Jonathan
Bobby e io arrivammo alla stazione con qualche minuto d’anticipo sul treno di Erich. In una stazioncina come quella – nient’altro che un edificio in mattoni marrone grande come un capanno per gli attrezzi, con davanti un marciapiede di cemento – ti rendevi veramente conto di quanto eri lontano da tutto. Qui, dove s’incontravano città e campagna, capivi che l’importanza di un treno in arrivo dipendeva dalla sua successiva partenza per altri luoghi. Perfino mentre guardavamo la linea argentea del treno che serpeggiava intorno all’ultimo verde pendio, immaginavo la tempesta di vento sabbioso che avrebbe sollevato andandosene via. Rifiuti e bicchieri di carta avrebbero svolazzato per qualche istante sul marciapiede per poi posarsi in un silenzio diffuso. Uno sbilenco distributore automatico rosso, che una volta vendeva giornali, giaceva squartato fra umide erbacce e ortiche oltre le rotaie.
Avevo telefonato a Erich perché mi sentivo solo. No, non è vero: dovrei dare al mio malessere il suo giusto nome. Quando ci eravamo trasferiti a Woodstock avevo creduto di trovarci un maggior numero di gay non accoppiati; avevo immaginato di incontrarli nei bar e nei negozi. Ma di fatto quelli che vivevano lì erano arrivati tutti con un compagno. Perciò avevo finito col telefonare al Dottor Feelgood invitandolo per un weekend.
Posai una mano sulla spalla di Bobby perché ero nervoso. Non vedevo Erich da più di un anno. La sola altra persona sul marciapiede era un’anziana signora obesa che, con crescente irritazione, cercava qualcosa in una borsa di paglia bianca. Rimasi fermo in quella posizione, mentre il treno curvava verso di noi. Un personaggio della mia vecchia, e più assennata, vita stava per venire a trovarmi nella bucolica stranezza della nuova.
Il treno arrivò rombando, le sue porte si aprirono con un sospiro. Sbarcò una famiglia, seguita da un uomo calvo in abito marrone e dall’obesa giovane donna attesa dalla vecchia con la borsa di paglia bianca. Per un attimo, sembrò che Erich non fosse sul treno. Ma poi comparve, con una valigia di tela blu, sul primo dei tre gradini metallici di un vagone.
Lo capii nel momento stesso in cui lo vidi. In una persona asciutta come Erich, la perdita anche solo di un paio di chili si sarebbe immediatamente notata. Ne aveva persi almeno quattro. La sua pelle era grigia e opaca.
Sorrise. Scese con agilità, anche se con lentezza, muovendosi come se tenesse in equilibrio sulla testa una brocca invisibile. Bobby gli prese un gomito quando passò dall’ultimo gradino al cemento.
“Ciao,” disse Erich. “Eccomi qua.”
“Eccoti qua,” dissi.
Dopo una breve esitazione, ci abbracciammo. Attraverso i vestiti – jeans neri e una camicia blu di denim – potei sentire tutta la sua magrezza. Era come stringere un fascio di ramoscelli. Nel suo abbraccio percepii un impeto di terrore. Il sangue mi salì alla testa con uno stordimento. La sola cosa che avevo voglia di fare era staccarmi, correre dal marciapiede fino all’erba. Mentre ci tenevamo abbracciati il mondo si frantumò sotto i miei occhi in roteanti puntini luminosi, in una chiassosa girandola colorata, e per un momento avrei potuto gettarlo a terra e spingerlo a calci sotto le ruote del treno perché ne fosse stritolato. Perché cessasse d’esistere.
Presi invece le sue spalle ossute tra le mani e dissi: “È bello vederti.” Il treno si rimise in moto, allontanandosi in una furia di polvere scintillante che ci arrivava al ginocchio.
“Grazie,” disse lui annuendo. “Grazie mille. È bello essere qui. Non venivo più in campagna da tanto, tanto tempo. Ciao, Bobby.”
