Bobby

Vivevamo allora a Cleveland, al centro di tutto. Erano gli anni Sessanta – tutto il giorno le radio cantavano a squarciagola storie d’amore. Questo, naturalmente, è storia. Accadde prima che la città di Cleveland fallisse, prima che il suo fiume prendesse fuoco. Eravamo in quattro, mia madre, mio padre, Carlton e io. Carlton compì sedici anni l’anno in cui io ne compii nove. Fra noi due c’erano stati alcuni fratelli e sorelle, esili fiammelle soffocate nell’utero di nostra madre. Non siamo una famiglia feconda né molto ramificata. Il nostro cognome è Morrow.

Nostro padre insegnava musica alle superiori. Nostra madre insegnava a bambini definiti “eccezionali”, nel senso che alcuni di loro potevano dire in quale giorno della settimana sarebbe caduto il Natale dell’anno 2000, ma non si ricordavano di tirarsi giù i pantaloni quando pisciavano. Vivevamo in un quartiere chiamato Woodland – linde casette di uno o due piani dipinte di colori... ottimistici, diciamo. Il nostro terreno confinava con un cimitero. Oltre il cortile dietro casa c’era un canalone intasato di cespugli e, più in là, un campo con pietre lisce e levigate. Io crebbi con il cimitero accanto, ma non mi dava alcun fastidio. Un unico angelo di pietra, col seno piccolo e un’aria decisa, spiccava fra le lapidi più convenzionali nei pressi di casa nostra. Più lontano, in un settore più ricco, moschee e partenoni in miniatura parlavano silenziosamente a Cleveland delle realizzazioni più durature dell’uomo. Da bambini, Carlton e io giocavamo nel cimitero, un po’ più cresciuti, ci andavamo a fumare spinelli e a bere Southern Comfort. Grazie a Carlton, io ero il ragazzo di nove anni criminalmente più progredito di tutta la quarta elementare. Mi davo da fare. Non facevo un passo senza i suoi consigli.

Ecco qui Carlton qualche mese prima di morire, in un’ora così piena di neve che cielo e terra sono ugualmente bianchi. Lui avanza a fatica fra le lapidi e io gli corro dietro, pizzicato dalla neve, seguendo il faro del suo rosso berretto di lana. Carlton porta i capelli tirati indietro in un’acconciatura sobria e pratica a coda di cavallo, una perfetta pigna di capelli. È un ragazzo frugale, a modo suo.

Ci siamo fatti delle dosi di acido con il succo di frutta della colazione. O meglio, Carlton se n’è fatta una dose, e a me, data l’età, ne ha concessa solo mezza. Questo acido viene chiamato “vetrodifinestra”. Serve per la chiarezza della visione, come il Vicks per la decongestione del naso. I nostri genitori sono al lavoro, a guadagnare il pane quotidiano. Siamo usciti al freddo in modo che, quando rientreremo, la casa ci darà uno shock col suo ordine e il calore. Carlton crede negli shock.

“Penso che ci sto arrivando,” grido. Carlton indossa la sua giacca di pelle scamosciata, così consumata da apparire lucida. La sua ragazza gli ha cucito sulla schiena, all’altezza delle spalle, un occhio blu elettrico. Camminando, io mi rivolgo a quell’occhio. “Penso di sentire qualcosa,” dico.

“Troppo presto,” ribatte Carlton. “Rilassati, Frisco. Quando sarà il momento, lo saprai.”

Sono eccitato e terrorizzato. Siamo passati alla roba seria. Carlton si è già fatto di acido una dozzina di volte, ma per me è una novità. Mi piego al vento, cercando di decidere se intorno a me sembra tutto strano a causa della droga o perché strano lo è davvero. Tre settimane or sono, dall’altra parte della città, una famiglia era in casa a guardare la televisione, quando un aereo monomotore è caduto loro addosso. Intorno a noi turbina la neve, che sembra cadere contemporaneamente in su e in giù.

