire, sua madre.”

“Giustissimo,” dissi. “Io sono, come dire, sua madre. Assomiglio a una che è possibile ingannare con delle scuse che non stanno in piedi.”

Bobby mi fece un altro sorriso da maschera, come se la mia fosse stata una battuta di spirito. Capii che con lui non aveva senso insistere in questa direzione. Stava solo eseguendo degli ordini. Gli stavo davanti con le braccia incrociate sul seno. Mi sarebbe stato facile dire: “Vattene subito da questa casa e non tornare più.” Avrei così rafforzato il suo status di eroe romantico.

Sforzandosi chiaramente di cambiare discorso, Bobby domandò: “Cosa sta facendo?”

“Come? Oh, una torta. Faccio un paio di torte di noci per domani.”

“Lei è una gran cuoca,” disse lui avidamente. “Non avevo mai assaggiato niente di così buono che fosse stato fatto da qualcuno. Voglio dire, qui è come un ristorante.”

“Non è niente di speciale,” dissi. Capivo dalla sua faccia che non era stata, in fin dei conti, una mossa per sviare la conversazione. Lo interessava davvero il fatto che fossi scesa a mezzanotte per fare delle torte.

“Un giorno mi piacerebbe aprire un ristorante,” disse. “Penso, cioè, che sarebbe favoloso avere un ristorante in una grande e vecchia casa da qualche parte.”

Guardò affascinato la sfoglia della torta, un cerchio chiaro e lucente sull’asse della pasta.

“Non è tanto difficile,” dissi. “A cucinare potrei insegnarti io. È solo un procedimento graduale, non c’è nessuna magia.”

“Non so,” disse dubbioso.

“Senti, non ho ancora steso la seconda sfoglia, perché non provi tu?”

“Davvero?”

“Vieni qui. Ti stupirà vedere quanto è facile, una volta imparato qualche trucco.”

Venne a mettersi dietro al banco accanto a me. Infilai la prima sfoglia in uno stampo, spruzzai farina sull’asse e versai la pasta avanzata.

“Lezione numero uno,” dissi. “Devi maneggiarla il meno possibile. Non è come la pasta per il pane – quella bisogna malmenarla finché non prende vita. La sfoglia di una torta è esattamente l’opposto, bisogna trattarla coi guanti. Dai. Stendila lontano da te, con una serie di movimenti verso l’alto. Non usare la forza.”

Prese il matterello e lo premette sulla massa flaccida della pasta.

“Sarai un buon allievo. Lo vedo già.”

“Sa fare anche quei bordi elaborati?”

“Certo che so farli.”

Nell’anno successivo insegnai a Bobby tutto ciò che sapevo in fatto di culinaria. Facevamo lunghe sedute in cucina, passando dalle torte al pane e dal pane alla pasta. Quando il suo prodotto usciva con successo dal forno, grasso, dorato e fumante, lo contemplava con schietta, assoluta meraviglia. Non ho mai visto nessuno appassionarsi tanto all’arte dell’infornare. Rimaneva continuamente stupito che da elementi umili e inerti come la farina, i grassi e le squallide bustine di lievito, fosse possibile creare la vita.

A volte Jonathan assisteva alle nostre sedute, ma mente e cuore erano chiaramente altrove. Non aveva la pazienza necessaria per i dosaggi precisi e il lento lievitare. Non aveva in realtà interesse per il cibo in quanto tale. Perfino da piccolo era stato indifferente a ciò che mangiava.

Così indugiava un po’ in cucina, poi saliva in camera sua e metteva su un disco. A volte Jimi Hendrix o i Rolling Stones, a volte un pezzo che non avevo mai sentito.

Nessuno dei due m’invitò più ad ascoltare musica. Adesso, invece, Bobby trotterellava nella mia cucina, dicendo: “Guardi, ho trovato questa ricetta per una torta di pesci.” Oppure: “Ehi, la sa fare una cosa che chiamano brioche?”

Jonathan fece domanda a diversi college e venne accettato dalla New York University e dalla University of Oregon. Tutte le scuole cui si era rivolto erano almeno a millecinquecento chilometri da Cleveland.

Bobby non presentò alcuna domanda – non accennò neppure a questa possibilità. Continuò a portarmi ricette e a comprare accessori per la cucina sempre più complessi, come la Cuisinart e una serie di coltelli tedeschi così sottili e affilati, che avrebbero potuto staccare una tappezzeria dal muro senza danneggiare l’intonaco.