Andando a casa, portammo avanti la conversazione in maniera spasmodica. Scoprii, con sorpresa, una mia chiara riluttanza a interrogare Erich sulla sua salute. Non era dovuta all’orrore ma all’imbarazzo; come se fosse tornato da una guerra senza le braccia o le gambe. Da dove ero seduto, potevo vedere la chiazza di pelle malsana che traspariva dai suoi capelli radi – pelle e capelli avevano perso una lucentezza ora percepibile solo per la sua assenza. Erich non era mai stato robusto, ma adesso sembrava che i suoi capelli potessero spaccarsi fra le mani. Sotto, il cuoio capelluto era duro e secco, privo di sostanza. Ciò che feci, davanti al suo evidente declino fisico, fu di mostrargli i miei panorami preferiti, di raccontargli le eccentricità della gente del posto e di parlare della nostra recente visita alla fiera della contea, dove erano esposti con orgoglio cocomeri da primo premio e maialini 4-H. Non riuscivo a smettere di accarezzarmi il petto. Attraversammo l’Hudson. Sotto di noi, i barconi solcavano luccicanti acque marrone. Sull’altra riva gli alberi stavano diventando gialli e rossi dopo le prime notti di gelo. Fra gli alberi, le fatiscenti dimore dei miliardari defunti guardavano cieche il cielo verde-azzurro che si andava rinfrescando.
Arrivati al vialetto ghiaioso che saliva alla casa, Erich boccheggiò e disse: “Oh, è meravigliosa. Non posso credere che sia tua.”
Non avevo mai udito tanta eccitazione nella sua voce – quel sottofondo di vibrante stupore. Non sapevo bene se credergli. C’era qualcosa di falso, di smanceroso. Sembrava la moglie di un uomo ambizioso, invitata nella casa di campagna del principale.
“Aspetta di vedere l’interno,” gli dissi. “Manca ancora parecchio perché sia a posto.”
“Oh no, è perfetta. Veramente perfetta. Comunque sia dentro.”
“Aspetta e vedrai,” replicai.
Clare ci venne incontro sulla veranda con la bambina. Rebecca, che aveva appena fatto il bagno, ci guardò strabuzzando gli occhi sbalordita, come se non avesse mai visto niente di simile – tre uomini che scendevano da una macchina e salivano gli scalini della veranda. Clare disse: “Salve, ragazzi.”
“Salve,” disse Erich. “Oh, è, be’, è bellissimo rivederti. Oh, che splendida bambina.”
Capii dalla sua faccia che Clare sospettava qualcosa. Potevo quasi vedere i meccanismi del processo interiore con cui si sforzava di far corrispondere questo Erich a quello che aveva conosciuto anni prima. Era sempre stato così magro e cinereo? E la sua pelle era sempre stata così opaca?
“È proprio lei,” disse dopo una pausa. “La trovi in una giornata buona, è angelica dal momento in cui ha aperto gli occhi stamattina. Ti conviene sbrigarti ad ammirarla, perché può cambiare da un momento all’altro.”
Erich, incerto su come comportarsi con i bambini piccoli, rimase a qualche passo di distanza e disse: “Ciao, piccola. Salve.” Rebecca guardò con gli occhi sgranati o lui o l’aria che lo circondava, mentre un rivolo di saliva le penzolava voluttuosamente dal mento. A quel punto parlava ormai da mesi. In privato riusciva a ciarlare per ore, mescolando parole vere e proprie a un suo vocabolario personale, ma davanti agli estranei si richiudeva in se stessa, guardandoli scopertamente affascinata forse con un po’ di spavento, ma senza sforzarsi, aspettando invece di vedere cosa sarebbe successo. Quando era incerta, tornava ad appellarsi al privilegio dell’infante, e nella sua stupefatta concentrazione c’era un elemento d’abbandono quasi sessuale. Avevo già imparato una delle lezioni della paternità – tu ami tua figlia anche perché la vedi completamente nuda. Una bambina non ha una vita segreta, e in confronto a lei tutti gli altri che conosci ti sembrano mascherati, imbacuccati e pieni di squallidi trucchetti. In un anno e mezzo avevo appreso che, se potevo immaginare che Rebecca, crescendo, mi avrebbe fatto arrabbiare o offeso o deluso, non vedevo come avrebbe mai potuto apparirmi strana. Neanche se fosse arrivata a pesare più di un quintale. Neanche se avesse affermato di discendere da un dio insetto o di aver commesso un omicidio per un guadagno personale. Eravamo legati, avevamo stabilito un’intimità che non poteva più essere cancellata fin quando avessimo vissuto.
“Che ne diresti di abbracciarmi?” dissi. Clare me la cedette con riluttanza. E quando la presi fra le braccia, lei mi guardò con un risoluto sbalordimento. “Ehi, signorina Rebecca,” dissi, e allora si mise bruscamente ed estaticamente a ridere, come se io fossi appena schizzato fuori da una scatola.
