Bobby
Il giorno dopo la serata trascorsa a ballare sul tetto, Jonathan se la svignò.
Non ci lasciò nulla tranne poche parole su un foglio di bloc-notes tenuto fermo sul tavolo dalla pepaiola. “Cari B. e C., vi auguro di essere felici insieme. Sembra una frase fatta, no? Comunque, sto per rifarmi una vita da qualche altra parte, sinceramente non so dove. Telefonerò prima o poi. Regalate tutte le mie cose che non possono servirvi. Affettuosamente, J.”
Clare e io leggemmo più volte queste righe, come se fossero la versione in codice di un altro messaggio più sensato. Lei telefonò al giornale e scoprì che si era dimesso quel mattino senza preavviso. Non aveva lasciato un nuovo indirizzo. La sua camera era, come sempre, bianca e apparentemente disabitata. Per quanto potemmo capire, mancavano solo alcuni vestiti.
“Cazzo,” disse Clare. “Quel pezzo di merda. Come ha potuto far questo?”
“Non so. Suppongo che l’abbia fatto e basta.”
Clare era furiosa e io stupefatto. Le partenze tiravano fuori il mio senso del vuoto – sentivo annebbiarsi il cervello. Quando qualcuno se ne andava, perdevo ogni punto di riferimento. Venivo invaso da una densa, irritante confusione, forte come l’effetto di una droga. Una sorta di ritardo mentale, suppongo. Una connessione neurale mancante. Qualcuno che era qui non c’è più. Sembrava che non riuscissi a capirlo sul serio.
“Jonathan, che stronzo,” disse Clare. “Proprio quando le cose cominciavano a funzionare.” Appallottolò il biglietto e lo gettò nella spazzatura, ma poi lo recuperò, come se lo considerasse una possibile prova.
“Tornerà?” le chiesi. Avevo pensato di dirle qualcosa, ma venne fuori una domanda. “Cos’hanno gli uomini di sbagliato?”
Non mi rispose. Se ne stava in piedi sulla moquette del soggiorno con le braccia incrociate sul seno e le mascelle indurite. Vidi che in un’altra vita sarebbe forse stata una stravagante maestra di scuola, una di quelle zitelle scatenate che all’inizio ti sembrano patetiche ma finiscono per cambiarti la vita. Anch’io non seppi rispondere alla sua domanda. Sedevo su una spelacchiata poltrona di velluto che avevamo trascinato a casa dall’angolo fra la Quinta e la Diciottesima. Tenevo le mani strette fra le cosce. “Vorrei proprio saperlo,” disse lei. “Ne hai un’idea? Cosa succede nelle loro teste? Che cosa vogliono?”
Alzai le spalle. Non era una domanda cui potessi rispondere, anche se lei sembrava aspettarselo. Sarei probabilmente stato l’ultimo della sua classe, incapace di rispondere persino alle facili domande che mi lanciava.
“Io esco,” disse. Si gettò la giacca sulle spalle, quella di pelle sbiadita con il simbolo della pace sulla schiena. I suoi orecchini tintinnavano e lampeggiavano. Scese le scale pestando sui tacchi con tanta determinazione da farmi pensare che sarebbe tornata nel giro di un’ora, trascinando Jonathan per un orecchio. Avrebbe controllato le stazioni ferroviarie e gli aeroporti, e fermato il traffico sul ponte George Washington. Era troppo arrabbiata e troppo enorme perché lui potesse sfuggirle. Ma meno di un’ora dopo tornò a casa sola. Io non mi ero praticamente mosso, rimanendo seduto in soggiorno a guardarlo vivere la sua paziente storia. Al ritorno Clare rimase un momento immobile, guardandomi confusa.
“L’hai trovato?” domandai.
“No, naturalmente.”
Mi si avvicinò con uno sguardo sfavillante e determinato. “Mi ami?” domandò.
“Non so,” dissi. Mi venne in mente solo la verità.
“Nemmeno io so se ti amo,” disse. Mi sfilò la camicia con tanta energia da strappare le cuciture. Facemmo l’amore sul pavimento del soggiorno. Mi morsicò il collo e i capezzoli, mi tirò i capelli. Mi lasciò strisce sanguinanti sulla schiena e sul culo.
Jonathan aveva ritirato dalla banca tutti i suoi soldi e si era comprato un biglietto per chissà quale destinazione. Io e Clare passammo una settimana cercando di riprenderci e aspettando sue notizie.