Carlton procede verso il nostro “posto”, che consiste nell’ingresso a colonne di una tomba dell’alta società. Questa tomba è un palazzo. Sul tetto a punta ci sono tanti amorini in pietra che formano un grappolo, con rachitiche ali gelate e facce da matrone. E sotto una veranda, con porte di ghisa che conducono alla vera e propria casa dei morti. D’estate la veranda è fresca, d’inverno ripara dal vento. Noi ci teniamo una bottiglia di Southern Comfort.

Carlton la recupera, svita il tappo e tracanna una lunga sorsata. È costellato di fiocchi di neve. Mi passa la bottiglia e io ne bevo una dose più modesta. La tomba odora di muschio anche d’inverno. Foglie morte e un sacchetto giallo di marshmallow, mossi dal vento, svolazzano sul pavimento di marmo.

“Sei spaventato?” mi domanda Carlton.

Annuisco. Non mi viene mai in mente di mentirgli.

“Non devi, amico,” dice. “La paura finirà per distruggerti. Le droghe non ti fanno male se non hai paura.”

Annuisco. Restiamo lì al riparo, passandoci la bottiglia. M’appoggio alla sicurezza di Carlton come a una fonte di calore.

“A Woodstock possiamo farci di acido in continuazione,” dico.

“Sicuro. La nazione di Woodstock. Oh.”

“Ma davvero c’è gente che ci vive?” domando.

“Devi smettere di chiedermelo: il concerto è finito, ma lì c’è ancora gente. È la nuova nazione. Abbi fede.”

Annuisco di nuovo, soddisfatto. Esiste un paese diverso in cui potremo vivere. Io sono già una persona nuova, ribattezzata Frisco. Il mio vecchio nome è Robert.

“Ci faremo di acido in continuazione,” dico.

“Puoi starne certo.” La faccia di Carlton è illuminata dalla luce che viene dal marmo e dalla neve. I suoi occhi brillano come neon. C’è qualcosa in loro da cui capisco che può vedere il futuro, uno spettro che incombe sulla testa di ognuno. Nel futuro di Carlton, saremo tutti liberati dal lavoro e dalla scuola. Ci aspetta, e sarà presto realtà, una semplicità perfetta e luminosa. Una vita fra gli alberi, sul fiume.

“Come ti senti, amico?” mi domanda.

“Benissimo,” gli dico, ed è la pura verità. Colombi si levano rumorosamente in volo da un albero spoglio e cambiano di colore, dall’acciaio all’argento, nella luce spruzzata di neve. In questo momento so che la droga sta facendo effetto. Ogni cosa intorno a me è diventata, improvvisamente e radiosamente, se stessa. Come poteva sapere Carlton che sarebbe successo questo? “Oh,” sussurro. La sua mano si posa sulla mia spalla.

“Rilassati, Frisco,” dice. “In questo mondo bellissimo non c’è niente di cui aver paura. Sono qua io.”

Non ho paura. Sono soltanto sbalordito. Prima d’ora non mi ero mai accorto di quanto siano reali tutte le cose. C’è un ramoscello sul marmo ai miei piedi, con un grappolo di dure bacche marrone. Il capo spezzato è escoriato, bianco, carnoso. Gli alberi sono vivi.

“Sono qua io,” ripete Carlton, ed è vero.

Qualche ora dopo, siamo stravaccati sul divano davanti al televisore. In cucina nostra madre prepara la cena. Sbatte il coperchio di una pentola. Siamo due agenti segreti. Cerco di nascondere il mio stupore.

Nostro padre sta tentando di fabbricare una pendola con una scatola di montaggio. Vuole avere qualcosa da lasciarci, qualcosa che a nostra volta potremo tramandare. Lo sentiamo segare e battere nel seminterrato. So che cosa ha steso sui suoi cavalletti – una lunga e nuda cassa di legno su cui incolla elaborate modanature. Un’unica perla di sudore gli scende serpeggiando sulla fronte. Stasera ho scoperto la mia capacità di vedere contemporaneamente tutte le stanze della casa, di conoscere ogni singola cosa che vi accade. Un topo rosicchia dentro il muro. Fili elettrici s’arricciano dietro l’intonaco, in paziente agguato come serpi.

