Bobby

Era l’inizio della mia seconda nuova vita, in una città che aveva un moto rotatorio tutto suo – un’orbita più folle all’interno del calmo vortice verdazzurro della terra. New York non era disponibile alla disperazione e alle ambizioni mancate che aleggiavano intorno a città meno importanti. Qui la gente passava col rosso, e camminava imprecando davanti alle macchine che dovevano passare.

Non trovai subito un impiego. Ammetto di non essermi sforzato molto a cercarlo. Jonathan andava in ufficio quasi tutti i giorni. Definiva il successo del giornale una catastrofe naturale – un vulcano che non cessava di eruttare neppure per un tempo sufficiente alla ricostruzione di un villaggio. Il compositore montava gli articoli, la receptionist era affaccendata a incollare, con sei telefonate in attesa e tre inserzionisti che aspettavano nella nuova, pulitissima ed elegante sala d’aspetto, controllando l’orologio. Oltre alla sua rubrica settimanale, Jonathan doveva assemblare le pagine degli spettacoli e recensire, con uno pseudonimo, film che non aveva visto. Certe mattine trangugiava due tazze di caffè, si precipitava fuori e non tornava per sedici ore.

Clare aveva una vita più tranquilla. Era una di quelle persone con più soldi di quanti uno potrebbe immaginare, considerando quello che lei faceva. Io non obiettavo mai nulla. Ero contento di avere compagnia.

Mi alzavo assieme a Jonathan. Preparavo il caffè mentre lui faceva la doccia. Parlavamo e ascoltavamo musica mentre si vestiva. Una volta pronto, mi dava un bacio sulla guancia. Baciava anche Clare, se era già in piedi. Diceva: “Arrivederci, cari.” Poi correva via con mezza ciambella in mano.

Partito lui, la mattinata procedeva più lentamente, tra varie faccende domestiche. Clare e io sedevamo al tavolo della sala da pranzo con il secondo e il terzo caffè. Scorrevamo gli annunci economici. A volte lei si ridipingeva le unghie. Spesso guardavamo Il prezzo è giusto.

Clare andava a lavorare alle undici meno un quarto. Io rassettavo la casa, poi uscivo per la spesa della cena. Ogni giorno facevo un salto al negozio di dischi. Non acquistavo nulla. Me ne stavo lì ad ascoltare quel pezzo che la direzione aveva scelto come musica di sottofondo. Guardavo le altre persone occupate a scegliere cosa ascoltare.

Clare veniva a casa per le sette. Io avevo sempre la cena pronta. Jonathan mangiava fuori tutte le sere per poter scrivere la sua rubrica. Clare diceva che una volta s’incontrava con lui ovunque andasse e pranzavano insieme, ma, tutto sommato, era contenta di non dover più mangiare la stessa cosa per tutta la settimana. Dopo cena lei usciva con gli amici oppure rimaneva a casa con me ad ascoltare musica e a guardare la televisione. Diceva che andar fuori cominciava a sembrarle un lavoro, molto di più che trafficare con i suoi gioielli. Le sere in cui restava a casa, facevamo i pop-corn e bevevamo Diet Coke. A volte si ridipingeva le unghie per la seconda volta nella giornata. E la sera di un mercoledì di giugno diede inizio al lungo lavoro per rimettermi a nuovo, disse lei.

Cominciò tagliandomi i capelli. Jonathan era al giornale, mentre noi due eravamo andati al cinema. Mi aveva portato a vedere Eva contro Eva, scandalizzata che non ne avessi mai sentito parlare. Risultò essere una vecchia commedia in bianco e nero proiettata in una sala dove un topo sfrecciava intorno ai nostri piedi, rapido e leggero come un impulso malvagio.

Adesso eravamo di nuovo a casa, seduti fra i colori del soggiorno. Stavo per metter su Van Morrison quando lei disse: “Ehi, hai mai ascoltato Steve Reich?”

Le risposi di no, che ormai vivevo fuori della zona musica, cogliendo solo quella che veniva casualmente soffiata nella mia direzione. Lei disse: “Adesso lo metto su.”

La musica di Steve Reich si rivelò essere una cadenza ritmica con minuscole variazioni. Quel tipo di musica elettronica che non viene dagli strumenti – ma sembra fatta di interludi surgelati di aria vibrante. Lui faceva pensare a qualcuno che balbetta tranquillamente, pigramente, senza dare importanza alla cosa, nonostante la difficoltà per emettere la prima parola. Dovevi fare uno sforzo per capirlo, ma quando ci riuscivi vedevi la semplice bellezza di ciò che stava facendo – la sua lenta incantevole uniformità. Mi ricordava i miei giorni d’adulto a Cleveland, quelle piccole variazioni sovrapposte all’antico lusso della ripetizione.

