Alice
Lo portò a casa nostro figlio Jonathan. Allora avevano entrambi tredici anni. Lui sembrava affamato come un cane randagio, e altrettanto astuto e pericoloso. Sedette a tavola con noi, divorando pollo arrosto.
“Bobby,” domandai, “è da tanto che vivi in questa città?”
I suoi capelli erano un nido elettrificato. Indossava stivali e una giacca di pelle decorata da un occhio umano cucito con un filo color cobalto, ormai sbiadito.
“Da tutta la vita,” rispose, rosicchiando un osso. “Ma ero invisibile. Solo da poco ho deciso di lasciarmi vedere.”
Mi domandai se i genitori gli davano da mangiare. Continuava a guardarsi attorno nella sala da pranzo con un tale appetito che per un attimo mi sentii come la strega di Hänsel e Gretel. Da bambina, a New Orleans, avevo visto le termiti rodere le volute di legno sotto la finestra del nostro salotto e avevo scoperto che quelle intricate decorazioni si sbriciolavano nelle mie mani come zucchero.
“Bene, benvenuto nel mondo materiale,” dissi.
“Grazie, signora.”
Non sorrise. Addentò quell’osso con tanta forza da spezzarlo.
Quando se ne fu andato, dissi a Jonathan: “È una bella sagoma, no? Dove l’hai trovato?”
“È lui che ha trovato me,” mi rispose Jonathan con quell’esagerata pazienza che era una particolare caratteristica della sua adolescenza. La sua pelle era ancora liscia e la voce dolce, ma si era inventato una sua acerba, quasi brusca saggezza, come via d’accesso all’età adulta.
“E come ti ha trovato?” domandai gentilmente. Sapevo sempre sfruttare la mia innocenza sudista, anche dopo anni nell’Ohio.
“Mi ha avvicinato il primo giorno di scuola e poi ha continuato a girarmi intorno.”
“Be’, a me è sembrato un tipo strano,” dissi. “Mi fa venire un po’ i brividi, se devo dirla tutta.”
“A me sembra in gamba,” disse Jonathan in un tono che non ammetteva repliche. “Aveva un fratello maggiore che è stato assassinato.”
A New Orleans avevamo un termine per definire quelli come Bobby, persone dall’aria gracile i cui parenti erano anormalmente inclini a morire di morte violenta. Riconobbi tuttavia che era evidentemente un tipo tosto.
“Che ne diresti di una partita a scopa prima di andare a letto?” domandai.
“No, mamma. Sono stufo di giocare a carte.”
“Una partita sola,” insistei. “Dammi una possibilità di rifarmi di quello che ho perso.”
“E va bene. Una partita.”
Sparecchiammo e io feci le carte. Ma giocai male. La mia mente continuava a distrarsi pensando a quel ragazzo. Aveva esaminato la nostra casa con un’avidità così palese. Jonathan fece una serie ininterrotta di prese. Andai di sopra a prendermi un maglione, ma sembrava che non bastasse a scaldarmi.
Jonathan mi fece cappotto. “Attenta,” disse. “Stasera sono irresistibile.”
Era così puerilmente felice di vincere da dimenticare la sua nuova scontrosità. Non riuscivo a immaginare come mai a scuola non fosse più popolare. Era più intelligente e più bello della maggior parte dei ragazzi che vedevo in giro. Forse la mia influenza di sudista lo aveva reso troppo gentile e sincero, troppo poco brutale per quella dura città del Middle West. Ma io, naturalmente, non ero un buon giudice. Quale madre non è un po’ innamorata di suo figlio?
Ned tornò a casa tardi, dopo mezzanotte. Io ero di sopra a leggere quando udii la chiave nella toppa. Resistetti all’impulso di spegnere la luce e di fingermi addormentata. Avrei presto compiuto trentacinque anni. Mi ero fatta alcune promesse sul nostro matrimonio.
Sentii il suo respiro mentre saliva le scale. Mi levai a sedere un po’ più eretta sul guanciale, sistemai la spallina della camicia da notte. Comparve sulla soglia della camera: un uomo di quarantatré anni, ancora bello secondo i comuni criteri di giudizio. I suoi capelli stavano diventando grigi sulle tempie, come quelli dei divi del cinema.
“Sei ancora sveglia,” disse. Era contento o seccato?
“Sono schiava di questo,” dissi indicando il libro. No, avevo già sbagliato. Aspettavo te. Questa era la risposta giusta. Tuttavia, era effettivamente il libro che mi aveva tenuta sveglia. Mi piaceva pensare che si potesse cambiare la propria vita senza rinunciare alle piccole verità quotidiane.
Entrò in camera sbottonandosi la camicia. Comparve la V del suo petto, peli neri screziati di grigio. “Sembra che Un tranquillo weekend di paura sia troppo forte per Cleveland,” disse. “Tre coppie di genitori hanno telefonato per protestare.”
“Non capisco perché l’hai prenotato,” dissi.
Si sfilò la camicia e la stipò nel cesto della biancheria. Il sudore luccicava nelle sue ascelle. Quando si voltò, potei vedere i peli, simili a una carta simmetrica dell’Africa, che gli erano spuntati sulla schiena.
No. Concentrati sulla sua bontà, sul suo delicato senso dell’umorismo. Concentrati sulla forma dei suoi fianchi, ancora snelli negli shorts di gabardine.
“Sono fortunato ad averlo,” disse. “Sarà un successo. Allo spettacolo delle sette c’erano tre quarti di sala.”
“Bene.” E posai il libro sul comodino. Il legno fece un rumore lieve ma sorprendentemente percepibile.