“Sss...” dico a Carlton, che non ha detto nulla. Sta guardando la televisione attraverso le dita allargate. Schioccano le pistolettate. I proiettili alzano polvere di gesso su un muro di cemento. Non ho idea di che cosa stiamo guardando.

“Ragazzi,” chiama nostra madre dalla cucina. Con le mie nuove orecchie, la sento stendere gli hamburger per assottigliarli. “Preparate la tavola da bravi figlioli,” dice.

“Okay, mamma,” risponde Carlton in una splendida imitazione della normalità. Nostro padre martella nel seminterrato. Sento ticchettare il cuore di Carlton. Che mi dà un colpetto sulla mano per assicurarmi che va tutto a meraviglia.

Prepariamo la tavola, cucchiaio forchetta coltello, tovaglioli di carta piegati a triangolo da una parte. Conosciamo ogni mossa alla perfezione. Finito questo, mi soffermo a osservare la tappezzeria della sala da pranzo: una fattoria dorata con montagne dietro. Mucche che pascolano, alberi autunnali che gettano ombre dorate. La scena si ripete tre volte, su tre pareti.

“Zap,” bisbiglia Carlton. “Zzzum.”

“Abbiamo fatto tutto giusto?” gli chiedo.

“Abbiamo fatto tutto alla perfezione, amico. Come ti va qui dentro, a proposito?” Mi batte qualche colpetto sulla testa.

“Magnificamente, credo.” Sto fissando la tappezzeria come se pensassi di entrarci dentro.

“Credi. Credi? Tu e io andremo su altri pianeti, amico. Vieni qui.”

“Dove?”

“Qui. Vieni qui.” Mi conduce alla finestra. Fuori la neve, nervosa e argentea, svolazza sotto i lampioni. Finte case coloniche imprigionano il calore, trasudando luce nella neve sempre più fitta. È una strada di Cleveland. È la nostra strada.

“Tu e io voleremo,” mi sussurra Carlton all’orecchio. Apre la finestra. La neve irrompe all’interno, luccica sulla moquette. “Voliamo,” dice, e noi voliamo. Per un attimo ci sforziamo di spingerci più in alto e più in là, con il vento della notte buia che ci soffia in faccia, poi ci solleviamo di una frazione di centimetro dallo spesso tappeto di lana e poliestere color cacao. Una meravigliosa euforia. È questo il segreto del volo – bisogna buttarsi immediatamente prima che il corpo si accorga che sta sfidando le leggi. Lo sostengo anche ora.

Sappiamo entrambi di esserci momentaneamente congedati dalla terra. Non ci sembra che ci sia niente di singolare, non più del fatto che a volte gli aerei cadono dal cielo, o che abbiamo sempre vissuto in queste stanze e fra un po’ le lasceremo. Torniamo a posarci. Carlton mi tocca una spalla.

“Aspetta, Frisco,” dice. “I miracoli avvengono. Miracoli del cazzo.”

Annuisco. Lui tira giù la finestra che si richiude con una sorta di risucchio. Le nostre facce ci guardano dai vetri freddi e scuri. Dietro di noi, nostra madre mette gli hamburger a sfrigolare sulla padella. Nostro padre si china sul suo lavoro sotto una lampadina schermata, preparando la lunga cassa in cui sistemerà i meccanismi, il pendolo, il quadrante. Un aereo ronza sopra le nostre teste, invisibile fra le nubi. Scocco a Carlton un’occhiata nervosa. Lui sorride sicuro e mi stringe la nuca.

Marzo. Dopo il disgelo, passeggio nel cimitero, pensando alla mia vita interminabile. Uno dei vantaggi di vivere a Cleveland è che in qualsiasi direzione tu vada ti sembra un progresso. Ho imparato a memoria la mappa. Secondo i miei calcoli, siamo a cinquecentotrenta chilometri da Woodstock, New York. In questa nuova, rigida giornata sto andando a est, nel posto in cui Carlton e io teniamo la nostra bottiglia. Mi concederò una sorsata mattutina per celebrare il mio luminoso avvenire.

