Bobby
Mio padre si è comprato un nuovo paio d’occhiali genere aviatore, con una sottile montatura rosa-oro. Arriva sulla soglia di camera mia e si mette in posa, con un gomito disinvoltamente appoggiato allo stipite.
“Bobby, che te ne pare?” domanda.
“Eh?” dico. Me ne sto al buio con le cuffie alle orecchie, fumando uno spinello e ascoltando i Jethro Tull. La musica si è portata via tutti i miei pensieri e mi ci vuole un minuto per rientrare nel mondo delle cause ed effetti.
“Bobby, che te ne pare?” torna a domandarmi.
“Non so,” decido di rispondere. Dovrà darmi più tempo con la sua domanda.
Poi indica la sua testa con un dito. Intorno a lui entrano a fiotti raggi da cento watt, penetrando nella penombra della mia stanza.
Cosa penso della sua testa? È una domanda troppo impegnativa, probabilmente oltre la mia portata.
“Be’,” dico e lascio la sillaba in sospeso.
“Dei miei occhiali,” insiste. “Bobby, oggi mi sono comprato degli occhiali nuovi.”
Passa una frazione di tempo e lui: “Che te ne pare? Sono un po’ troppo giovanili per me?”
“Non so.” Sento anch’io quanto è sciocca la mia risposta, quanto è vuota. Ma davanti alle sue domande sono sempre disarmato. Come se fosse un angelo che mi pone degli indovinelli.
Lui sospira, un lento sibilo di gomma bucata. “Okay,” dice. “Vado a preparare la cena.”
“Bene, papà,” dico, con una voce che spero venga fuori allegra e solidale. Poi controllo mentalmente – stasera tocca a lui o a me preparare la cena? È martedì. Tocca a lui. L’ho imbroccata.
Solo dopo che ha allontanato il proprio corpo dalla soglia mi rendo conto che le sue erano domande semplici. Ha sostituito alla montatura di tartaruga qualcosa di più vivace e ha bisogno di una conferma. Dovrei seguirlo in cucina e ricominciare da capo la conversazione. Ma non lo faccio. Crollo sotto il peso del mio egoismo, e permetto a me stesso di tornare all’oscurità e alla musica.
Dopo un po’, mio padre mi chiama per mangiare. Ha preparato una tagliata di carne e una quantità di crocchette di patate surgelate. Sorseggia scotch da un bicchiere decorato con immagini di fette d’arancia e di raggi regolari come le ruote di un carro.
Per un po’ mangiamo senza parlare. Una volta insediatisi, i nostri silenzi sono difficili da rompere, solidi e compatti come cellofan. Alla fine dico: “Quegli occhiali mi sembrano okay. Mi piacciono, voglio dire.”
“Probabilmente sono un po’ troppo giovanili. Ho il sospetto che con occhiali come questi un uomo della mia età faccia un po’ la figura dello stupido.”
“No, affatto. Li portano persone d’ogni genere. Vanno benissimo.”
“Lo pensi davvero?”
“Uh-huh,” dico.
“Bene. Mi fa piacere sentirlo. Specialmente perché è il parere di un giovane.”
“Vanno benissimo. Ti stanno che è una meraviglia.”
“Bene.”
Le posate battono contro i piatti. Posso udire la gola di mio padre nell’atto di inghiottire.
Sono ormai settimane che si tinge i capelli. Si è dato un programma ciocca per ciocca, ogni due o tre giorni se ne tinge qualcuna in più. Spera così di far passare questo cambiamento come qualcosa di naturale, come se il tempo fosse tornato indietro senza che lui l’avesse voluto.
Questa è la sua soluzione – invecchiare in camicie col collo alto e giacche di pelle, provare ogni combinazione di baffi, barba e basette. L’ho visto nelle vecchie foto di quando era fidanzato, grosse braccia in T-shirt, un musicista vagabondo e abituato a bere che andò a sbattere contro i limiti del proprio talento e s’innamorò di una donna di campagna, una vedova che sapeva tutto di sementi e raccolti.
Poi ricordo. Mi torna in mente: oggi è l’anniversario. È successo esattamente due anni fa.
Torna a riempirsi il bicchiere dalla bottiglia di Ballantines e dice: “Lascia che ti faccia un’altra domanda.”