In giugno, Ned e io assistemmo alla cerimonia per il conferimento dei diplomi insieme a Burt Morrow, che non vedevamo da più di un anno. Dopo il nostro ultimo incontro, Burt aveva rinunciato al pizzo per i basettoni. Indossava una giacca sportiva verde e un maglione a girocollo, con un medaglione d’oro grande come un mezzo dollaro appeso a una catenella.

Ci sedemmo quasi in fondo all’auditorio della scuola, una grande opaca stanza color salmone, che odorava vagamente, perfino in quell’occasione, di cemento bagnato e sacchetti con il pranzo. Ogni volta che uno studente, chiamato per nome, saliva sul palcoscenico per ritirare il diploma, lo accompagnavano i fischi e le urla dei suoi pari. Potevi misurare la popolarità di un allievo dal baccano suscitato dal suo nome. Bobby e Jonathan non ispirarono alcuna esplosione – come se i loro compagni di classe nemmeno li conoscessero, ma Burt quando fu pronunciato il nome di Bobby emise un fischio sorprendentemente acuto.

Poi entrambi salirono sul pullman della scuola pieno di ragazzi per una festa che sarebbe durata tutta la notte in un parco dei divertimenti. Ned e io invitammo Burt a bere un drink da qualche parte, non tollerando che tornasse a casa da solo.

“Un drink?” disse. “Sì, un drink con gli adulti sarebbe una bella cosa. Penso proprio che dovremmo farlo.”

Non c’era luce nei suoi occhi. Sembravano fatti di agata.

Andammo in un locale tranquillo vicino al lago, con tavolini di rame e giovani cameriere vestite come Mother Hubbard. Io ordinai una vodka gimlet che mi fu servita su un centrino anziché su un tovagliolo.

Ned levò il bicchiere e disse: “Alla nuova generazione. Le arrida la fortuna.”

Bevemmo tutti alla nuova generazione. Da altoparlanti nascosti un’orchestra suonava Moon River.

Sembrava di stare nel luogo meno importante della terra.

Burt Morrow disse: “Jonathan ha scelto la New York University, vero?”

“Già,” rispose Ned. “È una decisione presa per ragioni economiche. La NYU offre dei vantaggi rispetto a quella nell’Oregon.”

Burt batté le palpebre e si accese una sigaretta. “Be’, sono sicuro che si farà onore. Bobby, invece, non sembra molto interessato al college.”

“È ancora troppo giovane,” disse Ned. “Non si può mai sapere cosa succederà fra un anno.”

“Qualunque cosa scelga, per me va bene,” rispose Burt. “Non interferirei mai nella sua vita. Non mi verrebbe nemmeno in mente. Deve seguire la sua strada.”

“Immagino di sì,” disse Ned. “Tutti devono seguire la loro strada, vero?”

Burt annuì, traendo una lunga boccata dalla sua Pall Mall come se succhiasse la sostanza stessa della vita. “Certo,” disse saggiamente. “Certo.”

Fu l’uso della parola “certo” a colpirmi. Lo faceva sembrare un bambino precoce lasciato alle nostre cure.

“Come no?” dissi in tono enfatico. “Devono seguire la loro strada.”

“Be’,” disse Burt, “purché non facciano male a nessuno...”

“Burt,” continuai. “Quando Jonathan è entrato in rapporto con tuo figlio, era un ragazzo dolce e schietto, e ora, dopo tre anni, si è trasformato in uno che quasi non riconosco. Era uno studente col massimo dei voti e quando Bobby ha finito con lui, cara grazia se è riuscito ad andare al college.”

Burt mi guardò battendo le palpebre attraverso il fumo della sigaretta. Ned disse: “Via, Alice...”

“Oh, sta’ zitto,” gli dissi. “Voglio solo fare una domanda a Burt. Voglio chiedergli che cosa ho fatto di male.”

Burt disse: “Non penso che tu abbia fatto qualcosa di male.”

“E allora che ci faccio qui?” domandai. Avevo cominciato a tamburellare con un’unghia sul bicchiere. Udivo quel battito ritmico continuo come un rumore fastidioso fatto da qualcun altro. “Perché vivo in una città che disprezzo? Come sono finita con un figlio che mi odia? Avevo l’impressione di fare prima una cosa e poi un’altra, e tutto mi pareva logico, ma seduta qui in questo momento mi sembra tutto assurdo.”