Appena arrivato nel punto preciso, sento dei gemiti sommessi da dietro la tomba. Mi blocco, meditando sulle mie alternative. Quel suono è uno spasimo prolungato che termina con un colpo di frusta, un do maggiore finale, qualcosa come un “Ooooo... oh”. L’ululato di un lupo che scorre a ritroso. Ciò che mi fa decidere d’indagare anziché fuggire è il bisogno di costruire una storia. In quelle preferite da mio fratello, la gente fa sempre cose assurde e rischiose. Scopro di poter prendere una decisione in questo modo, considerandomi un personaggio di una storia raccontata da Carlton.

Striscio costeggiando il monumento, guardingo come un tasso, schiacciandomi contro il marmo. Sbircio da sopra la spalla femminea di un cherubino. Ciò che vedo è Carlton steso al suolo con la sua ragazza, un miscuglio confuso di abiti e di pelle nuda. La giacca di Carlton, quella con l’occhio ricamato, è appesa alla lapide, monta la guardia.

Mi accovaccio dietro la statua. Vedo le braccia nude della ragazza e le ossa della spina dorsale di Carlton che conosco assai bene. I due gemono insieme sull’asciutta erba invernale. Non riesco a scorgere l’espressione di lei, ma la faccia di Carlton è contorta in una smorfia, i tendini del suo collo sono tesi. Non avrei mai pensato che potesse essere un’esperienza dolorosa. Guardo, cercando d’imparare. M’aggrappo alle fredde ali del cherubino.

Non passa molto tempo prima che Carlton mi veda. I suoi occhi vagano un momento, estaticamente rivolti in alto, e su che cosa si soffermano se non sulla testolina di suo fratello che spunta accanto a quella di un cherubino? Incrociamo gli sguardi e ci basta un attimo per prendere una decisione. La ragazza è sempre avvinghiata alla schiena magra di Carlton. Lui decide di sorridermi. Decide di strizzarmi l’occhio.

Corro via talmente in fretta da svellere le zolle. Schivo appena le lapidi, scavalco d’un balzo il canalone, supero lo steccato del cortile posteriore consacrato all’altalena e al tavolo da picnic. C’era qualcosa in quella strizzata d’occhio. Il cuore mi batte veloce come quello di un passero.

Vado in cucina e trovo nostra madre che sta lavando la frutta. Mi domanda cosa stia succedendo. Niente, le dico. Assolutamente niente.

Lei sospira davanti all’imperfezione di una mela. Le tendine hanno disegni di teiere blu. Nostra madre sfrega la mela con una spazzola dura. È convinta che ci arrivino ricoperte di veleno.

“Dov’è Carlton?” domanda.

“Non so,” le dico.

“Bobby?”

“Eh?”

“Cosa sta succedendo esattamente?”

“Niente,” dico. Il mio cuore si adegua al ritmo di quello di un colibrì, più un ronzio che un battito.

“Io credo che stia succedendo qualcosa. Vuoi rispondere a una domanda?”

“Okay.”

“Tuo fratello si droga?”

Mi rilasso un po’. Si tratta solo di droghe. So perché me lo chiede. Da qualche tempo macchine della polizia s’aggirano come squali intorno a casa nostra. Si fermano, prendono appunti, scivolano via. Stanno dando un giro di vite al quartiere. Carlton è famoso da queste parti.

“No,” le dico.

Mi guarda con la spazzola in una mano e la mela nell’altra. “Non mi diresti mai una bugia, vero?” Sa che c’è qualcosa in ballo. I suoi nervi vibrano in tutta la casa. Può sentire la polvere che si posa sui tavoli, il latte che va a male in frigorifero.

“No,” dico.

“Sta succedendo qualcosa,” sospira. È una donna piccola ed efficiente che guarda le cose come se emettessero una luce dolorosa. È cresciuta in una fattoria del Wisconsin e ha passato l’adolescenza legando filari di fagioli e preoccupandosi per il sole e la pioggia. Sta ancora cercando di vincere l’abitudine a non aspettarsi molto.

Lascio la cucina, fingendo un interesse improvviso per il gatto. Nostra madre mi segue, con la spazzola in mano. Intende cavarmi di bocca la verità con la forza. Io seguo il gatto, la sua nera coda eretta, il suo ano roseo.

“Non andar via quando ti sto parlando,” dice nostra madre.

