Jonathan
Ci riunimmo al crepuscolo sul prato che si stava abbuiando. Avevo cinque anni. L’aria odorava di erba appena tagliata e i fermasabbia erano luminosi. Mio padre mi portava in spalla. Ero insieme pilota e prigioniero della sua enormità. Le mie gambe nude vibravano contro la carta vetrata delle sue guance, e le mie mani si aggrappavano alle sue orecchie, grandi e morbide conchiglie piene di peli.
Il rosso delle labbra e delle unghie di mia madre sembrava nero nel crepuscolo. Era incinta, incominciava appena a vedersi, e la gente le cedeva il passo. Avevamo montato la nostra piccola tenda sul secondo vialetto della fiera, con due sedie pieghevoli d’alluminio. Per la festa era accorsa una gran folla. Il fumo delle graticole portatili rendeva l’aria pungente. Mi sistemai sulle ginocchia di mio padre che mi offrì un sorso di birra mentre sedeva facendosi vento con le pagine dei fumetti del giornale domenicale. Zanzare volteggiavano sopra di noi nell’aria del crepuscolo.
Quel 4 Luglio la città di Cleveland aveva scritturato due famosi fratelli messicani perché allestissero uno spettacolo pirotecnico sopra il campo da golf municipale. Il duo faceva esibizioni del genere in tutto il mondo, per feste civili e religiose. Venivano dal profondo del Messico dove i panini avevano strane fogge, di teschi come di vergini, e i fuochi artificiali erano considerati la suprema forma artistica dell’uomo.
Lo spettacolo iniziò, in maniera tutt’altro che spettacolare, quando ancora non era comparsa la prima stella. I fratelli tenevano il pubblico sulla corda, lanciando qualcosa di semplice: normali fioriture doppie e triple, razzi a spirale, spruzzi colorati che formavano scialbe orchidee di fumo variopinto. Roba ordinaria. Poi, dopo una pausa, cominciarono a fare sul serio. Si levò un razzo, trascinandosi dietro un filo di luce argentea, e arrivato al culmine della traiettoria sbocciò purpureo in un abbagliante giglio a cinque punte dove ogni petalo faceva sbocciare a sua volta un nuovo fiore. La folla espresse vivamente il proprio apprezzamento. Mio padre mi posò un’enorme mano bruna sul ventre e mi domandò se mi stavo divertendo. Annuii. Sotto la sua gola un affioramento di peli biondo scuro lottava per aprirsi un varco oltre il colletto della camicia di madras.
Esplosero altri gigli, rossi, gialli e viola, con gambi argentei che sbucavano sotto di loro. Poi toccò ai serpenti, che sibilavano sbuffi di fuoco arancione, una dozzina alla volta: grandi curve ballonzolanti che s’incontravano, s’intrecciavano e si separavano senza smettere di sfrigolare. Furono seguiti da enormi e silenziosi fiocchi di neve, corpi cristallini di un bianco purissimo, e subito dopo da una costellazione che aveva la forma di Miss Liberty, occhi azzurri e labbra rosso cupo. A migliaia rimasero a bocca aperta e applaudirono. Ricordo la gola di mio padre, chiazzata di sangue disseccato, la pelle ispida che copriva quel grande meccanismo nodoso che inghiottiva la birra. Quando mi accadeva di piagnucolare per qualche esplosione particolarmente rumorosa o per uno sparpagliamento di tizzoni colorati che sembravano cadere direttamente sulle nostre teste, mi assicurava che non avevamo niente da temere. Sentivo il brontolio della sua voce nello stomaco e nelle gambe. Le sue braccia magre, pigramente solcate a metà da un’unica vena, mi tenevano ben saldo.
Voglio parlare della bellezza di mio padre. So che non è un argomento consueto trattandosi di un uomo – quando si parla dei nostri padri è assai più frequente raccontare episodi di coraggio o di furia titanica, perfino di tenerezza. Ma io voglio parlare della sua schietta, assoluta bellezza, della possente simmetria delle braccia, bionde e flessuosamente muscolose, come scolpite nella cenere e della grazia disinvolta e misurata della sua andatura. Era un uomo vigoroso, fisicamente nobile e dagli occhi scuri; padrone di un cinema, era pacatamente innamorato di tutti i suoi film. Mia madre soffriva di mal di testa e di accessi d’ironia, invece lui era sempre allegro, sempre in cammino verso qualche luogo, sempre sicuro che tutto sarebbe andato bene.