“Be’,” disse Burt, ingoiando fumo. Sentivo ancora il tamburellare della mia unghia sul bicchiere.

“Volevamo essere una vera famiglia,” dissi. “Ne avevamo tutte le intenzioni.”

“Be’,” ancora mugugnò Burt. “Le cose si sistemeranno. Devi solo aver fede.”

“La fede possono permettersela i giovani. Io ho letto tutti i grandi libri e non per questo sono più attraente.”

“Ma va’ là,” tentò di rincuorarmi Ned. “Se non sei attraente, non capisco perché la metà degli uomini presenti in questa sala ti stia fissando.”

“Non trattarmi con condiscendenza,” mi alterai. “Non osare. Sei padrone di irritarti o di disprezzarmi o di essere mortalmente stufo di me, ma non di trattarmi con condiscendenza come se fossi una specie di mogliettina. È l’unica cosa che non intendo tollerare. Mi hai sentita? Lo capisci?”

Ned, senza dir nulla posò una mano sulla mia per fermare il tamburellare dell’unghia sul bicchiere. Lo guardai in faccia.

“Ned.”

Dissi solo questo, il suo nome.

“Va tutto bene,” disse. “Paghiamo i drink e andiamo a casa.”

“Scusami,” riuscii a dire.

“Non è niente,” mi assicurò. “Abbiamo avuto una giornata piena di emozioni. Si è diplomato il nostro unico figlio.”

Tenne la mano sulla mia. Attraverso il tavolo guardai Burt, che mi fissava con un’espressione di diretta, terribile comprensione.

Dopo la partenza di Jonathan per New York, Bobby affittò un appartamento in un austero edificio di arenaria, dall’altra parte della città. Si era iscritto a una scuola di cucina e la sera lavorava come cameriere. Cominciò a parlare di un ristorante da aprire insieme.

“Un locale per famiglie. Secondo me un ristorante potrebbe essere un buon affare, non credi? Potremmo lavorarci tutti.”

Ammisi che forse sarei stata una discreta sguattera.

“Sarai la capocuoca. E sarà il solo autentico ristorante sudista dell’Ohio.”

Dopo un po’ prese a cucinare per Ned e per me a casa nostra. Divenne un buon cuoco, con idee convincenti su come finanziare un ristorante.

Gli dissi che se voleva aprire un locale sarei stata la sua prima cliente, ma di non contare su di me come capocuoca. Sorrise come la prima volta che ci eravamo incontrati, qualche anno prima – un sorriso per farmi capire che ero passata a una lingua a lui ignota.

Quell’inverno trovai anch’io un lavoro, come segretaria di un’agenzia immobiliare. Avevamo bisogno di soldi. Il cinema di Ned andava peggio che mai, da quando avevano aperto tutte quelle multisale in periferia. La gente evitava il centro dopo il crepuscolo. Il suo cinema lampeggiava con un’insegna rosa al neon in una strada dove i lampioni fornivano soltanto piccole pozzanghere di luce, e manichini nudi sorridevano dietro i vetri rabbuiati di un grande magazzino ormai morto.

Benché nel mio lavoro di segretaria non ci fosse nulla di eccitante, o anche solo di particolare interesse, mi rallegrava avere ogni giorno una meta, al punto che cominciai a detestare i weekend. Nel tempo libero impiantai un erbario nel prato dietro casa.

Con Bobby ci si vedeva ogni tanto a pranzo in centro, poiché la sua scuola di cucina non era lontana dall’ufficio dove lavoravo. Era diventato piuttosto bello, di una bellezza convenzionale dai lineamenti delicati, e devo ammettere che mi faceva piacere incontrarlo in ristoranti affollati, dove il baccano di tutti quei famelici impiegati sembrava tagliare l’aria.

A pranzo, Bobby parlava con grande euforia del mestiere di ristoratore. A un certo punto, non so esattamente quando, aveva smesso di recitare la parte del giovane irreprensibile e di bell’aspetto per diventare effettivamente tale, tranne nei momenti in cui i suoi occhi brillavano un po’ troppo e la sua pelle si copriva di una patina di sudore. Allora mi faceva pensare a un piazzista di Bibbie, uno di quei fanatici sudisti atrocemente cordiali che avevo conosciuto bene da ragazza. Nella sua eccitazione Bobby poteva assumere quelle caratteristiche, ma ogni volta si riprendeva, si scusava con una risata e abbassava la voce, dando l’impressione di riassorbire il sudore nei suoi pori, con un effetto che era insieme fanciullesco e attraente, una giovane pericolosità tenuta sotto controllo.