Io continuo a camminare, per vedere fin dove potrò spingermi, chiamando: “Miciomiciomicio.” In anticamera la pendola fabbricata da nostro padre batte la mezz’ora. Arrivo fino alla pianta di caucciù prima che lei mi agguanti.

“Ti ho detto di non andartene,” dice, e mi molla un ceffone con la spazzola. Mi tira un orecchio e lo fa ronzare. Il gatto schizza fuori, veloce come una semiminima.

M’immobilizzo un momento per farle sapere che ho ricevuto il messaggio. Poi ricomincio a camminare. Mi colpisce di nuovo, stavolta sulla nuca, così forte da farmi vedere le stelle. “Ti vuoi fermare?” grida. Ma io continuo a camminare. Casa nostra va da ovest a est. Passo dopo passo mi avvicino alla fattoria di Yasgur.

Carlton rincasa fischiettando. Nostra madre lo tratta come un ospite che si è trattenuto più del dovuto. A lui non importa. È tutto preso dal suo ottimismo. Le accarezza una guancia e la chiama “Professoressa”. La tratta come se fosse innocua, e lo è davvero.

Non picchia mai Carlton. Lo sopporta come le contadine sopportano un corvo che ruba, con un rancore antico e infinito che sconfina nella riverenza. Gli dà una mela ben sfregata e gli dice quel che gli farà se lascerà orme di fango sul tappeto.

Io sto aspettando in camera nostra. Lui si porta appresso l’odore del cimitero, la neve vecchia e gli aghi di pino bagnati. Mi guarda roteando gli occhi e sgranocchia rumorosamente la mela. “Cosa sta succedendo, Frisco?” domanda.

Io, sistemato alla meglio sul letto, sto cercando di estrarre dalla mia armonica un riff di Dylan. Ho sempre immaginato di poter arrivare alla saggezza attraverso una serie di casualità, come bluffando. Offro a Carlton un dignitoso cenno del capo.

Si lascia cadere sul suo letto. C’è un croco schiacciato, il primo dell’anno, sulla nera suola di gomma di un suo stivale.

“Be’, Frisco,” dice. “Oggi sei un uomo.”

Di nuovo annuisco. È tutto qui?

Uau,” dice Carlton. Ride, contento di sé e del mondo. “È stato perfetto.”

Suono come posso Blowin’ in the Wind.

Carlton dice: “Amico, quando ho visto che ci stavi spiando, mi sono detto, sì... Adesso veramente ci sono. Capisci quello che ti sto dicendo?” Agita il torsolo della mela.

“Uh-huh,” dico.

“Frisco, era la prima volta che lo facevamo. Certo, ne avevamo parlato. Ma quando ci siamo finalmente decisi, tu eri lì. Mio fratello. Come se tu sapessi.”

Annuisco, stavolta sul serio. Quel che è successo è stata un’avventura che abbiamo vissuto insieme. Benissimo. La storia comincia ad avere un senso.

“Ehi, Frisco,” dice Carlton. “Troverò una ragazza anche per te. Hai nove anni. Sei stato vergine per troppo tempo.”

“Davvero?” dico.

Amico. Ti troveremo una donna che fa la sesta, una con un po’ d’esperienza. Ci sbronzeremo e scoperemo tutti quanti sotto l’albero del cimitero. Voglio essere presente alla tua deflorazione, amico. Ti servirà un fratello in quel momento.”

Sto per chiedergli, con tutta la noncuranza di cui sono capace, che rapporto c’è fra l’amore e il dolore fisico, quando s’inserisce nella stanza la voce di nostra madre. “Lo hai fatto,” grida. “Hai lasciato orme di fango su tutto il tappeto.”

Segue un putiferio famigliare. Nostra madre porta qui mio padre, che si presenta con lei sulla soglia a raccogliere prove. Lui è un ex bello. La sua faccia è stata consumata da un eccesso di pazienza. Ultimamente ha voluto assumere alcune caratteristiche da sportivo – una barbetta a punta, un paio di stivali di vitello.

