Bobby

Una volta nostro padre comprò una decappottabile. Non chiedetemi perché. Avevo cinque anni. La comprò e la portò a casa con la stessa disinvoltura con cui avrebbe portato una confezione di gelato. Immaginate la sorpresa di nostra madre. Lei che avvolgeva in strisce di gomma le maniglie delle porte. Lei che lavava i vecchi sacchi di plastica e li stendeva ad asciugare, tanto da farli sembrare una fila di turgide meduse addomesticate che fluttuavano al sole. Immaginatela nell’atto di sfregare via l’odore del formaggio da un sacchetto di plastica già riciclato tre o quattro volte, nello stesso momento in cui nostro padre s’accostava su una Chevrolet decappottabile, usata certo ma pur sempre un paesaggio mobile di metallo, paraurti cromati ed ettari di carne-macchina d’argento fuso incredibili a vedersi. L’aveva vista parcheggiata in centro con la scritta “Vendesi” e si era convinto di essere uno di quegli uomini che possono comprare un’auto per un capriccio. Ma mentre si avvicina è evidente che la sua euforia maniacale sta venendo meno. La macchina lo mette già a disagio. Entra nel viale d’accesso con un sorriso glaciale in armonia perfetta con la griglia della Chevrolet.

Naturalmente di questa macchina bisognerà sbarazzarsi. Nostra madre non ci metterà mai piede. Mio fratello Carlton e io veniamo portati a fare un giro. Carlton va in estasi. Io sono scettico. Se nostro padre è capace di comprare un’auto a un angolo di strada, cos’altro potrebbe combinare? E questo che cosa fa di lui?

Ci porta in campagna. Le bancarelle sui bordi della strada traboccano di mele. Le zucche gettano le loro luci sui prati delle case coloniche. Carlton, sempre più eccitato, monta in piedi sul sedile anteriore e bisogna tirarlo giù. Io do una mano. Nostro padre afferra da una parte la cintura da cowboy ornata di perline, mentre io la prendo dall’altra. Mi sento utile mentre aiuto a tirar giù Carlton.

Passiamo davanti a una grande fattoria. Le costruzioni sono ancorate in un mare di spighe ondeggianti, le bianche asticelle esterne sono bagnate dalla pallida luce del tardo pomeriggio. Passando, restiamo tutti e tre in silenzio, persino Carlton. C’è qualcosa di familiare in questo posto. Mucche al pascolo, alberi autunnali che gettano lunghe ombre. Dico a me stesso che noi siamo contadini, ma anche, in un modo o nell’altro, talmente ricchi da viaggiare su una decappottabile. Il mondo pullula di possibilità. Quando giro in macchina di notte, sono convinto che la luna mi stia seguendo.

“Siamo a casa,” grido passando davanti alla fattoria. Non so quello che dico. È l’effetto congiunto della velocità e del vento sul mio cervello. Ma né Carlton né nostro padre mi fanno domande. Procediamo in un silenzio brulicante di vita. In questo momento penso che stiamo facendo tutti lo stesso sogno. Alzo gli occhi per vedere la luna, bianca e incavata in un torbido cielo azzurro, ci sta davvero seguendo. Non passa molto tempo e Carlton è di nuovo in piedi, a urlare in faccia all’aria, e io e nostro padre lo stiamo tirando giù, per riportarlo al sicuro in quella grossa auto.