“Non capisco,” disse lei. “Non sembra una cosa vera, è una specie di gesto eroico. Sai come può essere Jonathan.”
“Lo so.” Ma di fatto se n’era andato. Alice e Ned non furono in grado di dirci nulla, e di Erich conoscevamo solo il nome di battesimo e il fatto che lavorava in un ristorante. Quella sera dopo cena ci eravamo tutti congratulati a vicenda per la nostra capacità di divertirci, con la promessa di tornare a scatenarci al più presto. Non avevamo pensato che ci servissero informazioni particolari per metterci in contatto.
Era come se Jonathan fosse sparito in una botola. L’ultima volta che l’avevamo visto aveva lavato i piatti, tracannato un goccio di scotch e dato a entrambi il bacio della buona notte. Il mattino dopo era uscito di buon’ora per andare al lavoro. E quella sera, quando io e Clare tornammo a casa, c’era il biglietto.
“Stupido bastardo,” commentò ancora Clare. “Cosa gli è saltato in mente?”
“Ha sempre avuto un temperamento drammatico. Non può farci nulla.”
Aspettavo che si manifestassero i miei veri sentimenti. Aspettavo le reazioni appropriate: rabbia e delusione, il senso del tradimento. Ma passavano le settimane e persisteva quel vuoto. Non succedeva nulla; assolutamente nulla. Mi sentivo scivolare nello stato d’animo dei tempi di Cleveland, vivevo una vita fatta di particolari. Al lavoro, sminuzzavo montagne di formaggio e affettavo funghi in quantità pari al mio peso. A casa guardavo la televisione o la luce che cambiava fuori della finestra e sentivo scorrere il tempo, solo ascoltando i miei dischi. Appresi con sorpresa che New York poteva essere banale e ventosa come Cleveland. Poteva dare lo stesso senso di solitudine. Anche se pensiamo ai morti come abitanti del passato, io ora credo che esistano in un presente senza fine. Non c’è speranza che le cose migliorino. Non c’è memoria del cammino umano che ha portato a ogni momento.
Senza Jonathan ero io a tormentare la mia vita. Non riuscivo a stabilire contatti. Vagavo da un’ora all’altra come un’ombra che s’aggiri, smarrita e stupefatta, in stanze dove un tempo aveva ballato e pianto e fatto l’amore, quando ero abbastanza vivo da non farci caso.
Clare trovò un percorso sentimentale più prevedibile e finì per uscirne incolume. Imparò ad accettare i misteri di Jonathan e la sua irritante concentrazione su se stesso. Elaborò una storia da raccontare: non fidarti mai di chi non abbia ancora trent’anni. “Una persona non può essere considerata responsabile neppure a ventotto,” diceva. “A quell’età ti stai ancora domandando chi sei. A Jonathan auguro ogni bene, sinceramente. Spero che mi telefoni quando avrà sviluppato una sua personalità.”
Per qualche tempo mi odiò perché avevo ventotto anni. Dopo quell’unica sudata e dilaniante seduta sul pavimento del soggiorno, pose fine ai nostri rapporti fisici e mi mandò a dormire nel letto di Jonathan, per non sentire la mia mancanza il giorno in cui anch’io fossi sparito. Poi, dopo un mese, scivolò a letto con me a mezzanotte. “Sono stata proprio una stronza, vero?” sussurrò. “Ti prego di perdonarmi, tesoro. Sono troppo vulnerabile all’abbandono. Cosa dici? Pensi che potremmo cavarcela noi due da soli?”
Pensavo che probabilmente ce l’avremmo fatta. E glielo dissi. Eravamo più o meno innamorati, per quanto ne sapevamo. Mi piaceva far l’amore con lei; il calore e la sorpresa del suo corpo. Mi piaceva quella striscia di minuscoli peli dorati che scorreva dall’ombelico all’inguine e mi piacevano le grinze del suo culo nel punto in cui s’incontrava con la coscia. Quella notte facemmo l’amore, per la prima volta da un mese, ma, benché tutti i movimenti riuscissero bene, mancava il punto centrale. L’avevo sospettato. Il sesso era diventato una successione di particolari, con una dolce implosione alla fine. Un altro capitolo della giornata.