Quando era al lavoro, mia madre e io stavamo soli. Lei inventava giochi da fare al chiuso e mi chiedeva d’aiutarla a preparare torte. Non le piaceva uscire, soprattutto d’inverno, perché il freddo le faceva venire l’emicrania. Era una ragazza di New Orleans, sposata giovane, minuta e precisa nei movimenti. A volte mi faceva sedere con lei alla finestra a guardare la strada, aspettavamo il momento in cui il paesaggio gelato si sarebbe trasformato in qualcosa di più normale in modo che lei avrebbe potuto muoversi sicura come quelle robuste e disinvolte madri dell’Ohio che pilotavano macchine enormi cariche di provviste, bambini, parenti anziani. Le station-wagon percorrevano rumorose la nostra strada come carri armati infiocchettati per celebrare la vittoria in qualche guerra all’estero.
“Jonathan,” bisbigliò. “Ehi, piccolo. Cosa stai pensando?”
Era una delle sue domande preferite. “Non so,” dissi.
“Raccontami qualcosa,” disse. “Raccontami una storia.”
Sapevo di dover parlare. “Quei ragazzi stanno portando al fiume la loro slitta,” le dissi mentre due ragazzi più grandi del quartiere con berretti di lana – ragazzi che adoravo e temevo – passavano davanti a casa nostra trascinandosi dietro una vecchia Flexible Flyer. “La faranno correre sul ghiaccio. Ma devono stare attenti alle buche. Un bambino ci è caduto dentro ed è annegato.”
Non era un granché come storia. Ma era quanto di meglio avevo potuto inventare senza preavviso.
“Come fai a saperlo?” mi domandò.
Alzai le spalle. Avevo pensato di essermi inventato tutto. Era a volte difficile distinguere ciò che è accaduto da ciò che sarebbe potuto accadere.
“Ti spaventa questa storia?” disse.
“No,” risposi. M’immaginavo nell’atto di sfiorare una vasta distesa di ghiaccio, evitando abilmente le buche frastagliate in cui altri ragazzi cadevano con piccoli tonfi tristi e rassegnati.
“Qui sei al sicuro,” mi disse accarezzandomi i capelli. “Non devi preoccuparti di niente. Qui siamo tutti e due al riparo.”
Annuii, pur avendo colto una punta d’incertezza nella sua voce. La sua faccia, dalle mascelle pesanti e dal naso piccolo, tratteneva la cruda luce invernale che guizzava dalla strada ghiacciata e rimbalzava da una stanza all’altra di casa nostra, sfiorando l’armadietto dell’argenteria e facendo ronzare la piccola lampada prismatica.
“Che ne diresti di una storia buffa?” disse. “In questo momento è probabilmente quello che ci vuole.”
“Okay,” risposi, benché non conoscessi storie buffe. L’umorismo era per me un mistero – potevo raccontare solo ciò che vedevo. Fuori dalla nostra finestra, Miss Heidegger, la vecchia che abitava accanto a noi, uscì di casa con un cappotto che pareva di pelli di topi. Raccolse un foglio di giornale che il vento aveva soffiato nel suo cortile e rientrò zoppicando. Sapevo dai discorsi confidenziali dei miei genitori che Miss Heidegger era buffa, sotto diversi aspetti, per la mania di tenere immacolata la sua proprietà e per la convinzione che fossero i comunisti a gestire le scuole, la società dei telefoni e la chiesa luterana. A mio padre piaceva dire con voce gorgheggiante: “Quegli sporchi comunisti ci hanno mandato un’altra bolletta della luce. Credete a me: cercano di scacciarci dalle nostre case.” Quando diceva cose del genere, mia madre immancabilmente rideva, perfino quando era tempo di pagare le bollette e la paura le s’imprimeva più profondamente intorno alla bocca e agli occhi.
Quel giorno, seduto alla finestra, provai io a imitare Miss Heidegger. Con voce acuta e tremolante, non molto diversa dalla mia, dissi: “Oh, gli sporchi comunisti hanno lanciato questo giornale proprio nel mio cortile.” Mi alzai e camminai a gambe rigide fino al centro della stanza, dove raccolsi una copia di “Time” dal tavolino e l’agitai sopra la testa.
“Sporchi comunisti,” gracchiai. “State lontani. Smettetela di volerci scacciare dalle nostre case.”
Mia madre rise divertita. “Sei perfido,” disse.
Mi avvicinai e lei mi grattò affettuosamente la testa. La luce della strada faceva brillare le tendine di mussolina e invadeva il piatto blu delle caramelle sul tavolo di servizio. Eravamo al sicuro.