Si tolse i pantaloni. Se fossi stata una persona diversa, avrei potuto dirgli spiritosamente: “Tesoro, levati prima i calzini. Se c’è una cosa che non sopporto è un uomo con addosso soltanto le mutande e un paio di calzini neri.”
Ma non ero quel tipo di persona. Ned appese meticolosamente i pantaloni e rimase un momento alla luce della lampada, vestito soltanto da un paio di slip e da quei calzini scuri che aveva la mania di comprarsi. Gli avevano sfregato via i peli dai polpacci. Quando se li sfilava, restava l’impronta della loro trama sulla pelle glabra.
Si mise i pantaloni del pigiama sopra le mutande e si sedette sul letto per sfilarsi i calzini. Fuori della doccia, era raro che Ned si facesse vedere nudo.
“Ohi,” disse. “Sono a pezzi.”
Allungai una mano per accarezzargli la schiena, madida di sudore. Sussultò.
“Non preoccuparti,” dissi. “Non intendevo farti male.”
Sorrise. “Nellie la nervosa...”
“Jonathan stasera ha portato qui un suo nuovo amico. Dovresti vederlo.”
“Peggio di Adam?” domandò.
“Oh, molto. Ma di un genere tutto diverso. Questo, come dire, fa un po’ paura.”
“In che senso?”
“Sudicio,” dissi. “Taciturno. Con un’aria famelica.”
Ned scosse il capo. “Lascia fare a Jonny,” disse. “Sa sceglierli.”
Sentii una punta d’irritazione. Ned era quasi sempre fuori casa. E tutto ciò che avveniva in sua assenza diventava una sorta di commediola domestica, un simpatico filmetto proiettato in un cinema semivuoto dall’altra parte della città. Continuai ad accarezzargli la schiena.
“Ma questo ragazzo sembra far paura in maniera più adulta,” dissi. “Adam e gli altri erano dei bambini. Ma questo ho la sensazione che potrebbe rubare, potrebbe fare qualsiasi cosa. E mi ha dato da pensare. Anche Jonathan sta cambiando, presto ci saranno le ragazze e le macchine e tutto il resto.”
“Certo che ci saranno, nonnina,” disse Ned, e s’infilò amabilmente sotto le coperte. Sapevo come s’immaginava la cosa: una commedia d’adolescenti, abbastanza divertente, con tanti primi appuntamenti e tanti amici hippy. Forse aveva ragione. Io però non potevo vederla come un film. Non potevo dirgli come sembra diverso quando si tratta della tua esperienza quotidiana. Sapevo che se ci avessi provato avrei finito per assomigliare alla tipica madre cinematografica: un personaggio svampito e troppo pronto a drammatizzare, di quelli che non capiscono le battute di spirito.
“Ti va bene se spengo le luci?” disse. “O vuoi andare ancora un po’ avanti con quel libro?”
“No. Spegni pure.”
Ci sistemammo e restammo sdraiati fianco a fianco respirando nell’oscurità. Sembrava che dovessero esserci molte cose di cui parlare.
Forse la sorpresa più grande della vita coniugale è la sua persistente cerimoniosità, anche quando sei arrivata a conoscere il corpo e le abitudini dell’altro meglio dei tuoi. Ma, familiarità a parte, avevamo ancora l’aria di due persone durante un appuntamento che non stava andando particolarmente bene.
“Stasera avevo fatto il pollo col dragoncello,” dissi. “Avresti dovuto vedere come si è ingozzato. Da credere che non mangiasse da una settimana.”
“L’amico?” disse Ned.
“Sì.”
“Come si chiama?”
“Bobby.”
Fuori prese a miagolare il gatto di qualche vicino. Da quando era morta Miss Heidegger, la sua casa era stata successivamente affittata a tre famiglie diverse, tutte con la tendenza ad avere animali rumorosi e mal nutriti e ad andarsene all’improvviso. Il quartiere stava decadendo.
“Ned?” dissi.
“Mm-hm?”
“Ti sembro molto invecchiata?”
“Mi sembri una sedicenne.”
“Be’, i sedici anni li ho passati da un pezzo. Allora trentaquattro mi sembravano tantissimi. Adesso non mi sembrano più niente. Ma ho un figlio che fra un po’ comincerà a radersi. Che avrà i suoi segreti e correrà via in macchina.”
Non sapevo come dirglielo in modo che capisse: sentivo che stavo cessando di essere uno dei personaggi principali. Ma non potevo dirlo con queste parole. Non sarebbero passate nell’aria domestica della nostra camera.
“Trentaquattro non sono niente, ragazza,” disse. “Guarda con chi stai parlando. Io quasi non mi ricordo di quando avevo trentaquattro anni.”
“Lo so. Sono una donna sciocca e vanitosa.”
Allungai una mano sotto la coperta per accarezzargli il petto. E di nuovo sentii formicolare la sua pelle sotto le mie dita. Non era abituato a ricevere da me attenzioni del genere.
“Hai un aspetto magnifico,” disse. “Sei nel fiore degli anni.”
“Ned?”
“Uh-huh?”
“Io ti amo, sai. Gesù, quanto tempo è passato dall’ultima volta che te l’ho detto?”
“Oh, tesoro. Anch’io ti amo.”
Feci scorrere le dita lungo il suo bicipite, gli accarezzai il braccio. “Mi sento sentimentale stasera,” dissi. “Mi sto liberando della mia solita rigidità.”
“Tu non sei rigida.”
“Non stasera,” risposi con voce pacata: non seducente, ma neppure asciutta o matronale.
Mi coprì le dita con le sue. Avevo immaginato il matrimonio in due modi: o amavi un uomo e t’accoppiavi felice, o non lo amavi. Non avevo mai preso in considerazione l’ipotesi di amare qualcuno senza una contemporanea inclinazione della carne.