Me la tenni stretta al petto. Accostai il naso alla sua spalla grassoccia e inspirai.
Erich disse: “È davvero interessante. Quello che state facendo qui. Voglio dire che è molto, molto interessante.”
“A dir poco,” intervenne Clare. “Vieni dentro che ti mostro la tua camera. Oh, ho sempre voluto dire queste parole a qualcuno.”
Clare condusse Erich in casa e Bobby li seguì con la valigia. Io rimasi fuori un momento con Rebecca. La luce pomeridiana, che aveva acquisito il peso dorato dell’ottobre, faceva risaltare ogni singolo albero sul versante della montagna. Un grasso ragno maculato se ne stava immobile esattamente al centro di una tela che tracciava un esagono ben teso fra due montanti e il parapetto della veranda. Con la stessa rapidità con cui noi spazzavamo via le ragnatele con una scopa, questi ragni di campagna – alcuni variopinti, altri scialbi come polvere – le ricostruivano. Rebecca bofonchiava. Cominciò a battere le mani in quel modo frenetico, esasperato, che precedeva le sue immotivate crisi di pianto. Le accarezzai i capelli, aspettando che cominciassero le lacrime. Pensai di andarmene via con lei, di portarla con me sulle montagne.
“C’è ancora molto da fare,” sussurrai. “I pavimenti sono ancora pieni di tarli. E con la cucina non abbiamo neanche cominciato.”
Portammo Erich a vedere il ristorante, che a quel punto andava talmente bene da permettere a me e a Boboy di affidarlo per qualche ora a Marlys, la nostra aiuto cuoca, e alla sua amante Gert, la nuova cameriera. Quando avevamo deciso di aprire un ristorante, ci eravamo proposti di ricostruire quel genere di locale che avevamo sperato di trovare rientrando in macchina dall’Arizona – un’eccentrica trattoria che servisse cibi genuini cucinati da mani umane. Si venne poi a scoprire che non eravamo i soli a cercare un locale semplice e non facilmente definibile. Il nostro era sempre pieno, e durante i weekend la fila dei clienti in attesa occupava mezzo isolato. Era gratificante, e anche un po’ imbarazzante, vedere gente talmente avida di cibi così ordinari: pane e crocchette di patate e cipolle appena fatte, minestre e stufati, due diverse torte ogni giorno. Avevo a volte la sensazione che li stessimo ingannando con la nostra finta semplicità – avevamo avuto vite complicate e nevrotiche e adesso ci guadagnavamo da vivere stendendo una frolla a graticcio su mele provenienti da un frutteto lontano meno di venti chilometri e contrattando con una nonnina del posto l’acquisto di marmellate fatte in casa. Comunque una metà dei nostri clienti indossava abiti campagnoli comprati per corrispondenza e maglioni rustici lavorati a Hong Kong o in Guatemala. Non credo che qualcuno ci cascasse.
“Oh, ma è meraviglioso!” esclamò Erich. Il ristorante aveva completato la sua giornata di lavoro, anche se metà dei tavoli erano ancora occupati da clienti che stavano finendo di mangiare. Marlys e Gert ci accolsero con la loro particolare miscela di allegria cameratesca e di fugace e ben celato odio. Scoprii di essere vagamente a disagio per il pallore e la magrezza di Erich – come se avessi portato qualche mia perversione, qualche sgradevole segreto, in un luogo dove ero riuscito a simulare l’innocenza.