Mio padre era fuori tutto il giorno, veniva a casa per cena e la sera tornava al lavoro. Ancora oggi non so che cosa facesse per tutto quel tempo – a quanto mi risulta, la gestione di un unico cinematografo di scarso successo non richiede la presenza del proprietario dal mattino presto a tarda notte. Ma mio padre lavorava tutte quelle ore e né io né mia madre facevamo domande. Lui guadagnava soldi per mantenere la casa che ci proteggeva dagli inverni di Cleveland. Non avevamo bisogno di sapere altro.
Quando la sera tornava a casa, aveva un odore di gelo attaccato al corpo. Lui era grosso e inevitabile come un albero. E quando si toglieva il cappotto, i peli sottili degli avambracci si rizzavano elettricamente nell’aria calda e dolce della casa.
Mia madre serviva la cena mentre mio padre le accarezzava il ventre, che era allora tondo e solido come un pallone da basket.
“Tre gemelli,” disse. “Ci servirà una casa più grande. Due camere da letto non basteranno di sicuro.”
“Preoccupiamoci piuttosto della fattura dell’olio combustibile,” disse lei.
“Ancora un anno,” replicò lui. “Ancora un anno e saremo in grado di buttarci sul mercato immobiliare.”
Mio padre alludeva spesso a un cambiamento delle nostre condizioni. Se ci fossimo arrangiati per un certo periodo, poi le cose si sarebbero messe bene. Ma dovevamo stare attenti, resistere e pensare al meglio.
“Vedremo,” disse pacatamente mia madre.
Lui allora si alzò da tavola e andò a massaggiarle le spalle, che riusciva a contenere completamente con le sue mani. Avrebbe quasi potuto cingerle il collo solo col pollice e l’indice.
“Tu devi solo concentrarti sul bambino,” disse. “E mantenerti in buona salute. Al resto penserò io.”
Mia madre si sottometteva alle sue carezze ma non ne traeva alcun piacere. Glielo leggevo in faccia. Quando mio padre era a casa, aveva la stessa espressione guardinga di quando ci azzardavamo a uscire in strada. La sua presenza la innervosiva, come se qualcosa d’estraneo si fosse aperto un varco dentro di lei.
Mio padre aspettava che fosse lei a parlare, che portasse avanti la conversazione ininterrotta sulla nostra vita famigliare. Ma lei sedeva in silenzio, tendendo le spalle sotto i suoi massaggi.
“Be’, credo sia ora che io torni al lavoro,” disse lui dopo un po’. “Arrivederci, ometto. Bada tu alla casa.”
“Okay,” dissi. Mi accarezzò la schiena e mi diede un bacio sulla guancia. Mia madre si alzò e cominciò a lavare i piatti. Io rimasi seduto a guardare mio padre che nascondeva le braccia muscolose nelle maniche del cappotto e tornava fuori.
Più tardi, quella stessa sera, mentre mia madre, dopo avermi messo a letto, era rimasta da basso a guardare la televisione, m’intrufolai in camera sua e provai a spalmarmi sulle labbra il suo rossetto. Perfino al buio, mi resi conto che l’effetto era più grottesco che seducente. Modificava comunque il mio aspetto. Mi feci anche qualche macchia rossa sulle guance con il suo fard, e con la matita tracciai delle sopracciglia nere sopra quelle biondo chiaro naturali.
Poi in punta di piedi andai in bagno. Dalla tromba delle scale salivano risate e una musica eccitante. Spostai lo sgabello del bagno nel punto dove si metteva mio padre al mattino per radersi, e ci salii per guardarmi allo specchio. Le labbra che avevo disegnato erano grosse e informi, le chiazze di fard fuori centro. Dovevo resistere e pensare al meglio. Lentamente, cercando di evitare il cigolio dello sportello, aprii l’armadietto dei medicinali e tirai fuori il barattolo a strisce del Barbacol di mio padre. Sapevo cosa bisognava fare: scuotere il barattolo con un movimento secco e perfino impaziente, spruzzare un mucchietto di schiuma bianca sul palmo sinistro e stenderla generosamente, in chiazze abbondanti, sulle mascelle e sul collo. Applicare il trucco esigeva invece la stessa attenzione che occorre per disinnescare una bomba; radersi era un atto frettoloso e impreciso che produceva puntini minuscoli di sangue scarlatto e lasciava piccoli frammenti di peli – morti come pelle di serpente – nel lavabo.