A quel punto, Clare mi conosceva abbastanza da lasciarmi ascoltare. Non parlò di nessun argomento estraneo al momento, né durante Steve Reich, né mentre vedevamo Eva contro Eva. Finito il disco, dissi: “Uau.”

“Immaginavo che ti sarebbe piaciuto.”

“Oh, sì. È un grande. È proprio, come dire...”

Cercai di chiudere la frase disegnando con le mani un qualcosa che io pensavo potesse avvicinarsi alla forma della musica. Non so se Clare capì quel che stavo cercando di dirle.

Scosse il capo e disse: “Bobby.”

“Uh-huh?”

“Niente. Sei un vero fanatico, eh?”

Alzai le spalle. Non sapevo dove la sua visione del mondo mi collocasse per il mio fanatismo. Non sapevo se rivendicarlo o no. Guardai il disegno del tappeto ai miei piedi.

“Sai cosa penso?” disse lei. “Posso essere assolutamente franca?”

“Uh-huh,” dissi, incuriosito dalla sua assoluta franchezza e temendola con tutto il cuore.

“Penso che tu abbia bisogno di una nuova acconciatura, ecco.”

Era solo un suggerimento esteriore, una questione di cosmesi più che d’insufficienza personale. “Davvero?” dissi.

“Sto parlando di un piccolo intervento, in verità. Se devo proprio essere sincera, tu non sembri te stesso. E se vai in giro con l’aria di essere diverso da quel che sei, potresti finire con un lavoro sbagliato, e poi gli amici e non so che altro. Potresti finire con la vita di qualcun altro.”

Alzai di nuovo le spalle e sorrisi. “La mia vita è questa. E non mi sembra sbagliata.”

“Ma è solo l’inizio. Non resterai in eterno in questo appartamento a cucinare e a far le pulizie.”

“È vero,” dissi, anche se in realtà mi ero quasi convinto che avrei fatto proprio questo.

“E, tesoro, quella pettinatura da Bee Gees servirà solo a fuorviare la gente. Capisci cosa sto dicendo?”

“Uh-huh. Okay. Forse domani andrò da un parrucchiere.”

Mi sentii contrarre lo stomaco. Per vivere a New York avevo davvero bisogno di capelli simili a quelli di un clown? E poi... come sarei tornato a Cleveland o alla casa di Ned e Alice in Arizona. Tutte le mie alternative di riserva si sarebbero chiuse.

“Potrei farlo io,” disse lei. “Gratis.”

“Veramente?”

Compresi dalla sua risata che in quell’unica parola erano risuonati tutti i miei dubbi.

“Ho frequentato una scuola per parrucchieri, ti prego di credermi. E ho ancora le mie forbici. Posso darti subito un nuovo aspetto. Allora?”

Lasciai passare qualche istante. Poi mi decisi. Si trattava solo dei capelli. Potevo sempre farli ricrescere, e tornare nell’Ohio a chiedere il mio vecchio lavoro. Non ero obbligato a perdere il filo della mia vita di un tempo.

“Okay,” dissi. “Sicuro.”

Mi fece togliere la camicia, mio primo motivo di disagio, poiché non ero né snello né imponente. Sembravo esattamente uno che lavora in una panetteria. Ma Clare era già passata con decisione ai modi di una parrucchiera, assolutamente disinteressata a qualsiasi cosa scendesse al di sotto della mia clavicola. Mi disse in un tono assai professionale di bagnarmi la testa sotto il rubinetto della cucina. Poi mi stese un asciugamano sulle spalle e mi fece accomodare su una sedia al centro del soggiorno.

Le dissi: “A casa il barbiere si limitava a qualche spuntatina sui lati.”

“Be’, io invece mi sto accingendo a un grosso intervento chirurgico,” disse lei. “Ti fidi di me?”

“No,” risposi, prima che l’istinto mi potesse suggerire bugie pietose.

Si mise a ridere. “Be’, perché dovresti? Cerca però di rilassarti, okay? Lascia fare a mamma.”

“Okay.” Mi imposi di non preoccuparmi più del mio aspetto. E quando cominciò a lavorar di forbici, mi ricordai che le nostre vite sono fatte di cambiamenti al di là di ogni controllo. Buona politica è lasciare che le piccole cose avvengano da sole. Intanto le forbici tagliavano vicino all’orecchio. Piccoli mucchi di capelli bagnati, sorprendentemente morti, cadevano uno dopo l’altro attorno a me, sul pavimento.