Marlys condusse Bobby in cucina per mostrargli ciò che bisognava ordinare e per fargli vedere la perdita della lavastoviglie che era riuscita, provvisoriamente, a tamponare. Avevo imparato che anche un piccolo ristorante di successo operava in un perenne stato di crisi. Le macchine si rompevano, prendevano fuoco, smettevano di funzionare quando erano più necessarie. I prodotti arrivavano ammaccati o non ancora maturi, le tignole scavavano gallerie nella farina. Gli appetiti della clientela obbedivano a schemi precisi ma imprevedibili, col risultato che quegli ingredienti che una settimana andavano subito esauriti si deterioravano sugli scaffali in quella successiva. I guadagni, anche se costanti, erano scarsi, e sembrava che letteralmente ogni ora dovessimo infornare altre torte, tagliare altre patate e mercanteggiare col fornitore di verdure per una cassetta di lattuga avvizzita. A volte entravo nella sala da pranzo e con un certo stupore mi fermavo a guardare a ogni tavolo le persone che mangiavano senza preoccuparsi e senza particolare attenzione, parlando dei fatti loro. Pensavano che questo era un ristorante, e trovavano quindi normale che combattessimo il deterioramento, i parassiti e le piccole infinite disonestà dei fornitori per far loro arrivare quel semplice cibo sui bianchi piatti di ceramica. Nelle rare occasioni in cui un cliente si lamentava che le sue uova erano troppo cotte e la sua pancetta non abbastanza abbrustolita, dovevo fare uno sforzo per non urlare: “Non vi rendete conto di come siete fortunati che noi facciamo questo? Non lo capite? Dov’è la vostra gratitudine, perdio?” Avevo cominciato a capire un po’ meglio il fascino dei piatti congelati o surgelati o cotti in un forno a microonde. Ha quasi lo stesso sapore. È già tagliato a dadini o impastato, arrotolato o tagliato. Non può andare a male. Resisterà finché i clienti non decideranno di volerlo di nuovo ordinare. Meno di due anni prima i proprietari di tutti quegli squallidi e illuminatissimi locali sui bordi delle strade ci erano sembrati dei nemici che smerciavano cibi avariati per avidità o per pigrizia. Adesso li consideravo vittime di un tipo più pratico e seducente di sconfitta.
Gert domandò a me e a Erich se volevamo qualcosa. Il caffè era ancora sul fuoco, disse, e l’ultima volta che aveva controllato c’erano ancora due fette di torta di mirtilli. Aveva capito che Erich era ammalato? Era questa la vera ragione della sua sollecitudine? Vidi che Erich ne era affascinato, e Gert era effettivamente affascinante, una donna dal forte viso rubizzo e con lunghi capelli grigi che aveva lasciato un buon lavoro nell’editoria per vivere quassù con Marlys. Vestiva come una contadina, abiti stampati e maglioni di lana grezza, ma parlava il russo e aveva curato un’edizione delle opere di un grande poeta. Dopo che ebbi rifiutato il caffè e la torta e che lei era tornata dai clienti, dovetti fare uno sforzo per non bisbigliare: “Pensiamo che rubi dalla cassa.”
Erich disse, con la sua nuova voce sovreccitata: “Questo posto ha un aspetto così piacevole.”
“È perché risulti più attraente,” dissi. “È parte integrante del richiamo che riusciamo a esercitare sul nostro target.”
“Chi sono tutti quei bambini?” domandò, alludendo alle foto sulle pareti.
“Estranei,” dissi. “Cinque per un dollaro da un rigattiere lungo l’Hudson. Per una buona metà sono adesso degli alcolizzati o dei maniaci religiosi o dei detenuti del penitenziario locale. L’altra metà vive con sei bambini in qualche camping per roulotte.”
Annuì con approvazione, come se fosse il destino migliore che potesse capitare a quei bambini cresciuti. Bobby uscì dalla cucina seguito da Marlys, un donnone lentigginoso con capelli color albicocca. “Penso che la lavastoviglie sia ormai andata,” disse. “Ha proprio l’aria di tirare gli ultimi.”
“Splendido,” dissi. “Ci vorranno settimane prima che ce ne portino una nuova. Sai come sono fatti.”
Marlys fece il gesto di darmi un pugno. “Maschiaccio,” disse.
Alzai le mani sopra la testa. “Oh, non farmi male,” replicai. Era il metodo che io e Marlys avevamo elaborato per procedere nel labirinto della sessualità e del potere. Lei guadagnava bene nel nostro ristorante e ci dava continuamente dei pugni, dei pizzicotti troppo forti sulle guance o delle pacche sul culo. Io ero il suo principale e fingevo un terrore fisico non del tutto diverso da ciò che, di fatto, sentivo. Marlys era grossa e calma e competente nelle cose materiali. Aveva riparato la lavastoviglie nel pieno del trambusto mattutino. Era brava a sciare e a navigare, e conosceva i nomi degli alberi.
“Be’, dovremo arrangiarci con questa finché non si romperà del tutto,” intervenne Bobby. “Forse per un po’ io e te dovremo tornare qui e lavare i piatti a mano. Sperando che non passi l’ispettore sanitario.”
“La vita meravigliosa del padrone di un ristorante,” dissi a Erich, che annuì amabilmente.