Insaponatomi la faccia mi osservai a lungo allo specchio per controllare l’effetto. I miei occhi truccati luccicavano come ragni sulla ricca schiuma bianca. Non ero né effeminato né virile. Ero qualcos’altro. C’erano molti modi differenti di essere belli.
Mia madre diventava sempre più grossa. Andando a fare la spesa chiesi e ottenni una bambola rosa di vinile con sottili labbra rosso magenta e occhi cobalto che si chiudevano, quando la si metteva in posizione orizzontale, con lo stesso scatto definitivo dei telai delle finestre. Sospetto che i miei genitori avessero discusso sulla bambola e che fossero arrivati a decidere che mi avrebbe aiutato a superare il senso d’esclusione. Mia madre m’insegnò a metterle il pannolino e a farle il bagno nel lavabo della cucina. Perfino mio padre si fingeva interessato al suo benessere. “Come va la piccola?” mi domandò una sera prima di cena, mentre la tiravo fuori tutta irrigidita dal suo bagno.
“Bene,” dissi. Colava acqua dalle giunture. I capelli color zolfo, che spuntavano da una griglia di forellini praticati sul cranio, avevano ormai l’odore di un maglione bagnato.
“È brava,” disse mio padre e le accarezzò la solida guancia di gomma con una delle sue grosse dita. Io ero emozionato. Le voleva davvero bene.
“Sì,” dissi, tenendo quella cosa senza vita in uno spesso asciugamano bianco.
Mio padre s’accovacciò sulle grosse cosce, muovendo una brezza aromatizzata dal suo profumo. “Jonathan?” disse.
“Uh-huh.”
“Lo sai, vero, che di solito i maschietti non giocano con le bambole?”
“Be’, sì.”
“Questa è la tua bambina,” disse, “e qui in casa va benissimo. Ma se la mostrassi ad altri ragazzi, forse non capirebbero. E quindi è meglio che ci giochi soltanto qui. D’accordo?”
“Okay.”
“Bene.” Mi accarezzò un braccio. “Okay? Ci giocherai soltanto in casa, va bene?”
“Okay,” risposi. In piedi davanti a lui, con in mano la bambola fasciata, mi sentii umiliato per la prima volta in vita mia. Riconobbi in me una forte inadeguatezza, una ridicolaggine. Naturalmente sapevo che la bambina era solo un giocattolo, anche piuttosto imbarazzante. Un giocattolo sbagliato. Come avevo potuto credere che fosse qualcosa di diverso?
“Stai bene?” mi domandò.
“Uh-huh.”
“Bene. Senti, io adesso devo andare. Bada tu alla casa.”
“Papà?”
“Sì?”
“Mamma non vuole avere un bambino,” dissi.
“Certo che lo vuole.”
“No. Me l’ha detto lei.”
“Jonathan, tesoro... mamma e papà sono tutti e due felicissimi del bambino. Non lo sei anche tu?”
“Alla mamma non piace avere questo bambino,” dissi. “Me l’ha detto lei. Mi ha detto che tu vuoi averlo, ma lei no.”
Guardai la sua faccia gigantesca e mi accorsi di aver stabilito una sorta di contatto. Gli si illuminarono gli occhi e il delta dei capillari sul suo naso e sulle guance spiccò più netto e più rosso sulla sua pelle chiara.
“Non è vero, ragazzo,” disse. “Mamma a volte dice cose che non pensa. Credimi, è felice di avere il bambino quanto te e me.”
Non replicai.
“Ehi, sono in ritardo,” disse. “Credimi. Avrai una sorellina o un fratellino e impazziremo tutti per lei. O per lui. Tu sarai il suo fratellone. Andrà tutto a meraviglia.”
Dopo una pausa, aggiunse: “Bada tu alle cose mentre io non ci sono, okay?” Mi accarezzò una guancia col suo pollice spatolato e se ne andò.
Quella notte mi svegliò il rumore di un bisticcio sussurrato dietro la porta della loro camera in fondo al corridoio. Le loro voci sibilavano. Rimasi lì ad aspettare – cosa? Presto mi riaddormentai e ancora oggi non so se quel bisticcio me l’ero sognato, o no. A volte è ancora difficile distinguere ciò che è accaduto da ciò che poteva accadere.
Quando, una sera di dicembre, mia madre partorì, mi affidarono a Miss Heidegger, la vicina. Era una vecchia sospettosa con occhi bianco latte e capelli ridotti a una rada zazzera grigia, attraverso la quale potevi vedere la curva rosa del cranio.