“Okay.”
“Che ne diresti di una macchina nuova?”
“Non so,” rispondo. “Quella che abbiamo non va bene?”
Posa il bicchiere con tanta forza da schizzare sulla tovaglia un po’ di scotch e un cubetto di ghiaccio grande come l’unghia di un pollice. “Hai ragione,” dice. “Hai assolutamente ragione. Non c’è nessun bisogno di cambiarla. Sono totalmente d’accordo.”
La pendola ticchetta. Io dico: “Una macchina nuova sarebbe okay, papà.”
“Stavo pensando a qualcosa di più chic, magari un modello straniero col tetto apribile.”
“Uh-huh. Bene.”
“Qualcosa che lasci entrare un po’ d’aria.”
“Sì.”
Continuiamo lentamente a mangiare. La faccia di mio padre quando si nutre è distaccata e ottimistica. Sta eliminando il grigio, capello per capello. Rotea gli occhi dietro le lenti degli occhiali nuovi.
Lei si era congedata a poco a poco prima di rendere la cosa ufficiale. Viveva nella camera degli ospiti, faceva rare e silenziose apparizioni in una vestaglia turchese chiaro. Una volta, incrociandomi in corridoio mentre andava in bagno, si fermò quanto bastava per accarezzarmi i capelli. Non parlò. Mi guardò come se fosse stata sulla banchina di una stazione in un paese arido e piatto, e io mi stessi allontanando su un treno che si arrampicava in un mondo alpino.
Quando mio padre e io la trovammo, lui fece le telefonate e ci sedemmo insieme, tutti e due, nel soggiorno vuoto. La lasciammo in pace – ci sembrava la cosa più gentile da fare. Sedevamo in silenzio, aspettando che arrivassero i poliziotti e i paramedici. Non parlavamo.
In sala da pranzo, la scena della fattoria autunnale non è cambiata. Le mucche gettano ancora ombre arancione, gli alberi germogliano ancora foglie gialle. Mio padre mangiucchia contegnosamente la carne, non tocca le patate. Io finisco di mangiare, porto il mio piatto in cucina e lo aggiungo alla pila. Un enorme insetto iridescente vaga estatico sopra un quarto di luna di grasso d’agnello ingiallito. Le tende mostrano ancora teiere blu.
Più tardi, quando mio padre è già a letto, mi alzo e gironzolo per casa. Mi sono fatto una dose di dexedrina dopo la scuola, pensando che avrei potuto rassettare la casa, ma mi sono invece abbandonato alla musica. Due spinelli non hanno annullato l’effetto dell’amfetamina quanto sarebbe bastato per farmi addormentare, così non appena mio padre ha svuotato la bottiglia ed è andato a letto, passeggio da una stanza all’altra, con la testa che arde e scoppietta come una lampadina. Sotto tutto quel disordine accumulato, è la copia perfetta di una casa, come le riproduzioni d’epoca raccolte nei musei di provincia. Qui c’è il loro soggiorno, un divano rosso ciliegia ritenuto un tempo troppo sgargiante, e una vecchia vasca da bagno di rame, dove si tenevano i ceppi se le stufe erano incassate nel caminetto. Qui c’è la porta d’ingresso, quercia gialla con un unico riquadro di vetro smerigliato attraverso il quale si possono vedere, ma non identificare, gli estranei. E qui c’è la stanza dei giochi, rivestita di pannelli, con un tappetino che sembra un occhio di bue sul linoleum marrone del pavimento.
Dopo l’incidente, mio padre cercò di vendere la casa. Ma in sei mesi una sola persona interessata offrì poco più della metà del suo valore di mercato. Questo quartiere di Cleveland non aveva un grande potenziale di sviluppo.
La musica suona all’interno della mia testa. Percorro il corridoio fino alla porta di mio padre. La testa è una radio accesa – penso per un attimo che la musica finirà per svegliarlo. Mi fermo davanti alla porta e osservo le venature. Poi apro e striscio all’interno.