Cenammo a casa e parlammo soprattutto della bambina. Io e Clare utilizzammo Erich come spettatore del nostro interesse personale per i piccoli dettagli della puericultura. Servendo le pannocchie abbrustolite, gli hamburger e l’insalata di pomodori, gareggiammo nel raccontare il più recente esempio delle eccentricità di Rebecca, il nostro shock di fronte ai vari problemi fisici e morali del mestiere di genitori, e le nostre varie e personali risoluzioni su come introdurla, relativamente indenne, a una vita d’amore e di guadagni. Erich, nei cui geni erano state forse impresse le buone maniere, fingeva, o forse provava davvero, un interesse ardente per le nostre chiacchiere. Impossibile stabilirlo.
Dopo cena, mettemmo a letto Rebecca e guardammo uno dei film che Clare aveva noleggiato. (“In questo weekend,” aveva detto, “non conteremo soltanto sulla conversazione. Io vi offro film, giochi e tutto il resto. Avrei assunto anche un ammaestratore di cani, se avessi saputo dove trovarne uno da queste parti.”) Dopo il film, ci stirammo e sbadigliammo e ci dicemmo quanto eravamo stanchi – il che era vero solo in parte. Sì, consentimmo, era quasi ora di andare a letto. Erich sedeva raggomitolato sulla sua poltrona, con le mani fra le ginocchia come se la stanza fosse gelida. Era così piccolo e così deciso a comportarsi come un ospite discreto – approvando tutto e sostenendo che i desideri dei padroni di casa corrispondevano esattamente ai propri. Quasi prima di rendermene conto, gli dissi: “Erich, da quanto tempo stai così?”
Mi guardò con un’espressione di sorpresa e insieme di delusione, battendo rapidamente le palpebre. Mi venne in mente che poteva ritenermi la fonte della sua malattia. Cosa di fatto possibile.
“Non ero sicuro che si vedesse,” disse. Parlava così piano che facevo fatica a sentirlo. La sua voce era sottile come il sibilo di un radiatore. Ma batté freneticamente le palpebre e premette ancor più le cosce contro le mani. “Cominciavo a sentirmi meglio. Voglio dire che credevo di sembrare in buone condizioni.”
“Da quanto dura?” domandò Clare. Prima che io parlassi, si era alzata col pretesto di preparare una tisana, ed era rimasta in piedi, immobile, accanto al divano. Bobby, ancora seduto, osservava in silenzio.
Erich esitò, come se dovesse fare uno sforzo per ricordare. “Be’, mi sentivo male da più di un anno,” disse. “Ma non potevo crederci. Voglio dire che mi sembrava strano aver immaginato con tanta chiarezza quei sintomi e cominciare poi ad averli. Per un po’ pensai che fosse solo ipocondria. Ma poi, be’, cinque mesi fa, ebbi la diagnosi.”
“E non mi telefonasti?” dissi.
“A che sarebbe servito?” disse. Ora la sua voce fendeva l’aria, limpida come un cavo nella nebbia. Aveva perso il solito tono cortese ed entusiastico, acquisendo un’amarezza che non gli avevo mai sentita. “Non è come se ci fosse una cura,” disse. “Non è come se si possa far qualcosa che non sia preoccuparsene.”
“Ci siamo visti quando eri già malato. E tu non mi hai detto nulla.”
Ma nello stesso tempo ricordai: non abbiamo un vero rapporto. Il nostro scambio si basa soprattutto sul sesso e sul mettere in comune le nostre solitudini.
Mi guardò. I suoi occhi erano terribili. “A dirti la verità, mi sentivo a disagio. Quando pensavo che potesse succedermi una cosa come questa, quando ci pensavo e, come dire, la immaginavo, sapevo che mi sarei spaventato e arrabbiato. E anche sentito in colpa. Nessuna di queste reazioni mi sorprende molto. Ma mi stupisce sentirmi a disagio.”
“Caro, è normale,” disse Clare.
Erich annuì. “Certo che è normale. Che altro potrebbe essere?
“Niente... scusami.”
“Pensavo d’aver imboccato una strada che mi portasse a qualcosa di simile a questa casa,” disse lui. “Sai, quando cercavo d’immaginare cosa avrei fatto della mia vita. Pensavo di far soldi in qualche modo e di finire in un posto come questo.”
“Le notti sono lunghe da queste parti,” disse Clare.