Si schiarì la gola. Mi chinai a baciarlo, e lui mi lasciò fare con una passività verginale, quasi femminea. Questo mi commosse, anche se la sua barba lunga mi raschiava la pelle.
“Non stasera,” ripetei, e stavolta riuscii a fare in modo che la mia voce suonasse bassa e sussurrante. Sembrava una buona imitazione della libidine, un modo che avrei potuto riprendere e fare mio se mi avesse accarezzato con la stessa timidezza con cui si era lasciato baciare.
“Mmm,” borbottò sommessamente dal profondo della gola. Sentii una sorta di leggerezza alla bocca dello stomaco, una possibilità d’espansione che con lui non conoscevo da tempo. Poteva ancora succedere.
A quel punto mi restituì il bacio, alzando la testa dal guanciale e premendo la bocca contro la mia. Sentii la pressione dei suoi denti. La leggerezza che sentivo dentro venne meno, ma non mi arresi. Risposi al bacio, afferrai la sua spalla nuda col palmo della mano. Era madida di sudore. Sentivo sul palmo i suoi ruvidi peli a spirale. I suoi denti, solo in parte attutiti dal labbro superiore, mi mordevano con insistenza.
Ma io sapevo che non ce l’avrei fatta. Non quella sera. Lasciai la scena. La mia attenzione si staccò dal corpo spostandosi dall’altra parte della stanza, dove osservò con disapprovazione un uomo che baciava rozzamente la moglie e faceva scorrere mani umide sulla sua schiena e sui suoi fianchi invecchiati. Avrei potuto fare la commedia, ma sarebbe stata solo questo, niente di più. Non avrei fatto che soffrire, con quella rabbia repressa nata dalle bugie.
Staccai la bocca e gli diedi una serie di bacetti sul collo. “Tesoro,” sussurrai, “tienimi solo stretta un momento. Okay?”
“Certo,” disse tranquillamente. “Certo.” Per dirla tutta, penso che si sentisse sollevato.
Restammo un po’ abbracciati, fin quando Ned non mi diede un bacio affettuoso sulla testa e non si girò dall’altra parte per addormentarsi. Non dormimmo abbracciati l’uno all’altra; non l’avevamo mai fatto. Dopo un po’ cominciò a respirare ritmicamente. Prendere sonno non era mai stato un problema per Ned. Come quasi tutto il resto. Aveva il dono di adattare le sue aspettative per adeguarsi alle circostanze.
Forse quella sera era stata solo un inizio. Forse la sera dopo ce l’avrei fatta un po’ di più.
Non volevo essere il mostro di casa – la madre nervosa, la moglie rancorosa. Mi feci ancora una volta delle promesse, e quasi non chiusi occhio finché le finestre non si colorarono di blu con il primo sole.
Jonathan continuava a subire il fascino di Bobby, ormai ospite fisso alla nostra tavola. Ned lo tollerava, poiché adeguarsi era nella sua natura. Manteneva uno strato di aria neutrale fra la propria persona e il mondo, perché tutto gli arrivasse filtrato e rarefatto.
Ero io che tenevo i conti.
Sembrava che Bobby non avesse mai altri impegni. Era perennemente disponibile. Non invitava mai Jonathan a casa sua, cosa che per me andava benissimo, anche se iniziavo a farmi domande. Una sera gli chiesi: “Bobby, che cosa fa tuo padre?”
Stavamo cenando e lui aveva quasi finito di divorare la sua porzione di beurre blanc con la sua terza fetta di pane fatto in casa, prima che Jonathan o Ned o io avessimo cominciato a mangiare.
“Insegna,” fu la sua risposta. “Non alla nostra scuola. Alla Roosevelt.”
“E tua madre?”
“È morta. Circa un anno fa.”
Si cacciò in bocca il pane e allungò una mano per prendere un’altra fetta.
“Mi dispiace,” dissi.
“Non dovrebbe dispiacerle,” replicò. “Non la conosceva nemmeno.”
“Dicevo in generale. Volevo dire che mi dispiace per la tua perdita.”
Ingozzandosi, mi guardò come se avessi parlato in sanscrito. Un attimo dopo, chiese: “Come la fa questa salsa?”
“Burro e aceto,” risposi. “Limone, un po’ di vermut. Niente di complicato.”
“Non avevo mai assaggiato una salsa come questa,” disse. “L’ha fatto lei il pane?”
“Fare il pane è un mio hobby,” confermai. “Ci riuscirei anche nel sonno.”
“Oh,” disse. Scuotendo la testa, sbalordito, prese la sua quarta fetta.
Dopo cena i ragazzi salirono in camera di Jonathan. Un attimo dopo udimmo dallo stereo un ritmo non familiare, che risuonava attraverso le tavole del pavimento. Bobby aveva portato alcuni suoi dischi.
Ned disse: “Dio mio, quel ragazzo è un orfano.”
“Non è un orfano,” dissi. “Suo padre è vivo.”
“Sai benissimo cosa voglio dire. È in una brutta situazione.”
Mi alzai per sparecchiare. Quando ero ragazza c’erano parti della città dove non mettevamo mai piede. Erano come macchie, aree lasciate in bianco sulla carta. Dissi: “Sì, ed è per questo che Jonathan è così preso da lui. Se fosse anche zoppo, lo avremmo qui tutte le sere anziché una su due.”
“Ti ascolti?” disse Ned. “Non sembri neanche tu.”