Da allora tornammo a dormire nello stesso letto. Facemmo l’amore una volta o due la settimana. Ma Jonathan andandosene aveva portato via qualcosa dall’aria – la fase successiva continuava a non manifestarsi. Io e Clare rimanevamo impantanati nel presente. Secondo la saggezza popolare, era il posto giusto dove stare. Ma quando accadde – quando perdemmo il senso del passato e del futuro – cominciammo ad andare alla deriva. Lo sentiva anche Clare. Mi chiamava “tesoro” e “amore” più spesso. Mi guardava con una blanda benevolenza che era il contrario esatto del desiderio. Cominciai a notare come sussultavano i tendini del suo collo quando parlava. Mi resi maggiormente conto di come disegnasse figure invisibili sulla tovaglia mentre discorrevamo, e di come il mascara s’induriva a volte in grumi appiccicosi sulle sue palpebre.
Facevamo le stesse cose di sempre. Guardavamo la televisione e andavamo al cinema, compravamo abiti vecchi e facevamo lunghe passeggiate nei quartieri in perenne trasformazione. Andavamo a volte nei night e alle feste. Eppure, il rapporto tra noi continuava a sfuggirci. Non avevamo cose impellenti da dire. Io non ero un parlatore. Assorbivo pensieri, ma non sapevo restituirli, trasformati in linguaggio. Jonathan aveva avuto abbastanza voce per tutti e due. Adesso c’erano silenzi che non portavano ad alcuna conclusione logica. Non avevamo mai ospiti. Non avevamo nessuno su cui spettegolare o di cui preoccuparci tranne noi stessi. Pensavo ai miei genitori. Pensavo ad Alice e Ned. Questo era l’amore tra un uomo e una donna. Questo era il cammino che avevo fatto nella mia educazione permanente.
Passò l’estate e venne l’autunno. Rividi Jonathan solo verso la fine di novembre, per caso.
Andai da un chiropratico dell’Upper West Side per una lesione alla spina dorsale che mi ero procurato sollevando una cassa di champagne al lavoro. L’Upper West Side era come un’altra città – noi vivevamo in centro. Percorrendo Central Park West verso la metropolitana, sgranavo gli occhi come un turista davanti alle gialle foglie di Central Park e agli azzimati cagnolini che trotterellavano accanto alle scarpe lucide dei loro padroni. Ero talmente assorbito dalla ricca diversità di quel luogo che rischiai di superare Jonathan senza vederlo.
Se ne stava appoggiato al muro di un condominio in mattoni, leggendo “The Village Voice”. Lo guardai come fosse una particolare attrazione della zona. Sembrava una fotografia che avesse preso vita, come devono apparire i particolari di Parigi, se la visiti a rotta di collo in un viaggio organizzato di tre giorni.
“Jonathan?”
Alzò gli occhi e pronunciò il mio nome.
“Jonathan – sei proprio tu?”
Annuì. “Sono io. Sono in città da un paio di settimane.”
“Accidenti. Non so cosa dire. Ma stai bene?”
Ero sconcertato dalla sua ricomparsa come lo ero stato dalla sua sparizione. Ancora una volta i miei circuiti si chiusero e mi lasciarono a fluttuare nello spazio.
“Sto benissimo, Bobby. Non avrei voluto che c’incontrassimo così.”
“Uh-huh. Ma insomma mi vuoi dire cosa sta succedendo?”
Sospirò. “Mi dispiace per come me ne sono andato. È stato un po’ ridicolo, no? È solo che... sapevo di non poter fare in altro modo. Sarei rimasto lì a fare lo zio aspettando che tu e Clare vi trasferiste e mi lasciaste solo in quell’orribile appartamento. Come sta, a proposito?”
“Sta bene. È più o meno la stessa. Tutti e due, suppongo, siamo più o meno gli stessi.”
“A sentirti, sembrerebbe un orribile destino.”
Alzai le spalle e lui di nuovo annuì. Mi era troppo familiare perché potessi vederlo oggettivamente. La faccia e i vestiti erano sempre più sfocati. Era come se avessi varcato una linea mentale, era come parlare con il ricordo che avevo di lui, o con uno che a Jonathan assomigliava soltanto. New York è piena di persone che sono crollate per la perdita delle persone care, e hanno deciso di attaccare discorso con tutti quelli che incontrano per strada.
“Vuoi che andiamo a bere qualcosa?” domandò.
“Okay.”