Gli confessavo le mie preoccupazioni e ogni tanto mi lasciavo andare a qualche lamentela sulla mia situazione personale, poiché non volevo sfogarmi con Ned. La sua asma era molto peggiorata da quando gli andavano male gli affari, e si era messo a bere un po’ troppo.

Bobby disse innumerevoli volte: “Troverò dei finanziatori e aprirò il ristorante nel giro di un anno, due al massimo. Lo gestiremo insieme. E tutto andrà bene.”

Gli dissi: “Per te è facile dirlo. Sei giovane.”

“Anche tu sei giovane. Voglio dire che sei giovane per la tua età. Ti piacerà fare la capocuoca, aspetta e vedrai.”

“Non sarò a capo di niente.”

“Sì, invece. Vorrai esserlo quando vedrai il locale che intendo aprire per te. Andiamo, Alice. Dimmi che sei con me e creerò il miglior ristorante dell’Ohio.”

Un uomo ci gettò un’occhiata dal tavolo accanto. Era uno snello cinquantenne di successo con un vestito grigio ardesia. Potei leggere la domanda nei suoi occhi: donna matura, dal viso severo ma che non ha perso del tutto il suo tipo di bellezza, a pranzo con un avido giovane di bell’aspetto. Seguii per un attimo il filo della sua immaginazione che vedeva me e Bobby uscire dal ristorante e salire in una stanza presa in affitto dove la luce del pomeriggio arrivava obliqua attraverso le persiane.

Bobby si sporse in avanti, stendendo le grosse mani sulla tovaglia. Allungai un braccio e toccai le sue larghe e ruvide dita con le mie.

“D’accordo,” dissi. “Se sei davvero deciso ad aprire un ristorante, conta su di me. Farò tutto quello che posso per aiutarti.”

“Bene,” disse lui, e i suoi occhi luccicavano di lacrime appena spuntate.

Aprì il ristorante meno di un anno dopo. Forse aveva avuto troppa fretta. Forse, se avesse aspettato di sapere qualcosa in più sul mestiere, se la sarebbe cavata meglio. Ma sosteneva di essere pronto, e io posso soltanto domandarmi se ci fosse stato qualche rapporto fra le declinanti fortune di Ned e la premura di Bobby. Si fece finanziare da un individuo dall’aria piuttosto equivoca di nome Beechum, un uomo con i capelli cotonati e spazzolati in avanti, per coprire una chiazza di calvizie; portava sulle dita, bianche e sottili, un bel po’ di pesanti anelli turchesi e d’argento. Questo Beechum possedeva, o diceva di possedere, una fiorente catena di lavanderie a gettone e prevedeva, almeno a detta di Bobby, un analogo successo nel campo della cucina sudista.

Lasciandosi guidare da lui, Bobby prese in affitto uno spazio in un piccolo centro commerciale suburbano, fra un magazzino che vendeva vestiti e una panetteria nella cui vetrina spiccava un’enorme e un po’ squallida torta di nozze. Io espressi qualche dubbio sulla posizione, ma Bobby aveva compilato un elenco dei suoi vantaggi che non ammetteva repliche.

“È vicino ad alcuni importanti punti di vendita al dettaglio,” declamò in tono solenne. “Penney è il principale e Sears è, praticamente, voltando l’angolo. In zona ci sono altri negozi d’alimentari. E costa poco; insomma, da qualche parte bisogna pur cominciare, no?”

Non ho bisogno di fornire molti particolari sugli ottimistici inizi del ristorante e sul suo immediato declino. Basterà dire che Bobby lo chiamò “Da Alice” e che fece quanto poteva con quella sala dalle luci fluorescenti e dal soffitto fonoassorbente che era da poco fallita come pizzeria. Appese alle pareti poster incorniciati di New Orleans – balconi in ferro battuto del Quartiere Francese, un nero che suonava la tromba – e trovò nei mercati di robivecchi tavoli di seconda mano e sedie di legno. Provai con Bobby le varie ricette, discussi con lui sui condimenti, anche se di solito era Beechum ad avere l’ultima parola mettendoci in guardia sui costi troppo alti o sul conservatorismo alimentare dell’Ohio. Il menu finì per diventare una versione nordista della cucina sudista: zuppa di gombi, hush puppies, gamberetti surgelati e cucinati in tutti i modi possibili. I dessert erano notevoli: mi imponevo, quasi come un dovere, di fare un salto lì il più spesso possibile.