Posai il piatto vuoto di Bobby su quello di Jonathan, che aveva abilmente distribuito il suo cibo sui bordi del piatto, per far credere d’averlo consumato. Era talmente magro che con una luce forte sembrava quasi trasparente. Il piatto di Bobby era immacolato, come se lo avesse pulito con la lingua. Sulla tovaglia in corrispondenza del suo posto non c’era neppure una briciola.
“Lo so, mi dispiace per quello che gli è successo. Davvero. Ma in quel ragazzo c’è qualcosa che mi fa paura.”
“È un selvaggio, ecco che cos’è. È un ragazzo che non ha altro che un padre e cresce come un mezzo selvaggio. Ma noi abbiamo abbastanza mezzi per dare asilo a un ragazzo selvaggio, non credi?”
“Certo che li abbiamo.”
Portai i coperti in cucina. Ero l’accigliata, solida Alice, sposata con Ned il Buono.
Mi seguì con i piatti. “Non preoccuparti,” disse alle mie spalle. “Non c’è ragazzo che non si porti a casa qualche amico selvaggio. Jonathan crescerà bene ugualmente.”
“Ma io mi preoccupo,” dissi, facendo scorrere l’acqua. “Ha solo tredici anni. È come – oh, non so. È come vedere qualche sua qualità nascosta venire improvvisamente alla luce. Qualcosa che ha sempre tenuto dentro di sé e di cui non abbiamo mai saputo nulla.”
“Stai esagerando.”
“Davvero?”
“Se avessi tempo, ti parlerei di Robby Cole. Era il mio migliore amico alle elementari. Stravedevo per lui perché sapeva aprire i tappi di metallo coi denti. Fra le altre cose.”
“E guarda come sei finito.”
“Be’, ho sposato te,” disse.
“Un lodevole risultato. Ma forse non esattamente l’obiettivo di un’intera vita.”
“Ho sposato te e dirigo il miglior cinematografo della grande Cleveland. Ma ora devo andare.”
“Ciao.”
Mi cinse la vita con entrambe le mani e mi baciò rumorosamente sul collo. Sentii per un attimo il suo odore, l’aroma particolare della sua pelle mescolato a quello d’agrumi del dopobarba. Era come entrare nella sfera d’aria da lui abitata, e fin quando ci restavo potevo condividere la sua convinzione che i momenti brutti passavano spontaneamente, che il mondo cospirava perché tutto andasse bene. Mi girai e baciai leggermente le sue ruvide guance.
“Preoccupati meno,” disse.
Promisi che ci avrei provato. Finché lui era in casa, sembrava facile. Ma poi questa possibilità si affievoliva come la luce di una lanterna che lui avesse tenuto in mano mentre si allontanava, uscendo da casa. Lo guardai dalla finestra della cucina. Forse la sua caratteristica più rilevante era la sua capacità di camminare sereno in questa città di pietre grigie e mattoni gialli, dove il vento che soffiava dal lago poteva ridurre a spilli i cuori delle persone.
Presi il nuovo libro di cucina che avevo appena comprato, pieno di ricette della campagna francese e cominciai a progettare il pasto dell’indomani.
Bobby rimase fino alle dieci passate, quando gridai: “Ragazzi, domani c’è scuola.” Dopo tredici anni, ancora mi sorprendevo sentendomi parlare come una tipica mamma.
Quando Bobby scese stavo leggendo il giornale. “Buona notte,” disse.
Il suo modo di parlare e tutto il suo comportamento sembravano quelli di un forestiero che sta imparando gli usi del paese. Assomigliava a un profugo di una terra lontana, malnutrito e disperatamente ansioso di piacere. Il modo in cui aveva pronunciato le parole “Buona notte” corrispondeva esattamente al mio.
“Bobby?” dissi. In realtà non avevo niente da dirgli. Solo che lo vedevo lì in attesa.
“Uh-huh?”
“Mi dispiace sinceramente per tua madre,” dissi. “Spero di non esserti sembrata soltanto gentile a tavola.”
“Va bene così.”
“Ve la cavate tu e tuo padre? C’è qualcuno che ogni tanto vi prepara da mangiare e pulisce la casa?”
“Uh-huh. Viene una donna una volta la settimana.”
Dissi: “Perché una sera non porti qui a cena tuo padre? Magari all’inizio della settimana prossima.”
Mi lanciò un’occhiata interrogativa, come se avessi violato qualche tabù del suo paese; come incapace di decidere se l’avessi insultato o se qui semplicemente valessero regole diverse.
“Non so,” disse.
“Be’, magari gli farò una telefonata. Ma adesso sarà meglio che tu vada, è tardi.”
“Okay.”
Credo che sarebbe rimasto fermo davanti a me finché non gli avessi detto di andare.
“Buona notte,” ripetei, e una giovane versione maschile della mia stessa voce contraccambiò la formula augurale.
Dopo la sua partenza, andai di sopra e bussai alla porta di Jonathan.
“Uh-huh?” disse.
“Sono io. Posso entrare?”
“Uh-huh.”
Era a letto. Una voce nasale maschile accompagnata da una chitarra acustica strideva dagli altoparlanti. La finestra era ancora aperta sebbene fossimo già all’inizio di novembre e facesse molto freddo. Mi parve di sentire un odore, qualcosa di dolciastro e di fumoso che l’aria gelida non aveva ancora disperso.
“Avete passato una buona serata?” dissi.
“Certo.”
“Bobby però ci ha sofferto molto, no?” dissi.
“Non dovresti commiserarlo.”
“Lo sapevi già che sua madre era morta?”
“Certo,” disse Jonathan.
“Sai com’è morta?”
“Più o meno. Voglio dire, prendeva troppi sonniferi. Ma aveva una ricetta, li prendeva da anni. Sembra che avesse cominciato a lamentarsi che non le facevano più effetto. Insomma potrebbe essere stato un incidente.”