Respira fragorosamente. Il suo orologio digitale fa scorrere i rossi secondi. Io me ne sto lì, me ne sto lì e basta, mentre il tempo passa sul suo comodino. Nella mia testa risuona Aqualung. In quel momento capisco gli assassini psicopatici. Potrei prendere la sua testa fra le mani, lisciare i suoi morti capelli neri. Potrei dargli un pugno e sentire i suoi denti rompersi come zollette di zucchero, udirli sparpagliarsi sul pavimento. Capisco il buio silenzio del mondo e il crepitio della sua luce e del rumore interni. Capisco come ci si senta con una tuta spaziale.
Potrei essere qui per ammazzare mio padre. Adesso, proprio adesso, potrei avanzare furtivo e premergli un cuscino sulla faccia. È troppo ubriaco per reagire. Mi vedo nell’atto di farlo. Il film scorre nella testa, con i Jethro Tull nella colonna sonora. Un cuscino bianco come neve e il mio corpo che immobilizza il suo; una breve lotta e poi l’estasi dell’annegato. Aqualung my friend. Don’t you start away uneasy.
Oppure, potrei assestare un bacio sulla sua testa preoccupata. È abbastanza ubriaco da continuare ugualmente a dormire. Potrei strisciare a letto con lui e perdermi nel calore muschiato, negli odori di scotch, di ascelle e di British Sterling. Per un po’ rimango in piedi accanto al suo letto, riflettendo sulle varie possibilità.
Finisce che me ne vado. Esco dalla camera di mio padre, scendo in anticamera, e m’inoltro, aprendo la porta d’ingresso, nella notte stellata e illuminata dai lampioni di Cleveland.
I Glover vivono a meno di un miglio, in una casa con finestre dai vetri a forma di rombi. Un’altalena bianca di vimini dondola cigolando sulla veranda anteriore, croccante come un lago gelato. Guardo la loro casa stando fra gli iris. Siamo all’inizio di giugno; i fiori sussurrano intorno alle mie ginocchia. Cauto come un ladro, scruto la loro proprietà, restando nell’ombra. La finestra di Jonathan è illuminata, c’è un fievole bagliore color avorio della lampada a stelo accanto al suo letto. Sta leggendo John Steinbeck per la scuola, e poi mi racconterà la trama. Striscio dietro un gelso. La luce della cucina getta un lungo rettangolo sull’erba mentre Alice asciuga i cucchiai e i misurini. Non riesco a vederla ma conosco i suoi movimenti – è rapida e sicura come la scienza, anche se tiene più alla perfezione che all’ordine. Le padelle di ghisa sono sempre lucide ma il giornale della domenica è ancora nel soggiorno il mercoledì sera. I Glover tengono una casa accogliente e semipulita, che ha poco a che fare con il vero nitore. Qui le cose s’attaccano e resistono.
Aspetto respirando nell’oscurità che lei spenga la luce della cucina e vada di sopra. Ned non sarà a casa che fra un’ora o due. Striscio dall’altra parte in tempo per veder accendersi la luce della sua camera. Guardo quella finestra e guardo le altre, quelle che si aprono su stanze vuote. Dietro due finestre buie appaiate c’è l’oscurità luccicante della sala da pranzo, col servizio da tè in argento che emette un gelido scintillio. Dietro una terza finestra, più piccola, c’è la lavanderia, col suo odore di detersivi. Di sopra, Alice getta una breve ombra attraverso la zanzariera.
Aspetto, continuando a guardare, finché non arriva la macchina di Ned. Lo vedo camminare dal garage alla porta d’ingresso, con la camicia bianca che brilla nella luce della veranda, le monete che gli tintinnano nelle tasche. Ned s’impomata i capelli col Vitalis; porta calzoni larghi Sansbelt. Sento lo scatto della sua chiave nella serratura. Spegne la luce e va di sopra. Odo i suoi passi. Alice lo sta aspettando, con i capelli sciolti sul collo. Jonathan continua a leggere in camera sua, studia la storia che mi racconterà domani.
Rimango seduto fra i cespugli finché non si spengono tutte le luci, finché la casa non si è sistemata per la notte. Poi le giro attorno camminando lentamente, con stelle e pianeti che brillano in cielo. Sopra di noi esplodono i soli, scavando buchi nella galassia, portando la loro luce nell’altro mondo. Qui sotto, in una notte terrestre ronzante di zanzare e di grilli, io orbito intorno alla casa dei Glover.