A volte, trovavo occupati solo un tavolo o due – clienti con sacchetti del discount accanto, commessi solitari nell’intervallo di colazione – oppure, ero l’unica avventrice. In quei casi Bobby si sedeva al mio tavolo mentre la cameriera o sfregava la già pulitissima vetrinetta dei dolci o si metteva a leggere, rassegnata, una rivista di cinema accanto al frigorifero.

Nonostante tutto, Bobby non perse mai il suo buonumore da piazzista di Bibbie.

“All’inizio le cose vanno sempre a rilento,” diceva. “Bisogna aspettare che giri la voce. Quelli che escono di qui hanno tutti consumato dei pasti favolosi, e lo diranno ad altre dieci persone. Devi solo lasciar fare al tempo.”

“La cucina è buona, Bobby. Mi piacerebbe che la gente potesse riconoscerlo.”

“Certo che lo riconosceranno,” mi rispose. “Se tu hai il prodotto, la gente finirà per trovarti. È questione di tempo.”

Sedevamo insieme nella sala deserta, sotto i tubi al neon. La gente passava davanti alle vetrine immacolate e guardava dentro con un’espressione che riconoscevo: la faccia divertita e un po’ spaventata di chi osserva un’iniziativa andata male. Io stessa avevo guardato in quel modo, attraverso innumerevoli vetrine, interni spopolati di ridondanti negozietti di articoli da regalo, gastronomie mal rifornite, boutique dove ogni vestito era passato di moda da cinque anni. Mentre la gente sfilava veloce con pacchi di Sears e di Penney, capivo ciò che provavano; quel particolare tipo di disprezzo nervoso ispirato da ogni singola dimostrazione della generale incapacità umana nel tramutare la paglia in oro.

In una tiepida notte di novembre, del tutto fuori stagione, sei mesi dopo l’apertura del ristorante, Burt Morrow ridusse in cenere se stesso e metà della sua casa addormentandosi con una sigaretta accesa. Ned e io fummo svegliati dalle sirene, anche se ovviamente, non potevamo conoscere la loro destinazione.

Avevo però un presentimento. Un irritante presentimento senza nome, e così rimasi sveglia anche quando Ned era tornato da un pezzo al suo rumoroso letargo e al suono quasi doloroso che produceva. Quando suonò il telefono, sapevo già. Ci andammo subito in macchina, con i cappotti infilati sopra le vestaglie.

Bobby ci vide arrivare. Non si mosse. Rimase sul prato accanto a un pompiere col cappotto nero. E quando Ned e io corremmo verso di lui, Bobby ci guardò con la vecchia espressione intontita di chi non capisce, ancora quell’aria da straniero.

Lo presi fra le braccia. Se ne stava immobile come una statua di sale. Disse con una voce acuta e limpida: “Mio padre è morto a mezzanotte circa.”

Le maniche della sua camicia erano strinate e i capelli emettevano un orribile odore di bruciato. Doveva aver cercato di entrare nella casa in fiamme.

Gli accarezzai i capelli rovinati. Rimase immobile. Metà della casa era ridotta in macerie dall’incendio, l’altra metà oscenamente illesa. La porta d’ingresso, rimasta aperta, mostrava l’annerita tappezzeria a fiori di una parete interna, dove era ancora appeso uno specchio nella sua elaborata cornice.

Poi Ned andò a informarsi su Burt. Io rimasi con Bobby. Che cominciò presto a tremare, sicché lo strinsi a me ancora più forte, nonostante il fremito continuasse ad aumentare. I suoi spasmi mi spaventavano, ma non mollai la presa. Tenni duro come facevo con Jonathan quando da piccolo aveva misteriose crisi di pianto e io, ignorante anche più di una ventiduenne, sapevo soltanto stringermelo al petto nel mio terrore e nella mia incertezza.