“A Bobby è morto anche un fratello, no?”
Jonathan annuì. “Quello è stato sicuramente un incidente. Non un omicidio. È stato allora che la madre ha cominciato con i sonniferi.”
Enunciava questi fatti con una certa fierezza, come se stesse elencando i successi mondani di Bobby.
“Gesù. Quali cose capitano alle persone.”
Andai a chiudere la finestra. In quella camera il freddo era tale da trasformare il fiato in vapore.
“E a noi non è mai successo niente,” disse Jonathan. “Niente di brutto.”
“Siamo stati molto fortunati.”
Scostandomi dalla finestra, vidi la giacca di pelle di Bobby appesa alla sedia. L’occhio ricamato, da ciclope, con l’iride grande come un disco da hockey, mi fissava da quella logora pelle bovina.
“Bobby ha dimenticato la sua giacca.”
“L’ha prestata a me,” disse Jonathan. “Una volta era di suo fratello. Oggi a scuola io gli ho prestato la mia.”
“La tua bella giacca a vento? L’hai barattata con questa?”
“Uh-huh. Bobby parla molto di suo fratello. Sembra che fosse in gamba. E quando è morto la famiglia è quasi andata a pezzi.”
“Lo sai quanto costa quella giacca a vento?”
Mi guardò in un modo nuovo, con le mascelle risolute in un atteggiamento di sfida e lo sguardo indurito.
Decisi di lasciar perdere. Pensavo di avergli dato modo di riflettere sulla cosa.
“Che ne diresti se domani sera a cena mangiassimo uno stufato di vitello?” dissi. “C’è una ricetta che mi piacerebbe provare, vitello con funghi e cipolline. Che te ne pare?”
“Non m’importa.” Alzò le spalle.
Tenevo le braccia aderenti al petto. Si gelava in quella stanza.
“Che ne diresti di una partitina a scopa prima di andare a letto?” domandai. “Sono in un periodo di scalogna. Ho perso tanto le ultime due volte, mi sento quasi umiliata.”
“No. Sono stanco.”
“Una partitina soltanto?”
“No, mamma.”
“D’accordo.”
Rimasi lì ancora un po’, sebbene fosse evidente che voleva essere lasciato solo. La luce della lampada da notte, che gli avevo comprato dieci anni prima, illuminava i suoi capelli chiari e i nitidi, quasi scultorei, lineamenti. La mia bellezza, di cui qualunque specchio mi confermava la severità forse eccessiva, si era trasferita in lui più morbida.
“Buona notte,” disse.
“Buona notte. Dormi bene.”
Ma ancora indugiavo. Non potevo smettere di guardarlo, anche se questo lo irritava. Se avessi avuto il coraggio, gli avrei detto: “Non farlo. Non cominciare a odiarmi, ti prego. Puoi avere il mondo anche senza escludermi dalla tua vita.”
Uscii in silenzio dalla camera, piena di lui come quando ero incinta.
Invitai a cena Bobby e suo padre il martedì successivo. Arrivarono in ritardo di due ore con due bottiglie di vino. “Scusate,” disse il padre. “Abbiamo dovuto attraversare la città per trovare uno Chardonnay come si deve. Spero che vi piaccia.”
Gli dissi che ci piaceva moltissimo.
Aveva una barba appuntita e una giacca color senape con grandi bottoni d’ottone. La sua faccia florida era un’orgia di capillari rotti. Sembrava un Bobby invecchiato e alcolizzato.
Si chiamava Burton. Quando ci sedemmo a tavola quasi non toccò cibo. Bevve vino, fumò Pall Mall e interruppe ogni tanto queste attività per inforcare un po’ della mia sogliola in bianco, tenerla alzata un secondo o due e infilarsela in bocca con la stessa attenzione che un falegname presta a un chiodo da pochi soldi.
Ned gli chiese: “Come trova i ragazzi della Roosevelt?”
Burt Morrow lo guardò senza capire. Riconobbi questa espressione.
“Possono essere difficili,” disse con voce ben cadenzata. “Non sono in genere cattivi, ma possono essere difficili.”
Un attimo dopo Ned annuì. “Capisco.”
“Cerchiamo di andar d’accordo,” disse Burt. “Cerco di andare d’accordo con loro e non offenderli. Di solito ci riesco.” Si rivolse a Bobby: “Non credi anche tu che di solito ci riesco?”
“Sì, papà,” disse Bobby. Guardava suo padre con un’espressione né affettuosa né sprezzante. Avevano in comune un’aria leggermente attonita, un modo di rispondere alle domande come se a fargliele fosse stata una voce fuori dal corpo che sussurrava dall’etere. Sembravano i fratelli maggiori stupiditi ma gentili di una fiaba – quelli su cui incantesimi e malie non hanno alcun effetto. Jonathan sedeva in mezzo a loro, e i suoi occhi azzurri sprizzavano intelligenza.
“Anch’io cerco di comportarmi così,” dissi. “Di starmene fuori dalla vita di Jonathan e di lasciargli fare esperienze. Gesù. Non potrei mai imporgli una disciplina. Certe volte mi sento io stessa una ragazzina.”
Bobby e suo padre mi guardarono sbalorditi.
“Mi sono sposata giovane, vedete,” dissi. “Avevo solo pochi anni in più di questi ragazzi e non avevo certo programmato d’innamorarmi di un nordista di nome Ned Glover, né di lasciarmi portare nell’Ohio con questo vento canadese che soffia nevischio dal lago.”
Ned strizzò l’occhio e disse: “Io la chiamo l’Elena della Louisiana. Sto ancora aspettando che una banda di sudisti lasci un cavallo di legno sul prato davanti a casa.”