“Continua finché non avrai finito,” dissi. “Non guarderò prima d’allora.”

“Perfetto.” Poi cessò un momento di tagliare e mise su Van Morrison per aiutarmi a stare calmo.

Dedicò ai miei capelli quasi tre quarti d’ora. Sentivo il suo calore e un leggero profumo di gelsomino, le dita esperte e rapide sul mio cuoio capelluto. Mi sentivo solleticare dal suo alito. Una volta cominciato, sarei stato contento se l’operazione fosse continuata tutta la notte – così non avrei mai visto la testa trasformata, ma sarei semplicemente rimasto lì, senza camicia, tra la pila crescente dei miei capelli tagliati, sentendo nell’aria la concentrazione di Clare che mi aleggiava intorno come un profumo.

Ma la fine, ovviamente, arrivò. Con un respiro profondo e un ultimo taglio alla mia tempia, disse: “Voilà. Vieni in bagno a vedere il risultato.”

Mi lasciai condurre, pur conoscendo benissimo la strada. Volevo conservare ancora un po’ quell’atteggiamento cooperativo, senza dovermi preoccupare delle condizioni dei miei capelli e del mio futuro. Mi trovai piazzato davanti allo specchio sotto la luce di una lampada.

Ta-ta,” disse.

Io ero lì che sbattevo le palpebre davanti al mio nuovo taglio a spazzola. I lati erano così corti da lasciar scorgere la cute, e il cocuzzolo si ergeva in un’unica ispida sporgenza. Guardarmi la faccia sotto quell’acconciatura, fu la prima occasione per darmi finalmente un’occhiata dall’esterno. Avevo orecchie piccole e scarne, arricciate su se stesse, occhi stretti e luccicanti, e un grosso naso che si divideva sulla punta come se fosse nato per essere due nasi più piccoli. Queste caratteristiche mi erano sempre apparse inevitabili. Ma adesso mi accorgevo di quanto fossero peculiari. Guardando la mia faccia con quella luce accecante, su uno sfondo di piastrelle bianche, mi sentivo come un parente chiamato a identificare un cadavere. Se esistono degli spiriti che volano via da noi quando l’organismo chiude bottega, forse è così che vediamo i nostri corpi svuotati – con lo stesso interesse e lo stesso orrore che si prova per la vittima di un incidente.

“Uau,” dissi.

“Hai un aspetto meraviglioso,” mi disse lei. “Lascia solo passare un po’ di tempo. Lo so che all’inizio è uno shock. Ma credimi, farai girare un bel po’ di teste qui attorno.”

Io continuavo a fissarmi nello specchio. Con quella nuova faccia, non sapevo ancora come comportarmi. Mi sembrava che Claire stesse chiedendomi di chiamare il pianeta Giove da una cabina telefonica.

Lei disse che dovevamo stare alzati ad aspettare il ritorno di Jonathan per mostrargli il mio nuovo aspetto. Non mi sorrideva molto quell’idea. Mi sentivo troppo sciocco nella mia vanità smascherata, nella disponibilità all’essere plasmato. Tuttavia acconsentii. Come ho già detto, Clare aveva su di me l’effetto di una musica. Mi entrava nel cervello. Non solo facevo quello che lei voleva, ma arrivavo a perdere di vista il punto dove finivano i miei desideri e cominciavano i suoi.

Aspettando Jonathan, ci crogiolammo nelle nostre abitudini, ormai consolidate. Preparammo i pop-corn e ci scolammo una confezione di sei Diet Coke. Ascoltammo di nuovo Steve Reich e guardammo una replica di Mary Tyler Moore. Scoprii che i miei capelli tagliati non influivano sul mio modo di star seduto in una stanza, né erano in grado di modificare i miei vecchi e incerti pensieri. Ne fui sollevato e deluso.

Jonathan rientrò dopo l’una. Quando udimmo la chiave, Clare mi disse di nascondermi in cucina. “Io me ne starò qui seduta nell’atteggiamento più normale di questo mondo,” bisbigliò. “E lo terrò in soggiorno. E dopo qualche minuto, arriverai tu con aria indifferente.”