Mentre guardavo i miei genitori allontanarsi in macchina, dalla finestra di Miss Heidegger, lei era in piedi alle mie spalle ed emanava un leggero profumo di rose appassite. Quando l’auto uscì dalla nostra visuale, le dissi: “In realtà, la mia mamma non avrà il bambino.”
“Ah no?” disse lei affabilmente, non avendo idea di come si parla ai bambini quando si mettono a fare discorsi strani.
“Non vuole,” dissi.
“Oh, andiamo, gli vorrai bene, tesoro,” disse Miss Heidegger. “Aspetta e vedrai quando mamma e papà lo porteranno a casa. Sarà la creaturina più dolce che puoi immaginare.”
“A lei non piace avere un bambino. Non lo vogliamo.”
A questo punto quel poco di sangue che rimaneva a Miss Heidegger le salì al viso, e lei con un rumore simile al fruscio di un fazzoletto di carta se ne andò in cucina a preparare la cena. Mise assieme qualcosa di molle e di bollito che a me, con la mia passione infantile per i cibi insipidi, piacque enormemente.
Mio padre telefonò dall’ospedale a mezzanotte passata. Miss Heidegger e io arrivammo all’apparecchio nello stesso istante. Rispose lei e rimase in piedi nella sua vestaglia blu facendo cenni d’approvazione con la testa avvizzita. Compresi che c’era qualcosa che non andava dai suoi occhi, divenuti improvvisamente fluidi e brillanti come un fiume ghiacciato un attimo prima del disgelo, quando resta soltanto il ricordo del ghiaccio che persiste ancora per un momento o due sulla luccicante acqua marrone.
Il bambino mi sarebbe stato descritto come una sorta di biglietto annullato, una torta tirata fuori dal forno troppo presto. Solo da adulto avrei ricostruito la vera storia del cordone aggrovigliato e della carne lacerata. Mia madre era morta per quasi un minuto, poi miracolosamente era tornata in vita. Dovettero asportarle quasi tutto l’utero. Il bambino, una femmina, aveva vissuto quel tanto che bastava per levare un unico gemito verso il soffitto fluorescente della sala-parto.
Suppongo che mio padre non se la sentisse di parlare con me. Lasciò il compito a Miss Heidegger, che posò il ricevitore e rimase in piedi davanti a me con un’espressione di terrorizzata confusione come quella con cui, immagino, dobbiamo accogliere la morte. Sapevo che doveva essere accaduto qualcosa di terribile.
Disse in un sussurro: “Oh, povera, povera gente. Oh, povero bambino.”
Pur non sapendo esattamente cosa fosse successo, capii che doveva essere un’occasione per manifestare il mio dolore. Cercai di sentirmi inconsolabile, ma in realtà ero contento e anche un po’ compiaciuto della possibilità di comportarmi bene in una brutta situazione.
“Non preoccuparti, caro,” disse Miss Heidegger. C’era nella sua voce un orrore autentico, un umido gorgogliante sottofondo. Cercai di guidarla fino a una sedia e scoprii con stupore che mi obbediva. Corsi in cucina e le portai un bicchiere d’acqua, vale a dire ciò che credevo si dovesse offrire a una persona in stato di agitazione emotiva.
“Non preoccuparti, ci sono io con te,” disse, mentre io prendevo un sottobicchiere e lo posavo sul tavolo di servizio. Cercò di attirarmi sulle sue ginocchia, ma io non ero interessato a sedermi lì. Rimasi in piedi vicino a lei. Mi accarezzò i capelli e io accarezzai le ossa sottili e complicate del suo ginocchio coperto di flanella.
Disse debolmente, in tono quasi interrogativo: “Oh, era così piena di salute. Sembrava che stesse benissimo.”
Incoraggiato, presi una delle sue vecchie mani, fragili e incipriate, nella mia.
“Oh, poverino,” disse. “Ma non preoccuparti adesso, sono qua io.”
Continuai a star lì, guardandole i piedi e tenendo le ossa della sua mano. Mi sorrise. C’era un’ombra di compiacimento in quel sorriso? Probabilmente no: credo d’averlo solo immaginato. Le massaggiai delicatamente la mano. Restammo così per un pezzo, a capo chino, immobili e vagamente compiaciuti, come un paio di zitelle che hanno imparato a trovare consolazione nella sofferenza insondabile del mondo.