Andammo nel primo locale che trovammo, un pub irlandese che vendeva corned beef alla tavola calda. Era la versione per quartieri alti di quei pub del Village che frequentavamo nelle nostre serate con gli Henderson. Qui le decorazioni natalizie in carta crespata restavano fisse tutto l’anno e il televisore mostrava una tremolante soap-opera, fin troppo colorata, per una vecchia che sedeva tutta sola al bar pronta a sbraitare contro chiunque l’avesse disturbata.
Jonathan ordinò un Dewar’s on the rocks, e io una birra. Batté leggermente il bicchiere contro il mio. “Pensavi che mi avresti mai rivisto?” disse.
“Non sapevo. Come potevo saperlo?”
“Giusto. Come potevi?”
“Dove sei andato?” Continuava a mancarmi il senso della realtà. Pensai per un attimo di scusarmi, di andare al telefono pubblico sul retro e chiamare la polizia. Ma cosa avrei raccontato?
“Be’, in banca non avevo poi tanti soldi. Voglio dire che, se ne avessi avuto a migliaia, sarei probabilmente andato a Firenze o a Tokyo o in qualche posto del genere. Ma con quello che avevo, andai semplicemente in California. Ti ricordi di Donna Lee ai tempi del college? Adesso vive a San Francisco con una certa Cristina. Andai là e per un po’ dormii sul loro divano e cercai di inventarmi una vita a San Francisco.”
Sorseggiò il suo drink e succhiò un cubetto di ghiaccio nel momento esatto in cui sapevo che l’avrebbe fatto. Portava ancora l’anello Navajo d’argento che si era comprato a Cleveland quando avevamo quindici anni. Questi particolari turbinavano rumorosamente nella mia testa.
“In realtà io questo non lo capisco,” gli dissi. “E quel biglietto... Ci eravamo divertiti molto quella sera e la cena con Erich era stata un successo, e poi te ne andasti, così, senza preavviso. Per me non ha senso.”
“Be’, non ne ha molto neanche per me. Ma vedi, un mese fa ho compiuto ventinove anni. E mi sento come se dovessi averne trenta fra cinque minuti.”
“Hum, buon compleanno.”
“Ne avrai anche tu ventinove, fra qualche settimana.”
“È vero.”
“Be’, senti, adesso devo andare. Al giornale stanno ancora discutendo se riprendermi o no. Dovrei vedere Fred e Georgeanne fra mezz’ora. Sembra che non abbiano ancora deciso se sono un ipersensibile genio romantico o semplicemente un irresponsabile. Pago io i drink.”
Gettò sul tavolo una manciata di banconote. Allungai una mano e la posai sopra la sua.
“Vuoi venire stasera?” domandai. “Clare avrà voglia di vederti.”
Guardò le nostre due mani. “No, Bobby. Non voglio venire. È stato solo un caso. Voglio dire, tu non vieni mai nei quartieri alti. Pensavo che sarebbe stato come essere nel Michigan.”
“Non vuoi vederci?”
Mi guardò in faccia. Estrasse la mano da sotto la mia.
“Bobby, il fatto è che a quanto pare mi sono innamorato di tutti e due. Sembra strano, lo so. Non mi ero mai aspettato che succedesse una cosa del genere. Voglio dire... Be’, non è una cosa che puoi prevedere. Sembra che mi sia innamorato contemporaneamente di te e di Clare. L’ho capito quella notte sul tetto. Non volevo che fosse Erich il mio compagno. Né lui né nessun altro. È una situazione senza speranza. Fin quando conosco voi, sembra che non possa innamorarmi di nessun altro.”
Si alzò. “Aspetta,” dissi. “Un minuto solo.”
“Salutami Clare. Se e quando mi sarò rimesso in sesto, vi telefonerò.”
Uscì dal bar. Confuso com’ero, non mi venne in mente che cosa sarebbe stato ragionevole fare o dire. Lasciai che s’allontanasse in quel pomeriggio di novembre, e quando uscii sul marciapiede era sparito.
Fece come aveva detto. Visse per conto suo. Benché fossimo nella stessa città, io non lo incontrai più e lui non telefonò. Lasciò passare l’autunno e l’inverno. Poi in primavera ci lasciò un messaggio sulla segreteria telefonica.
“Ciao, Bobby e Clare. È una cosa strana da lasciar detta su un nastro, Bobby. Stamattina è morto mio padre. Ho pensato di fartelo sapere.”
La sua voce fu seguita da uno scatto meccanico e da un ronzio, e l’apparecchio passò al messaggio successivo.