Ero restio a comportarmi in questo modo. A sottolineare il mio imbarazzo. Ma Clare era troppo convincente e aveva capelli troppo luminosi per me. Ricordavo vagamente che una festa di compleanno, un vecchio col naso rosso e una parrucca color lattuga mi aveva estratto quarti di dollaro dalle orecchie e un mazzo di fiori di carta dall’interno della camicia. Così anche con lui, per quanto umiliato, avevo finto meraviglia e piacere.

Andai dunque nella buia cucina mentre Jonathan entrava. Udii il guaito quasi animalesco dei cardini della porta e il suo semplice colloquio con Clare. “Ciao, tesoro.” “Salve, cara.” “Com’è andata?” “Un disastro. Come al solito.” Parevano marito e moglie, più di qualsiasi coppia che io avessi mai conosciuto. Capii come l’avere un bambino potesse essere ai loro occhi il logico passo successivo.

Restai ad ascoltarli. Dalla finestra fluttuava come nebbia una fioca luce simile a quella di un pozzo d’aerazione. I vasi in muratura di Clare, pieni di erbe, gettavano sul davanzale un opaco benevolo bagliore. Aveva segnato ogni nome su un’etichetta di carta, nella sua piccola grafia acuminata: berretto d’asino, anice stellato, ortica.

Udii Jonathan chiedere: “Dov’è Bobby?”

“Oh, è qui da qualche parte,” rispose lei.

Doveva essere la mia battuta d’entrata. Il momento di venir fuori come se non fosse accaduto nulla d’inconsueto. Ma io rimasi in cucina, lasciandomi distrarre dalla pallida oscurità, dal ronzio del frigorifero e dai vasetti di spezie per curare il mal di testa, l’insonnia e la sfortuna. Come se fossi un corpo sepolto in un muro di mattoni che origliava la semplice quotidianità del vivere. Mi venne in mente che la morte poteva considerarsi una partecipazione più distaccata alla storia ininterrotta del mondo. Forse era questo, una presenza e un’assenza simultaneamente, mentre i tuoi amici continuavano a chiacchierare fra le lampade e i mobili appartenuti a qualcuno che non eri più tu. Per la prima volta da anni sentii la presenza di mio fratello, inconfondibile – la sua risolutezza e la sua eccezionalità, il personaggio che era stato Carlton persisteva anche quando erano sparite la voce e la carne, e tutte le altre conseguenze fisiche. Lo sentivo in quella cucina, come l’avevo sentito anni prima nel cimitero, in un freddo e bianco pomeriggio, quando un brillante avvenire luccicava oltre le lapidi, oltre la curva della terra. È qui, dissi a me stesso, e sapevo che era vero. Dopo la morte di nostro padre, avevo preso l’abitudine di non pensare a lui; di considerarmi nato nella casa di Ned e Alice. Ma ora mi tornarono in mente tutti quanti, morti a Cleveland. In questo momento dovevano esserci margherite selvatiche sulle loro tombe, e denti di leone trasformati in batuffoli. L’armonica, che avevo infilato nella tasca interna di Carlton, quand’era ancora nella camera mortuaria, sicuramente era scivolata attraverso le sue costole per andarsi a conficcare tra le assi della bara. Non stavo vivendo soltanto il mio futuro, ma anche quello perduto di mio fratello. Lo rappresentavo qui come lui rappresentava me là, in quell’altro inimmaginabile mondo. Il suo passaggio dalla vita alla morte assomigliava forse al mio ingresso in cucina – in un morbido nulla e in un nebbioso ronzio. Respirai l’aria buia. Mi chiedevo se magari fosse possibile che mentre io vivevo la sensazione di una morte dolce e tranquilla – pur continuando il mio cuore a pulsare verso i polmoni dilatati – lui potesse in qualche modo sentire la vita scorrere nella sua morte.

Fuori una corda di bucato era appesa allo stenditoio. Penzolavano vuote maniche di camicia. Mi resi conto che avrei potuto avere una vita e un sorprendente futuro, combinando me stesso con mio fratello, uniti da una sola volontà. Avrei potuto nutrirlo nel suo mondo, rappresentando me stesso e lui nel mio. Continuavo a rimanere in cucina mentre Clare mi forniva per entrare una battuta dopo l’altra. Guardavo una camicia da sera bianca dondolare dolcemente, sei piani sopra l’asfalto.

Infine venne a cercarmi. Mi domandò se ero in buona salute e le assicurai che stavo benissimo, meravigliosamente. Quando mi domandò cosa stesse succedendo, indicai con un gesto futile i panni appesi. Allora bofonchiò qualcosa, pensando che fosse stato un semplice attacco di timidezza, e mi condusse fuori mano nella mano.