Mia madre tornò dopo più di una settimana, poco espansiva e un po’ intimidita. Sia lei che mio padre si guardarono attorno come se la casa fosse nuova, come se fosse stato loro promesso qualcosa di più sontuoso. Durante l’assenza di mia madre, Miss Heidegger vi aveva insediato un suo odore, composto di quell’acquoso profumo di rose e degli aromi di una cucina non famigliare. Strinse la mano ai miei genitori e si ritirò, con discrezione e con una certa fretta, come se qualcuno l’avesse segretamente avvertita che da un momento all’altro la casa avrebbe preso fuoco.
Dopo la sua partenza, i miei s’inginocchiarono e mi abbracciarono. Mi circondarono, quasi mi seppellirono, nella loro carne e nei loro ben noti odori.
Mio padre piangeva. Non l’ho mai visto versare una lacrima, ma ora gemeva smodatamente, con grandi singhiozzi pieni di muco che si fermavano in gola con un rumore di tubo ingorgato. Dopo un attimo d’esitazione, gli posai una mano sull’avambraccio. Non si scostò e non mi sgridò. I suoi peli chiari sbucavano ruvidi fra le mie dita.
“È tutto okay,” bisbigliai, ma non credo che avesse potuto udirmi attraverso i lamenti. “È tutto okay,” ripetei ad alta voce, ma non sembrò trarre alcun conforto dalle mie rassicurazioni.
Guardai mia madre. Lei non stava piangendo. Dalla sua faccia era defluito non soltanto il colore, ma l’espressione. Come se fosse stata un corpo vuoto che aspettava muto l’immissione di un’anima umana. Quando però si sentì addosso i miei occhi, riuscì, con un gesto vigoroso da sonnambula, a stringermi al seno. Il suo abbraccio mi colse alla sprovvista, lasciai andare l’avambraccio di mio padre. Mentre mia madre mi affondava la faccia tra le pieghe del cappotto, lo persi completamente di vista. Mi sentivo attirato nelle profondità del cappotto di lei. Mi riempiva naso e orecchie. I lamenti di mio padre divennero un suono remoto e soffocato man mano che mi sentivo assorbire negli abiti di mia madre, oltre lo strato esteriore di freddo fino al nucleo profumato dal suo solito odore. Resistetti un momento, cercando di tornare da mio padre, ma lei era troppo forte. Sparii. Lasciai mio padre e mi abbandonai al dolore più vorace di mia madre.
Dopo, era più che mai restia a uscire. Certe mattine, mi prendeva con sé a letto e mi ci teneva a leggere o a guardare la televisione fino a metà pomeriggio. Giocavamo, ci raccontavamo storie. Pensavo di aver capito cosa stessimo facendo in quelle lunghe giornate che passavamo chiusi in casa. Ci stavamo allenando per quando mio padre non sarebbe più stato con noi, quando saremmo rimasti noi due soli.
Per far ridere mia madre facevo delle imitazioni, anche se non ero più disposto a imitare Miss Heidegger. Finii per rifare mia madre, cosa che certe volte la faceva morir dal ridere. Mi mettevo le sue sciarpe e i suoi cappelli, parlavo in una mia versione personale con il suo accento di New Orleans, che era per metà del Sud e per metà del Bronx. “Cosa stai pensando?” dicevo strascicando le parole. “Tesoro, raccontami una storia.”
E lei ogni volta rideva finché non le brillavano gli occhi di lacrime. “Amore,” diceva, “sei un attore nato. Che ne diresti se ti facessimo recitare? Così potrai mantenere la tua vecchia mamma quando sarà rimbambita.”
Mio padre non le massaggiava più le spalle quando veniva a casa la sera. Non le dava più baci schioccanti sulla fronte o sulla punta del naso. Non poteva. Le era cresciuto intorno un campo di forze, solido e trasparente come vetro. Lo vedevo ergersi quando lui tornava a casa, con il cappotto impregnato degli odori aggressivi del mondo esterno. E quando era salito del tutto, mia madre non aveva un aspetto diverso – la sua faccia era sempre intelligente e leggermente febbrile, i suoi movimenti, quando apparecchiava per la cena perfetta che aveva preparato, precisi come quelli di un chirurgo – ma era impossibile toccarla. Lo sapevamo, io e mio padre, con una certezza viscerale resa ancor più solida dalla sua inspiegabilità. Mia madre aveva dei poteri. Consumavamo la nostra cena (la sua cucina continuava a migliorare, raggiungeva livelli sempre più complicati), parlavamo delle solite cose e mio padre baciava l’aria intorno a noi mentre si preparava a tornare fuori.