“È un paradiso,” ribatté lui. “Non cercare d’imbrogliarmi. È un vero paradiso, e tu lo sai.”
Rimanemmo dove eravamo, con le luci accese e la pendola che ticchettava. Io potevo pensare soltanto a Rebecca. Se prima avrei voluto dileguarmi nell’erba alta, adesso volevo soltanto andare in camera sua, svegliarla e confortarla. Pensai ai suoi piedini perfetti e al modo in cui si afferrava i capelli con una mano mentre si succhiava il pollice dell’altra. Mi domandai se a venticinque anni le sarebbe rimasta qualche traccia di questa abitudine. Una volta cresciuta, avrebbe conservato la tendenza a giocherellare con i suoi capelli quando era stanca o preoccupata? E questo sarebbe piaciuto a qualcuno – i suoi capelli castani inconsapevolmente attorcigliati e poi sciolti e ancora attorcigliati intorno a un dito? O quel qualcuno si sarebbe irritato? L’avrebbe guardata un giorno in un momento di stanchezza, con le dita così affaccendate, e avrebbe pensato: “Sono stufo di tutto questo?”
Dissi: “Vado a dare un’occhiata alla piccola.”
“Sta bene,” disse Clare. “Non si è mai fatta sentire.”
“Tuttavia non fa mai male verificare.”
“Jonathan, Rebecca sta bene,” disse Clare. “Davvero. Sta bene.”
Quella notte Erich dormì nel mio letto da solo. Io, pur avendo dichiarato che avrei dormito da basso sul futon, finii nel letto di Bobby e Clare. Mi sdraiai in mezzo a loro, con le braccia incrociate sul petto.
“Quello che mi fa sentire veramente di merda,” dissi, “è quanto sono preoccupato per me stesso. Erich è malato e io mi preoccupo per lui ma, come dire, alla lontana. E come se la mia ansia fosse una marcia di Sousa e la malattia di Erich un ottavino che suona sullo sfondo.”
“È naturale,” disse lei. “Ma, senti, tu probabilmente stai benissimo. Sei stato in buona salute – per quanto? – per più di un anno dall’ultima volta che tu e Erich...”
“Può restare in incubazione per almeno cinque anni. E da qualche tempo si ritiene che potrebbe restarci anche dieci.”
Lei annuì. C’era qualcosa di sbagliato; non stava reagendo come mi sarei aspettato, con la grinta e l’insolenza di sempre. Pareva uscita dal suo personaggio.
Bobby giaceva in silenzio sull’altro mio fianco. Dopo cena non aveva quasi aperto bocca. “Bobby?” dissi.
“Uh-uh?”
“Che ti sta succedendo? Sei così silenzioso.”
“Sto benissimo,” mi rispose. “Stavo solo pensando.”
Clare mi strinse un gomito. Sapevo cosa voleva dire: lascialo in pace finché non avrà avuto il tempo di adattarsi alla sua reazione. Bobby affrontava le sorprese del mondo con una ponderatezza quasi letargica. Io e Clare avevamo stabilito che, se la casa avesse preso fuoco, uno dei due si sarebbe assunto la responsabilità di aiutarlo a decidere da quale finestra buttarsi.
“È che mi sento così... strano,” dissi. “Come me la caverò nei giorni che mi aspettano senza controllare i miei sintomi ogni cinque minuti?”
“Tesoro, probabilmente tu stai benissimo,” disse Clare, ma la sua voce mancava di convinzione. Per compensare la cosa, mi accarezzò il petto. Da quando era nata la bambina, Clare aveva mostrato una tendenza sempre più forte ai contatti fisici, ma le sue carezze erano ancora vaghe e fuggevoli, come se sospettasse che la carne altrui poteva bruciarle le mani.
“Tu che ne pensi, Bobby?” domandai.
“Penso che tu stia benone,” mi rispose.
“Be’, è una buona cosa. Mi fa piacere che lo pensi.”
Clare disse: “Mi domando come farà a cavarsela Erich. Ho la sensazione che non abbia molti amici.”
“Certo che ha degli amici,” dissi. “Cosa credi, che viva in un vuoto? Credi che sia soltanto una specie di comparsa senza una vita propria?”
“Come posso saperlo?” disse Clare.
Mi resi conto, dal suono della sua voce, che m’incolpava in qualche maniera di non essere capace d’amare Erich. Da quando era nata la bambina, aveva abbandonato in parte il suo vecchio cinismo e riteneva che per spiegare il mondo fosse più utile un affetto profondo.