Jonathan levò un grido alla vista dei miei capelli. Disse che avevo un’aria pericolosa. “Un Bobby per gli anni Ottanta,” annunciò Clare con orgoglio, e io ero abbastanza d’accordo. Sebbene Jonathan fosse esausto, portammo i miei capelli a fare una passeggiata nel Village. Bevemmo qualcosa in un locale gay di St. Marks e ballammo tutti e tre insieme. Era come se avessi sfondato una lastra di vetro e mi fossi unito alla festa, dopo essere rimasto seduto per anni in un cimitero a pensare che ero ancora vivo. Quando fummo stanchi di ballare, insistetti perché ci spingessimo fino alla banchina sull’Hudson a guardare la luce al neon che disegnava la tazza da caffè. Poi Clare e Jonathan tornarono a casa in taxi e io continuai a camminare per tutta New York. Scesi fino a Battery Park, dove Miss Libertà alzava la sua lucina dal porto, e proseguii fino alla fila di carrozze a cavalli in attesa di varia umanità, ubriaca o più semplicemente romantica, davanti al Plaza. Ero nella Quinta Avenue dalle parti delle Twenties quando il cielo cominciò a schiarirsi. Passò il furgone di un fornaio, con il conducente che cantava Crazy di Patsy Cline con voce fragorosa e stonata, e io cantai con lui per mezzo isolato. Immagino che in fondo fosse tutta colpa del taglio dei capelli: l’ordine abituale delle cose stava saltando in aria, mostrandomi quelle possibilità che c’erano sempre state, nascoste fra i disegni di qualche tappezzeria. In un’altra epoca, ci facevamo di acido più o meno per la stessa ragione.

Da allora, tutto diventò facile. Non c’era più bisogno di restare sposati al quotidiano. Cambiarmi, per Clare diventò un hobby entusiasmante. Mi portò a comprare vestiti nei negozi di roba usata della First Avenue, dove conosceva tutti i commessi e metà dei clienti. Andando a fare spese, si concentrava come un’aquila a caccia di trote. Poteva piombare su uno scatolone pieno di chiassosi stracci di poliestere – pezzi di Woolsworth macchiati che dovevano essere stati squallidi e sciagurati anche da nuovi – ed estrarne una camicia di seta pullulante di brillanti pesci gialli. Aveva una personalità appariscente ma con elementi di saprofagia, come se si nutrisse di organismi ormai morti, con una capacità tutta sua di riportarli attraverso se stessa; le cose scelte da lei emettevano un flebile bagliore invisibile agli altri acquirenti. Lasciai che fosse lei a decidere, e dopo due settimane avevo un guardaroba nuovo di vestiti vecchi, con calzoni sformati degli anni Quaranta e camicie di rayon color stucco o tabacco. Avevo vecchi jeans neri, una giacca di pelle da motociclista e una giubba sportiva nera attraversata da fili irregolari color peltro. Avevo persino scarpe straniere: Oxford marrone con punte a zanzariera di pelle, stivali militari neri e un paio di scarpe da ginnastica sempre nere, ma spruzzate di vernice.

Avevo anche un orecchino. Clare mi aveva trascinato in una gioielleria dell’Ottava Strada, e in meno del tempo occorrente per dire “cambio”, un uomo originario del Medio Oriente mi aveva piantato una vite d’argento nel lobo sinistro con una pistola idraulica. Non fu più doloroso della puntura di un insetto. Clare promise di fare per me un perfetto orecchino. Il mediorientale sorrise. I suoi denti sembravano scolpiti da un unico pezzo di legno.

In quei giorni era sempre una sorpresa vedere il mio riflesso nella vetrina di un negozio. Sembravo un mio gemello un po’ selvaggio, venuto su da qualche luogo più squallido per dar fastidio ai normali lavoratori. L’uomo di cui vedevo fluttuare il viso sopra le merci in mostra non avrebbe mai potuto scrivere “Buon compleanno” su diecimila torte. Non sarebbe mai vissuto contento in una camera al piano di sopra con vista sulla giungla di tubi metallici dei vicini.