Una sera a primavera inoltrata, mi svegliò il rumore di una vera e propria lite. I miei genitori erano da basso. Perfino quando erano in collera, parlavano a voce talmente bassa che solo una parola o una frase riusciva ogni tanto a salire fino alla mia camera. L’effetto era quello di due persone che gridavano chiuse in un sacco pesante. Udii mio padre dire: “Punizione”, e poco meno di un minuto dopo mia madre che rispondeva: “Quello che vuoi... è qualcosa... di egoistico.”
Io sdraiato al buio ascoltavo. Poi udii dei passi – quelli di mio padre – su per la scala. Credevo che sarebbe venuto in camera mia e finsi un elaborato e angelico sonno, con la testa al centro del cuscino e le labbra lievemente socchiuse. Ma non venne da me. Andò invece nella camera che divideva con mia madre. Lo sentii entrare e non udii altro.
Passarono i minuti. Mia madre non lo seguì. La casa era silenziosa, avvolta in una gelida quiete invernale, sebbene lilla e foglie di sanguinella sfiorassero i vetri delle finestre. Io giacevo prudentemente nel mio letto, senza sapere bene cosa aspettarmi e che cosa fosse permesso in una notte come quella. Pensai di riaddormentarmi, ma non ci riuscii.
Scesi infine dal letto e percorsi il corridoio fino alla camera dei miei genitori. La porta era socchiusa. La luce della lampadina da notte – una luce rosa e oro ombreggiata dal paralume di pergamena – incombeva come un peso sulla semioscurità del corridoio. Dalla cucina potevo udire mia madre intenta a schiacciare noci americane, una serie di colpi secchi e tuttavia musicali.
Mio padre giaceva diagonalmente sul letto matrimoniale, in un atteggiamento di raffinato, quasi pudibondo, abbandono. La faccia era rivolta verso la parete dove era appesa in una cornice d’argento una deserta strada parigina blu e verde. Un braccio penzolava oltre il bordo del materasso, con le grosse dita che ciondolavano in maniera strana. La cassa toracica s’alzava e s’abbassava al ritmo costante del sonno.
Per un po’ rimasi sulla soglia a riflettere sulla situazione. Mi ero aspettato che mi sentisse, alzasse gli occhi e cominciasse a preoccuparsi per avermi disturbato. Ma vedendo che non cambiava posizione, entrai silenziosamente nella camera. Era venuto il momento di parlare, ma non sapevo cosa dire. Avevo pensato che la mia semplice presenza dovesse far succedere qualcosa. Mi guardai attorno. C’erano le cassettiere gemelle, con i cosmetici e i profumi di mia madre allineati su un vassoio di madreperla. C’era lo specchio con la cornice di quercia che rifletteva un rettangolo di tappezzeria a fiori della parete opposta. A mani vuote, senza nulla da offrire, mi spinsi fino al letto e toccai con cautela un gomito di mio padre.
Lui alzò la testa e mi guardò come se non mi riconoscesse, come se ci fossimo incontrati una volta, tanto tempo fa, e ora stesse cercando di ricordare come mi chiamavo. La sua faccia rischiò di fermarmi il cuore. Mi sembrò per un attimo che ci avesse effettivamente lasciati; il suo lato paterno era sparito e al suo posto c’era solo un uomo, grosso come una macchina ma assente e privo di scrupoli come un infante, capace di tutto. M’immobilizzai nel bagliore improvviso di questa nuova stranezza, sorridendo timidamente nel mio pigiama giallo.
A questo punto tornò in sé. Rioccupò il proprio viso e mi posò gentilmente una mano sulla spalla. “Ehi, cosa fai alzato?” bisbigliò.
Alzai le spalle. Ancora oggi, da adulto, non ricordo un’occasione in cui non mi sia fermato a riflettere prima di dire la verità.
Avrebbe potuto tirarmi su e portarmi sul letto con sé. Quel gesto avrebbe potuto salvarci, almeno per il momento. Lo desideravo con tutta l’anima. Avrei dato tutto quello che immaginavo di possedere nelle mie più avide fantasie, perché mi attirasse nel suo letto e mi abbracciasse come mi aveva abbracciato quel 4 Luglio, quando il cielo era esploso sopra le nostre teste. Ma doveva sentirsi a disagio per essere stato sorpreso a litigare. Adesso era un uomo che aveva svegliato il suo bambino sbraitando contro sua moglie e si era poi gettato sul letto come un adolescente col cuore spezzato. Si sarebbe certamente ripreso, ma la sua immagine di quel momento sarebbe sempre rimasta dentro di me.