“Per favore, non essere stizzita con me,” dissi. “Non adesso. Potrai esserlo due volte tanto in un altro momento.”
“Non sono stizzita.” Aveva l’abitudine di sconfessare le proprie azioni perfino mentre le stava compiendo. Credetti in quel momento che, con quel carattere contraddittorio, potesse danneggiare seriamente la bambina. Come avrebbe influito su Rebecca crescere con una madre che gridava: “Non sto gridando”?
“È vero,” dissi. “Non lo sei. Tu sai sempre con esattezza che cosa ti sta uscendo dalla bocca, e qualsiasi cosa uno pensi di aver udito è solo un’illusione.”
“Non c’è bisogno di litigare proprio adesso,” replicò. “A meno che tu non ne abbia una gran voglia.”
“Forse. Tu sei incazzata perché io non sono innamorato di Erich, no?”
“Niente affatto. Come potrei arrabbiarmi per una cosa del genere? O sei innamorato di qualcuno o non lo sei.”
“Oh, noi tre siamo molto più abituati all’ambiguità. Dimmi una cosa. Tu pensi che io mi sia incasinato la vita? Pensi che ci sia qualcosa di sbagliato nel fatto che sono innamorato di te e di Bobby e ho una relazione puramente sessuale con Erich?”
“Sei tu che lo dici,” ribatté.
“Ma voglio sentire cosa ne pensi tu. Tu pensi che in me ci sia qualcosa d’incompiuto. Non è così? Pensi che io e Bobby siamo soltanto due mezzi uomini. È per questo che sei finita con tutti e due. Che insieme, ai tuoi occhi, formiamo una persona. Giusto?”
“Piantala. Sei solo agitato, non è un buon momento per cercar di parlare.”
“Non l’ho cercato. È semplicemente successo. Non voglio che tu all’improvviso te la prenda con me per questo motivo. Perdio, Clare, sono troppo spaventato.”
Fece per dire: “Io non sto ...” ma si fermò in tempo. “Oh, forse sì. Sono anch’io spaventata.”
“Non devo amare Erich solamente perché è ammalato. Non devo assumermene all’improvviso la responsabilità.”
“No,” disse lei. “No, non credo che tu debba farlo.”
“Merda, ma perché l’ho invitato?”
“Jonathan, tesoro ... il fatto che Erich sia qui non fa nessuna differenza. Parli come se pensassi che si sia portato dietro una specie di bacillo.”
“E non è così? Prima potevo passare un’intera giornata senza pensarci. E questa possibilità ora l’ho persa.”
“Quello che dici non ha senso. O meglio, ce l’ha in qualche modo folle. Ma non prendertela con lui. Non è colpa sua.”
“Lo so,” dissi con tristezza. “Lo so.”
Il mio limite era la mia razionalità. Ero troppo equilibrato, troppo beneducato. Se fossi stato una persona differente, avrei potuto scatenarmi fracassando piatti e staccando quadri dalle pareti. Naturalmente non avrei risolto nulla, ma sarebbe stato uno sfogo voluttuoso – il solo piacere che potesse venirmi in mente in quel momento. L’idea del sesso mi ripugnava, come il conforto d’amici che sapevano di avere il sangue sano. Il mio solo desiderio era di correre per casa urlando, strappando le tendine e facendo a pezzi i mobili, mandando in frantumi ogni vetro.
“Cerca di dormire,” disse Clare. “Non ha senso star svegli a preoccuparsi.”
“Lo so. Proverò.”
“Okay. Buona notte.”
“Buona notte.”
Allungò un braccio sul mio ventre e mi attirò nel suo alone di calore e di profumo. Bobby respirava sommessamente sull’altro mio fianco. Sapevo che avrei dovuto sentirmi confortato e quasi ci riuscii, ma la vera e propria sensazione di conforto baluginava appena oltre la mia portata. Mi trovavo in un luogo remoto, con persone la cui vita sarebbe andata avanti immutata se io fossi morto. Giacevo fra Clare e Bobby, con le orecchie tese per sentire Rebecca. Se si fosse svegliata e si fosse messa a piangere, sarei andato in camera sua a consolarla. Avrei messo a scaldare un biberon e l’avrei tenuta fra le braccia mentre lo beveva. Giacevo aspettando di udire il suo primo gemito. Ma lei continuò a dormire.