Burt s’accese un’altra sigaretta. Fece uscire il fumo dalla bocca aperta e lo guardò fluttuare sopra la tavola. “Certe cose potrei farle in modo diverso,” disse. “Penso che potreste dire che lo farei. Sì.”
Non ero digiuno di psicologia. Sapevo che Jonathan aveva bisogno di fuggire da me e da suo padre, di spezzare le catene: in un certo senso di assassinarci e di risuscitarci più tardi, una volta adulto con una vita propria e noi avvizziti in una decrepita irrilevanza. Non ero né cieca né sciocca.
Ma mi sembrava troppo presto, e poi Bobby era di sicuro il veicolo sbagliato. A tredici anni abbiamo troppe scelte da fare, e nessuna idea di quali possano esserne le conseguenze nei decenni successivi. Quando li avevo io, avevo consapevolmente deciso di essere loquace e un po’ selvaggia, in modo che le cene silenziose dei miei genitori e le loro lunghe serate dedicate alla lettura – e scandite soltanto dai rintocchi della pendola – non avessero su di me un effetto duraturo. Avevo appena diciassette anni quando conobbi Ned Glover, un uomo bello e spiritoso che aveva passato da un pezzo i venti, padrone di una Chrysler decappottabile e pieno di storie del Nord.
Quella notte a letto gli dissi: “Be’, adesso almeno sappiamo da dove viene fuori Bobby.”
“Viene fuori in che senso?”
“In ogni senso. La sua personalità. O la misteriosa assenza di essa.”
“Tu proprio non lo sopporti quel ragazzo, eh?” disse Ned.
“Non gli sono particolarmente ostile,” dissi. “È solo che, be’, questa è un’età particolare per Jonathan. Non so se dovrebbe andare in giro con un tipo del genere. Pensi che Bobby possa essere un po’ ritardato?”
“Dolcezza, è un’infatuazione che finirà. Fidati un po’ di più di tuo figlio. Lo stiamo tirando su da tredici anni, qualcosa dovremo avergli insegnato.”
Non replicai. Avrei voluto dire: “Sono io che gli ho insegnato qualcosa; tu te ne stavi rintanato nel tuo cinematografo.” Ma rimasi in silenzio. Restammo sdraiati aspettando di prendere sonno. Quella notte non ci sarebbe stato un congiungimento carnale. Ero lontana mille chilometri da questa possibilità. Pensavo tuttavia che avessimo tempo.
Forse mi sforzai troppo di rimanere amica di Jonathan. Forse avrei dovuto staccarmene di più. Ma non riuscivo a credere che il ragazzo con cui avevo giocato e condiviso segreti – quel bambino dolorosamente vulnerabile che mi raccontava tutto ciò che gli passava per la testa – sentisse all’improvviso il bisogno di essere trattato con quella cortese fermezza che si potrebbe riservare a un pensionante.
La nostra eterna partita a scopa finì, e con essa i nostri giri per i negozi, il sabato. Bobby continuava a portare la giacca a vento di Jonathan e cominciò a indossare anche le sue camicie. Quando si fermava per la notte, dormiva su un divano pieghevole nella sua camera. Con me era sempre cordiale, nella sua studiata maniera d’immigrato.
Una mattina di marzo stavo affettando un pompelmo per la colazione. Jonathan sedeva da solo al tavolo della cucina, essendo una di quelle mattine in cui Bobby non era da noi.
Dissi: “Sembra una bella giornata se ti piacciono le anatre.”
Jonathan lasciò passare un momento, poi disse: “Sì, se mi biaggiono le anadre.”
Prendeva in giro la mia voce, l’accento sudista.
Avrei dovuto non raccogliere l’insulto, ignorarlo e servirgli il pompelmo. Invece mi voltai e gli domandai amabilmente:
“Che cosa hai detto?”
Lui si limitò a sorridere, indicibilmente soddisfatto di sé.
Domandai ancora: “Che cos’hai detto, tesoro? Non sono sicura di aver sentito bene.”
Si alzò e uscì di casa dicendo: “Gredo che sdamaddina salderò la golazione, desoro.” E mentre s’allontanava quell’occhio mi fissava dal dorso della sua giacca.
Successe di nuovo la sera mentre guardavamo la televisione. Quella notte Bobby avrebbe dormito da noi. Ned era nel suo cinematografo, e noi, i ragazzi e io, stavamo guardando una replica di Star Trek. Io dissi: “Mr. Spock magari non sarà molto divertente alle feste, ma è quello che mi piace di più.”
Jonathan replicò: “Sta compiendo una missione di cinque anni nello spazio. Se fossi sposata con lui, ti occorrerebbe una dozzina di figli per farti compagnia.”
Avrei potuto farmi una risata dimostrando così di saper stare agli scherzi, ma ero ancora troppo sorpresa dalla sua villania. “Preferirei che ci facessimo compagnia fra noi,” soggiunsi.
“È giusto,” mi rispose. “Per un ragazzo non c’è niente di meglio che cucinare e andare a fare spese.”
Bobby sedeva, come sempre, sul pavimento. Per qualche ragione, non sopportava i mobili.
“Smettila, Jon,” disse.
“E solo una battuta,” replicò Jonathan.
“Certo, ma smettila lo stesso.”
Così Jonathan la smise. Guardò il film senza fare altri commenti. I suoi piedi sembravano enormi, parevano quasi delle armi in quegli stivali neri da cowboy che aveva voluto comprare a ogni costo.
Bobby si era tagliato le unghie e aveva fatto passare un pettine fra i capelli. Sembrava aver rinunciato agli stivali a favore di semplici scarpe nere da ginnastica.