“Torna a dormire,” disse, in un tono probabilmente più aspro di quanto fosse nelle sue intenzioni. Sperava, credo, che fosse ancora possibile cancellare quello che era successo. Se avesse agito con sufficiente energia, avremmo potuto fare un salto indietro nel tempo e ricucire la stoffa del mio sonno. Mi sarei svegliato al mattino soltanto con qualche sogno rimasto confusamente nella mia memoria.
Rifiutai. Non potevo accettare di non consolarlo. Mio padre mi ordinò di tornare a letto e io divenni petulante e recalcitrante. Stavo quasi per scoppiare in lacrime, mettendo così a dura prova la sua pazienza. Volevo che esigesse la mia presenza. Avevo bisogno di sapere che a forza di gentilezza e perseveranza avrei vinto quella lunga lotta per conquistare definitivamente il suo amore.
“Jonathan,” disse. “Su, Jonathan.”
Mi lasciai riportare in camera mia. Non avevo alternative. Mi prese in braccio e per la prima volta non esultai per il contatto con lui e il suo odore pungente e la larga curva luccicante della sua fronte. In quel momento arrivai a capire la reticenza di mia madre, il suo delicato senso di distacco. Mi ero esercitato a imitarla e adesso, all’improvviso, non potevo fare altro. Se mio padre mi avesse massaggiato le spalle, mi sarei irrigidito; se fosse entrato dalla neve col suo passo pesante avrei pensato nervosamente all’afflosciarsi del mio soufflé di spinaci.
Mi mise a letto con una certa tenerezza. Mi tirò su le coperte, mi disse di provare a chiudere gli occhi. Non si comportò male. Tuttavia, furioso, scivolai giù dal letto e attraversai di corsa la stanza per raggiungere la scatola dei miei giocattoli. Sensazioni inconsuete mi strepitavano nelle orecchie, dandomi le vertigini. “Jonathan,” disse duramente mio padre. Cercò di fermarmi, ma io ero troppo veloce. Frugai nella scatola, sapendo benissimo dove mettere la mano. Tirai su la bambola per le sue lisce gambe di gomma e la presi ruvidamente fra le braccia.
Lui esitò, quasi eretto sul mio lettino. Sulla testiera un coniglio da fumetto ballava estatico in un campo di fiori rosa a quattro petali.
“Questa è mia,” dissi con un’insistenza al limite dell’isterismo. Mi sembrò di sentir traballare sotto i piedi il pavimento della camera e mi aggrappai alla bambola come se essa soltanto potesse impedirmi di perdere l’equilibrio e di scivolare via.
Mio padre scosse il capo. Fu l’unica volta che io ricordi in cui venne meno la sua gentilezza. Aveva combattuto tanto, ma quel mondo che aveva costruito si andava restringendo. Sua moglie lo evitava, il lavoro non andava bene e il suo unico figlio – non ce ne sarebbero stati altri – amava le bambole e i giochi tranquilli da fare al chiuso.
“Gesù Cristo, Jonathan,” gridò. “Gesù Cristo! Cos’hai che non va? Cosa?”
Rimasi muto. Non avevo una risposta a quella domanda, ma sapevo che ne aspettava una.
“Questa è mia,” fu la sola cosa che riuscii a dire. Tenevo la bambola talmente stretta al petto che le sue rigide sopracciglia mi pungevano attraverso il pigiama.
“Bene,” disse più pacatamente, nel tono dello sconfitto. “Bene. È tua.” E se ne andò.
Lo udii scendere da basso, prendere la giacca nel ripostiglio dell’atrio mentre mia madre dalla cucina evitava di parlargli. Allora lui si chiuse la porta esterna dietro di sé, con una tale cautela e una ponderazione che comportavano qualcosa di definitivo.
Tornò l’indomani mattina, dopo aver dormito sul divano del suo ufficio al cinematografo. Dopo un periodo difficile avremmo ripreso la nostra solita vita e ritrovato la nostra allegria. I miei s’inventarono un rapporto cordiale e scherzoso che non comportava né baci né liti. Cominciarono a vivere insieme con la casta e disinvolta familiarità di due fratelli divenuti adulti. Lui non mi avrebbe più chiesto nulla cui non potessi rispondere, anche se quella strana domanda continuò a crepitarmi in testa come un contatto elettrico difettoso. La cucina di mia madre sarebbe diventata famosa. Nel 1968 la nostra famiglia sarebbe stata fotografata per il supplemento domenicale del “Cleveland Post”: mia madre intenta a cucinare un pasticcio di gamberetti, mentre mio padre e io la guardavamo fieri, fiduciosi e perfettamente abbigliati.