Clare mi presentò ai suoi amici: Oshiko, il cinico disegnatore di cappelli; Ronnie, l’ipersensibile pittore che si esprimeva soltanto con interi capoversi; Stephen Cooper, che parlava di vendere la sua ditta d’importazione di marijuana per comprare una gioielleria a Provincetown, dove avrebbe potuto finalmente meditare, senza altra preoccupazione. Queste persone erano come film che venivano proiettati davanti a me, e che io guardavo con un tranquillo abbandono, da poltrona di quinta fila. Traevano piacere nel diventare quei personaggi che si erano creati e non avevano, certo, bisogno del mio input. Perciò andavamo d’accordo. Io stavo lì, in piedi o seduto, a guardare quel che succedeva. Se mi ero fatto una fama locale, era per la mia aria misteriosa e la calma imperturbabile. Appresi che i newyorkesi – almeno quelli che conosceva Clare – apprezzano il silenzio altrui, poiché giorno e notte sono circondati dal rumore. Gli amici di Clare erano disposti ad attribuire al mio silenzio una saggezza interiore. In realtà, molto spesso mi capitava di non pensare a nulla. Al limite, facevo qualche domanda o davo una risposta. Portavo l’orecchino che Clare aveva creato apposta per me, un gancio in fil di ferro con un’unica perla d’argento a forma di lacrima, un cerchio di metallo arrugginito e un cavallino con ali d’argento. Mi domandava, a volte con una punta di nervosismo, se mi stavo divertendo, e io rispondevo sempre di sì. Ed era sempre la verità. Andare in quei posti – night rumorosi senza insegna all’ingresso, feste in loft bianchi e nudi come l’Himalaya – mi rendeva semplicemente e puramente felice. Avevo passato anni in un cimitero; adesso facevo parte della festa. Nel mezzo di tutta quella vita, me ne stavo in silenzio come un fantasma. Una bella ragazza con la pelle di un chiaro bianco-azzurro, simile a quello del latte scremato, passeggiava serena fra i ballerini con un grasso serpente screziato avvolto attorno alla vita. Due ragazzi in abiti scozzesi se ne stavano solennemente affiancati come scolarette, tenendosi per mano come se montassero la guardia alla porta di un mondo più austero e difficile, senza capire come mai nessuno cercava d’entrarvi.

Ma i momenti migliori erano le sere in cui Jonathan smetteva di lavorare abbastanza presto e si poteva uscire, da soli o con Clare. Allora andavamo al cinema e poi a bere qualcosa in uno dei “nostri” bar. Gli altri amici di Clare si preoccupavano soprattutto di dare alla propria vita qualcosa di favoloso, cercando di seguire ogni vento. Si muovevano alla scoperta del posto giusto, della festa all’interno della festa. Io capivo questo impulso. Ma noi tre preferivamo vecchi bar sprofondati sotto il peso della quotidianità. Il Village allora ne era pieno, come lo è oggi. Conservano una viziata penombra interna color birra scura. Vendono patatine e arachidi con un sistema di fermagli in fil di ferro. I clienti abituali, tranquilli incorreggibili beoni convinti che le cose vadano sempre peggio e poco propensi a far chiasso, siedono ben saldi sugli sgabelli come le galline di un pollaio. Noi sceglievamo sempre un séparé sul retro.

Prendemmo l’abitudine di chiamarci gli Henderson. Non ricordo come fosse nata – nacque da una battuta sparata da Clare o da Jonathan. Gli Henderson erano una famiglia con modeste aspirazioni e gusti semplici. Amavano andare al cinema, guardare la TV e farsi qualche birra in un baretto di poche pretese. Quando uscivamo tutti insieme, parlavamo di “una serata con gli Henderson”. Clare diventava Mamma, io Junior e Jonathan zio Jonny. La storia s’arricchiva ogni volta di nuovi particolari. Mamma era il boss. Voleva che sapessimo comportarci e che stessimo dritti sulle sedie, schioccava la lingua se qualcuno di noi imprecava. Junior era una figura ben intenzionata ma un po’ vaga, una specie di boy scout piuttosto stupido che si lasciava convincere a fare qualsiasi cosa. Zio Jonny era il personaggio negativo. Bisognava tenerlo d’occhio. “Junior,” diceva Clare, “non sederti troppo vicino a tuo zio Jonny. E non c’è bisogno che lui venga in bagno con te, sei grande abbastanza per cavartela da solo.”

Ci dedicavamo al genere Henderson in maniera saltuaria. Era la storia che ci veniva in soccorso quando perdevamo interesse alle nostre, più vere e più complicate. Certe mattine, Jonathan prima di uscire diceva: “Stasera dovrei finire a un’ora decente. Chissà se agli Henderson piacerebbe andare a vedere il film di Fassbinder.” Clare e io rispondevamo quasi sempre di sì, perché le nostre vite erano più libere. Preferivamo una serata con gli Henderson agli altri nostri svaghi. A volte, quando rimanevo solo con lei, Clare diceva qualcosa con la sua voce di Mamma, una variante stridula e vagamente britannica della sua vera voce. Ma senza zio Jonny gli Henderson non funzionavano. Senza lo zio malvagio eravamo troppo semplici, nient’altro che una mamma autoritaria e un ragazzo che obbediva automaticamente. Avevamo bisogno di tutti i tre lati del triangolo. Avevamo bisogno di modi gentili, perversità e una voce di virtù.