Jonathan tornò a casa per il funerale. I suoi capelli biondi scendevano ancora oltre le spalle, ma si era messo a portare i mocassini e una giacca di tweed con i jeans. Bobby vestiva invece come i giovani operai di Cleveland: calzoni larghi di materiale sintetico con le pieghe ben segnate, camicie pastello con spalline.

Andavano in giro in macchina, guardavano vecchi film alla televisione. Bobby era pallido e distratto, come se dall’interno del suo cranio venisse un rumore che soltanto lui poteva udire. Jonathan lo sorvegliava con attenzione, gli sedeva accanto, toccandogli una spalla o una mano.

Sembravano un convalescente e il suo infermiere. C’era compassione fra loro, ma neanche l’ombra di un rapporto sentimentale. Benché giovanissimi, avevano assunto comportamenti da anziani; seduti insieme sul divano, ti ricordavano vetrine di oggetti artistici e persiane alla veneziana. Bobby si metteva sempre accanto a Jonathan, infantilmente vicino. In certi momenti un estraneo qualsiasi non sarebbe stato in grado di dire chi fosse il consolatore e chi il consolato. Dopo una settimana, Jonathan tornò alla sua nuova vita di New York.

Ben presto Bobby chiuse il ristorante e dichiarò fallimento per liberarsi dai debiti. Adesso lavora in una panetteria. Sembra sentirsi più al sicuro fra le superfici infarinate, le uova fresche e i tubetti di crema.

Non potendo più pagare l’affitto del suo appartamento, si è trasferito da noi. Sta di sopra, nella camera di Jonathan, e dorme sul suo lettino.

Non ci dà molto disturbo averlo in casa. Per esser sinceri, ci fa comodo anche il piccolo affitto che ci versa, ora che Jonathan è al college e il cinema di Ned perennemente in crisi. Ha cominciato a noleggiare film stranieri, che di solito non vengono proiettati nelle nostre sale. Rattoppa la moquette dell’atrio col nastro isolante.

Jonathan telefona ogni domenica, da figlio modello. Si è trasferito dal dormitorio a un appartamento nel Greenwich Village. Cerco d’immaginarmi la sua vita: cinema e caffè, musica nei seminterrati. In realtà, lui non racconta nulla. Al limite, ci fa sapere che le lezioni stanno andando bene e che non ha bisogno di lenzuola, utensili da cucina o vestiti nuovi.

Certe volte penso che lascerò Ned. Annuncerò la mia decisione e me ne andrò, come una diciassettenne. Però non so immaginare di farlo sul serio. Una delle scoperte della mia prima maturità è che io tengo a lui, fino al midollo. Mi ispira tenerezza, perfino pietà. Se avesse più successo, forse ce la farei.

Invece mi sto di nuovo sforzando di inserirmi. Sono tornata nel gruppo della chiesa. Ho cominciato a dare lezioni di pasticceria all’YMCA, per quelle casalinghe che vogliono fare una sorpresa alle loro famiglie nei giorni di festa. Il mio corso ha attratto un numero sorprendente di allieve. Alcune di loro sono spiritose e socievoli, forse potrò convincerle a smettere con la mania della gelatina e della miscela granulata per il pudding. A Natale, quando sarà finito il corso, tre o quattro continueranno probabilmente a preparare le torte insieme.

Questo è quello che fai. Ti fabbrichi un futuro con le materie prime a portata di mano. Siedo a battere a macchina davanti a una scrivania dal lunedì al venerdì, e due volte la settimana insegno ad altre donne l’arte di rimestare le uova fino a farne una pastella, e poi stendere la farina in una sfoglia così sottile che attraverso di essa si potrebbe leggere il giornale. Ho poco tempo per i lavori domestici, ma in mia assenza è Bobby che tiene la casa immacolata. A parte le ore che passa alla panetteria, è sempre a casa. Sempre. Prepara la cena ogni sera. E poi, come al solito, Ned torna al cinema, mentre noi guardiamo la televisione o giochiamo a carte. Sto con lui finché è ora di andare a letto. A volte gli suggerisco di uscire per vedere come sta andando il mondo. Mi offro perfino di allungargli un po’ di soldi, ma lui dice sempre che è esattamente qui che vuole stare. Così ce ne stiamo seduti e lasciamo scorrere le ore. Se devo essere assolutamente sincera, certe volte vorrei che se ne andasse. È così tenace nella sua devozione, così infinitamente amabile.