Con me era sempre gentile. Più che gentile, anzi: era, a modo suo, cerimonioso. Chiedeva particolari sulle cene che preparavo e mi domandava com’era andata la mia giornata. Rispondere non era sempre facile, perché non capivo molto bene chi fosse il mio interlocutore. Manteneva ostinatamente la sua estraneità, benché avesse imparato col tempo a simulare meglio una normalità irreprensibile da personaggio televisivo. Affinò il suo numero. Prese a farsi accorciare i capelli e arrivò perfino a presentarsi con vestiti nuovi che non erano mai appartenuti a Jonathan.
Una sera di maggio, passando davanti alla camera di mio figlio, udii una musica meno rauca e stridula di quelle che ascoltavano di solito i ragazzi. Mi ero ormai abituata al frastuono incessante, come ci si abitua ai latrati di un cane. Chitarre elettriche e grancasse erano diventate per me un nuovo tipo di silenzio, ma questa musica particolare – un’unica dolce voce di donna accompagnata da un pianoforte – era percepibile con chiarezza.
Esitai davanti alla porta. Poi bussai e mi sorprese il timido esile suono, simile allo scalpiccio di un topo, che facevano le mie nocche sul legno. Ma Jonathan era mio figlio, viveva in casa mia. Era mio diritto bussare alla porta della sua camera. Bussai di nuovo, più forte.
“Sì?” gridò lui dall’interno.
“Sono io,” risposi. “Posso entrare un momento?”
Ci fu un silenzio, riempito dal suono del piano. Poi Bobby aprì la porta.
“Ehi,” disse. Se ne stava lì sorridente e con un aspetto piuttosto singolare, in una parte che non era la sua, con jeans e camicia bianca a righine. Alle sue spalle potevo vedere Jonathan, che sedeva imbronciato in T-shirt e stivali neri.
“Non volevo disturbarvi, ragazzi,” dissi, seccata dal tono intimidito della mia voce. Sembravo una parente povera, invitata a pranzo per obbligo una volta all’anno.
“È okay,” disse Bobby. “Va benissimo.”
“È solo che, be’, mi domandavo che cosa fosse questa musica. Sembrava così... differente.”
“Le piace?” domandò Bobby.
Pareva una domanda tranello. Sarei caduta nel ridicolo? Ma poi, mettendo da parte le mie paure da ragazzina, risposi come una donna di trentacinque anni: “È una bella voce. Chi è?”
“Laura Nyro,” disse Bobby. “Sì, è brava. È un vecchio disco, vuole entrare un momento ad ascoltarlo?”
Gettai uno sguardo a Jonathan. Naturalmente avrei dovuto dire di no e andare a sbrigare le mie faccende, piegare lenzuola e asciugamani. Dissi invece: “D’accordo, ma solo per un momento”, ed entrai riconoscente in quella camera dove un tempo avevo libero accesso. Nel corso dell’ultimo anno, Jonathan aveva coperto quasi del tutto le pareti con poster di cantanti rock dai capelli lunghi e dall’espressione accigliata. Circondata da tutti quegli occhi maschili, la voce melanconica della donna riempiva timidamente la stanza.
Jonathan sedeva sul pavimento con le ginocchia alzate contro il petto e le mani strette agli stinchi. Si sedeva così da quando aveva quattro anni – era la sua posizione di quando era imbronciato. Vidi, forse per la prima volta, come l’uomo nascente fosse sempre stato rinchiuso nel ragazzo. Avrebbe portato con sé gli stessi gesti nell’età adulta. Mi sorprese un po’, anche se era la più banale delle intuizioni. Avevo piuttosto immaginato che Jonathan, trasformato in un adulto, mi sarebbe apparso un giorno come un estraneo gentile e premuroso. Vidi che su questo avevo avuto insieme ragione e torto.
Bobby prese la copertina dell’album e me la porse come se io avessi accarezzato l’ipotesi di comprarlo. “Ecco,” disse. E quando io la presi dalla sua mano divenne tutto rosso in viso, per orgoglio o per l’imbarazzo.
La copertina dell’album era scura, di un cupo color cioccolato. Raffigurava una donna piuttosto insignificante, con un’alta fronte chiara e neri capelli sciolti con la riga in mezzo. Sarebbe potuta essere un’eterea e impopolare allieva di una scuola femminile, oggetto più di pietà che di scherno. Avevo conosciuto ragazze come lei. Avevo corso il pericolo di diventare così anch’io e mi ero imposta di cambiare. Di parlare senza peli sulla lingua e di correre rischi, uscendo con ragazzi che non avrei mai portato a casa dalla mamma. Ned Glover era calato dal Michigan in una decappottabile blu elettrico, un uomo garbato e spiritoso, decisamente troppo vecchio per me.
“Carina,” dissi. “E ha una bellissima voce.”
Sembrava esattamente la reazione di una compassata signora di mezza età. Mi affrettai a restituire la copertina dell’album, come se fosse troppo caro perché potessi permettermelo.
“Ha smesso di cantare,” disse Bobby. “Si è sposata e si è trasferita nel Connecticut o in un posto del genere.”
“Peccato.”
Restammo lì in piedi imbarazzati, come due estranei a una festa. Sentivo con quanta forza Jonathan desiderasse allontanarmi dalla stanza. Lo sentivo fisicamente, come una pressione sulla fronte e sulle spalle. “Be’,” dissi. “Grazie di aver accettato l’intromissione di una vecchia signora.”
“Di niente,” disse Bobby. Una canzone era finita e ne era cominciata un’altra, un pezzo più veloce che mi sembrò di riconoscere. Sì, Jimmy Mack, la cantavano un tempo Martha & The Vandellas.