Trovai un lavoretto: cucinare omelette in un locale di SoHo. Dicevo agli altri, e certe volte anche a me stesso, che stavo imparando il mestiere cominciando dalla gavetta, per tornare un giorno ad avere un mio ristorante. Ma non credevo in quest’ambizione, non del tutto. Potevo coltivarla solo per qualche minuto alla volta, concentrandomi sui particolari: eccomi controllare accigliato un vassoio di dolci prima che lasciassero la cucina, facendo scorrere la mano sul ripiano di mogano del bar, liscio e sontuoso come il fianco di una cavalla da riproduzione. Potevo ancora desiderarlo e trasmettere alla pelle quel fervore. Ma nel momento stesso in cui perdevo la concentrazione, ricadevo nel presente, che era soltanto vivere a New York con Jonathan e Clare e fare un lavoro qualsiasi. Mi piaceva passare le giornate con lo sguattero messicano nella cucina bisunta del ristorante, affettando funghi e sminuzzando gruyère. Non avere aspirazioni era il mio imbarazzante segreto.

Un’afosa notte d’agosto, feci una doccia ed entrai nudo in camera di Jonathan, convinto di essere solo nell’appartamento. Clare stava accompagnando una vecchia amica a visitare le attrazioni turistiche della città e Jonathan sarebbe dovuto essere al lavoro. Il cielo nero incombeva denso e pesante come fumo, e i barboni lasciavano impronte di sudore quando s’addormentavano sui marciapiedi. Entrai cantando Respect con perline d’acqua che luccicavano sulla pelle, e lo trovai che si stava togliendo le scarpe da ginnastica seduto sul pavimento.

“Ciao,” disse.

“Oh, salve. Pensavo che tu fossi al lavoro.”

“Si è rotto il condizionatore dell’ufficio e abbiamo deciso che non c’importa se questa settimana il giornale non esce. Ci sono dei limiti, persino nel giornalismo.”

“Uh-huh.” Me ne stavo imbarazzato a due passi dal corridoio. C’era il problema di cosa fare con le mani. Nell’appartamento non stavamo mai nudi con indifferenza. Non era una cosa che si faceva. Sentii che la mia corpulenza stava riscaldando l’aria. Sebbene Jonathan mi guardasse con amichevole interesse, riuscivo solo a pensare a come ero decaduto, fisicamente. Quando eravamo giovani e scatenati boyfriends, più nervosi che estatici l’uno nelle mani dell’altro, io ero fiero del mio corpo. Il mio petto era piatto, tarchiato; la pelle del ventre era tesa, e non c’erano cuscinetti sui tre solidi strati di muscoli. Adesso pesavo otto chili di troppo. Ero già troppo simile al corpo di mio padre – una botte in equilibrio su due gambe sottili. Me ne stavo lì nella mia carne pelosa e virginale, emettendo vapore acqueo nell’aria.

“Hai appena fatto la doccia?” mi domandò.

“Uh-huh.”

“Sembra che sia questa la differenza fra la vita e la morte.” Si sfilò i calzini e si tolse la T-shirt. Lasciò cadere i pantaloni sfrangiati neri, spiegandomi nel frattempo che l’intera redazione aveva deciso di tornare a casa in anticipo quando la rosa sul tavolo della receptionist aveva piegato il capo e perso tutti i petali. “Come un canarino in una miniera di carbone,” disse.

Finì di spogliarsi. Non l’avevo più visto nudo da quando avevamo entrambi sedici anni, ma il suo corpo era esattamente come lo ricordavo. Snello e quasi glabro, non muscoloso – un corpo di ragazzo. Non aveva fatto crescere nuovi avamposti di peli o di grasso. Non aveva assunto l’eroica forma a V di una vita più disciplinata. La sua pelle appariva fresca e tesa come pasta di pane lievitata. I capezzoli rosa cavalcavano innocenti la pallida curva del petto. Il solo cambiamento era un piccolo drago rosso, con un corpo di serpente e un’espressione guardinga, che si era fatto tatuare su una spalla.

Mi fece un ghigno, un po’ imbarazzato ma non intimidito. Mi tornò in mente Carlton, nudo nel cimitero sotto un duro cielo azzurro.

“Aprirò al massimo il rubinetto dell’acqua fredda. E scommetto che mi sembrerà ancora tiepida.”

“Già,” gli risposi.

Completamente nudo, percorse il corridoio per andare in bagno. Lo seguii. Avrei potuto restare in camera a vestirmi, ma non lo feci. Mi sedetti sul coperchio del water e gli parlai mentre faceva la doccia.

Quando ebbe finito, andammo insieme in soggiorno. A quel punto l’essere nudi non ci faceva più effetto, avendo perso la sua cruda assurdità. Le nostre pelli erano diventate una specie di vestito. Lui disse: “Il guaio di questa casa è che non c’è ventilazione. Pensi che sul tetto faccia più fresco?”

Risposi di sì, forse. Mi disse d’aspettare e corse in bagno. Ne tornò con due asciugamani.

“Prendi,” disse lanciandomene uno. “Per decenza, caso mai incontrassimo qualcuno.”

“Vuoi davvero salire senza niente addosso a parte l’asciugamano?”

“C’è gente che ha fatto di peggio in situazioni di minore emergenza. Vieni.”

Prese un vassoio di cubetti di ghiaccio dal frigorifero. Ci avvolgemmo gli asciugamani intorno alla vita e ci avviammo a piedi nudi in corridoio. Il silenzio era quasi totale. Dietro le porte chiuse ronzavano diversi ventilatori elettrici e una musica salsa saliva dalle scale. “Sss,” mi fece. Sempre in punta di piedi, ma in maniera esagerata, salì la scala che portava al tetto, tenendo in mano il gocciolante vassoio del ghiaccio di plastica blu. Io lo seguii appena dietro.

Il tetto era nero e deserto, un piano incatramato che assorbiva il tumulto elettrico della città. Soffiava un vento caldo che trascinava un odore di immondizia talmente vecchia da sembrare quasi dolce. “Meglio di niente,” disse Jonathan. “Qui almeno l’aria si muove.”

Stare lì, praticamente nudi al centro di tutto, trasmetteva una sensazione di sogno. C’era eccitazione, e insieme una formicolante, piacevole paura.

“È carino quassù,” dissi. “È quasi bello.”

“Quasi,” soggiunse, e si tolse l’asciugamano per stenderlo sulla superficie catramata. Nell’oscurità la sua pelle era di un grigio ghiaccio.

“Possono vederti,” dissi. A due isolati di distanza, un grattacielo splendeva come una città intera.

“No se ci sdraiamo,” replicò. “Fa piuttosto buio qui. E poi, cosa importa se ci vedono?”

Si stese sull’asciugamano come fosse stato sulla spiaggia. Io tolsi il mio dai fianchi e lo spiegai accanto al suo. L’aria che saliva dalla Terza Strada, piena di clacson e musica ispanica, accarezzava le mie parti scoperte.

“Prendi.” Fece schioccare il vassoio, mi porse un cubetto di ghiaccio e ne tenne uno per sé: “Sfregatelo addosso,” disse. “Non è molto, ma è tutto quello che abbiamo.”

Giacemmo affiancati sui nostri asciugamani, facendo scorrere il ghiaccio sulle pelli sudate. Dopo un po’, lui allungò una mano e premette il suo cubetto sul rilievo del mio ventre. “Finché Mamma è fuori,” disse, “lascia che sia il vecchio zio Jonny a occuparsi di te.”

“Okay,” dissi, e feci lo stesso con lui. Non parlammo più di quello che stavamo facendo. Parlammo invece di lavoro e di musica e di Clare. Parlando ci passavamo a vicenda il ghiaccio sul ventre, sul petto e sulla faccia. C’era sesso fra noi, ma non facemmo sesso – non ci furono atti espliciti. Era un modo più dolce, più fraterno, di fare l’amore. Era una comune devozione al benessere dell’altro, e una familiarità profonda coi nostri corpi imperfetti. Ogni volta che un cubetto si scioglieva, ne prendevamo un altro dal vassoio. Jonathan strofinava il ghiaccio sulla mia schiena, poi io facevo lo stesso sulla sua. Sentivo il trascorrere di ogni momento, l’aprirsi di una nuova possibilità, mentre consumavamo sdraiati quel poco di ghiaccio che rimaneva e parlavamo di tutto ciò che ci passava per la mente. Sopra di noi, stelle quasi bianche si erano sparpagliate su un cielo infuocato e rosso come un livido.