“Questa la conosco,” dissi. “Voglio dire che l’ho già sentita.”
“Ah sì?” disse Bobby.
Fece allora una cosa strana. Si mise a ballare.
Posso soltanto pensare che, in mancanza di parole, fosse ricorso a ciò che sapeva fare. Lo decise automaticamente, come si trattasse di un prolungamento logico della conversazione. Cominciò ondeggiando a tempo i fianchi e muovendo i piedi. Le sue scarpe da ginnastica cigolavano sulle tavole del pavimento.
“Sì, certo,” dissi. “È una vecchia canzone.”
Gettai un’occhiata a Jonathan che sembrava sbalordito. Rispose al mio sguardo e per un momento ritrovammo la nostra antica complicità. Eravamo uniti da una comune costernazione per le abitudini dei locali. Quasi mi aspettavo che, una volta rimasti soli, mi avrebbe fatto un’imitazione di Bobby – che ballava con le sue grosse spalle e la sua faccia ottusa – solo per farmi ridere.
Ma a questo punto Bobby mi prese una mano e mi attirò garbatamente a sé. “Coraggio,” disse.
“Oh no. Assolutamente no.”
“Non accetto nessun ‘no’,” ribatté allegramente. E non mi mollò la mano.
“No,” ripetei. Ma non c’era forza nel mio rifiuto. Forse per la mia educazione sudista, per la mia innata determinazione a evitare a qualsiasi costo di trattare con villania il mio prossimo. Ridacchiavo mentre dicevo di no senza averne del tutto l’intenzione.
Piroettò con me con grazia, muovendosi a tempo. Ballava meglio di quanto si potesse dedurre dal suo contegno abituale. Anch’io da ragazza ero stata un’eccellente ballerina – era una delle decisioni che avevo preso, un lato importante della persona che volevo diventare – e riconobbi i segni. C’erano ragazzi di cui sapevi di poterti fidare in pista; te ne accorgevi immediatamente, più per istinto che per il loro aspetto. Ce n’erano altri che trasmettevano all’atmosfera un senso di fiducia e d’inevitabilità. Avevano una grazia generosa che ti coinvolgeva, ti dicevano col solo contatto delle loro mani che eri incapace di fare un movimento sbagliato. Bobby era un ballerino di questo tipo. La mia sorpresa non sarebbe stata maggiore se avesse estratto uno stormo di piccioni vivi dai polsini della camicia a righine.
Io rispondevo. Gli presi l’altra mano e ballai con lui come meglio potevo in quello spazio limitato, sotto le occhiate di disapprovazione di mio figlio e le facce imbronciate dei cantanti rock. Bobby sorrideva timidamente. La voce della donna attraversava le note con un doloroso abbandono, come la goffa cugina di qualcuno in una breve parentesi di delirante libertà.
Finita la canzone, ritirai le mani e mi toccai i capelli. “Gesù,” dissi. “Guarda cosa hai fatto fare a una vecchia signora.”
“Lei è in gamba,” disse Bobby. “Sa davvero ballare.”
“Lo facevo spesso. Nel pleistocene superiore.”
“Ma no,” disse lui. “Andiamo.”
Guardai di nuovo Jonathan e vidi ciò che mi aspettavo: ogni senso di complicità era sparito dalla sua faccia. Non mi fissò con risentimento, piuttosto era come se non mi riconoscesse, come fossi stata una che assomigliava solo vagamente a sua madre.
“È mezzanotte,” dissi. “Mi piacerebbe rimanere ma ho delle lenzuola da piegare.”
Uscii rapidamente dalla stanza. Dopo nemmeno un minuto alla donna malinconica era stata sostituita una trascinante voce maschile in una cacofonia di chitarre elettriche.
Quella notte Ned tornò a casa tardi, quando mi ero già addormentata. Svegliandomi me lo trovai accanto a respirare profondamente e a corrugare la fronte in un sogno. Rimasi un po’ a guardarlo sdraiata su un fianco. Strano pensare che un tempo fosse stato anche lui un ragazzo. Forse questo fatto non si era mai del tutto impresso nella mia mente, sebbene avessi ovviamente visto le fotografie: il piccolo Ned che sogghignava sotto un’enorme bombetta, Ned pelle e ossa sulla spiaggia con i piedoni infilati in un paio di sandali. Avevo portato personalmente in solaio lo scatolone delle sue automobiline e dei soldatini di piombo. Eppure non avevo capito. L’uomo accanto a me era uscito fuori da un ragazzo. Appena conosciuti, lui aveva ventisei anni e io diciassette; a mio modo di vedere era già allora di mezza età. Poteva essere nato adulto. Quelle foto e quei giocattoli potevano essere appartenuti a un ragazzo morto giovane, all’ex abitante di una vecchia casa che quando se n’era andato si era portato via il suo senso di possibilità illimitate. Erano rimaste soltanto porcellane conservate in una vetrina e la pazienza di violette africane – una tranquilla vita d’anziano. Ma ora, sdraiata accanto a Ned, vedevo, come se fosse la prima volta, la curva infantile del suo gomito sotto il guanciale, i giovani muscoli di un petto divenuto molle e peloso. Poverino, pensai. Povero ragazzo.
Allungai un braccio per accarezzargli la spalla. Avrei potuto baciarlo. Avrei potuto lasciar scendere la mano fino al lussureggiante groviglio del suo petto. Ma la mia nuova scoperta della sua bellezza innocente era ancora troppo fragile. Se si fosse svegliato e mi avesse baciato con forza, se mi avesse strapazzato le costole, si sarebbe forse dissolta completamente. Così mi accontentai di guardarlo e di accarezzare il morbido rilievo peloso della sua spalla.