Nostra madre indica quel sentiero di mezzelune fangose che va dalla porta al letto di Carlton. Dal fondo del letto penzolano i colpevoli, voluttuosamente infangati, con i piedi criminali di Carlton ancora dentro.

“Lo vedi?” dice. “Lo vedi che cosa pensa di me?”

Nostro padre, uomo ragionevole, propone che sia Carlton a pulire. Nostra madre ritiene che sia troppo poco. Vorrebbe che Carlton non l’avesse mai fatto. “Io non chiedo molto,” dice. “Non gli chiedo dove va. Non gli chiedo come mai all’improvviso la polizia si interessi tanto a casa nostra. Gli chiedo solo che non lasci orme di fango sul pavimento. Tutto qui.” Socchiude gli occhi al bagliore del suo stesso sdegno.

“È meglio che tu ripulisca subito,” dice nostro padre a Carlton.

“Tutto qui?” dice nostra madre. “Lui ripulisce ed è tutto dimenticato?”

“Be’, cosa vuoi che faccia? Che lo lecchi?”

“Voglio un po’ di considerazione,” dice lei, voltandosi impotente verso di me. “Tutto qui quello che voglio.”

Alzo le spalle, perplesso. Simpatizzo per nostra madre, ma non faccio parte della sua squadra.

“E va bene,” dice lei, “non mi prenderò più il disturbo di pulire la casa. Lascerò che ve ne occupiate voi uomini. Io me ne starò seduta a guardare la televisione e lascerò cadere sul pavimento le carte delle mie caramelle.”

E se ne va tagliando l’aria come una lama. Lungo il cammino, prende un vasetto di matite, lo guarda e getta le matite per terra. Cadono come le bacchette di un’indovina, alcune appaiate, altre incrociate.

Nostro padre la segue, chiamandola per nome. Li sentiamo avanzare nella casa, lui che chiama “Isabel, Isabel, Isabel” mentre lei, soddisfatta dello spettacolo che le hanno offerto le matite, lascia cadere altri oggetti sul pavimento.

“Speriamo che non rompa il televisore,” dico.

“Farà quello che ha bisogno di fare,” mi dice Carlton.

“Io la odio,” dico. Non ne sono sicuro. Voglio verificare come suonano queste parole, per scoprire se sono vere.

“Ha più coglioni di tutti noi, Frisco,” dice lui. “Ti consiglio di stare attento a come parli di lei.”

Taccio. Dopo un po’ mi alzo e comincio a raccogliere le matite, perché preferisco questo a starmene sdraiato cercando di seguire le linee mutevoli della mia lealtà. Carlton va a prendere una spugna e comincia a sfregare via il fango.

“Tu caghi sul tappeto e tu devi pulire,” dice. “Semplice.”

Il momento per tutte le mie domande sull’amore è passato, e io non sono così convenzionale da imporre un argomento. So che tornerà. Faccio con le matite un perfetto mazzolino. Nostra madre strepita per tutta la casa. In seguito, dopo che lei si è sfogata a sufficienza e noi tre abbiamo raccolto tutto, mi sdraio sul mio letto a riflettere. Carlton è al telefono con la sua ragazza, parla sottovoce. Nostra madre, placata ma ancora pericolosa, prepara la cena. Canta cucinando, un pezzo lento degli anni Quaranta che doveva essere in tutti i juke-box quando l’aereo del suo primo marito è caduto nel Pacifico. Nostro padre suona il clarinetto nel seminterrato. È lì che va a esercitarsi, fra gli utensili di falegname, i martelli e i punteruoli ordinatamente appesi che gettano ombre smisurate alla luce dell’unica lampadina. Se accosto un orecchio al pavimento, lo sento estrarre da quello strumento un lungo e sommesso gemito da gatto. Mi dà uno strano conforto premere l’orecchio contro il tappeto, e ascoltare la musica di nostro padre che filtra fra le assi del pavimento. Sdraiato con l’orecchio sul pavimento, mi unisco a lui con la mia armonica.

Questa primavera i nostri genitori danno una festa per celebrare il ritorno del sole. Abbiamo avuto un inverno lungo e rigido ma ora sui prati e fra le tombe stanno spuntando le prime margherite selvatiche.

Queste feste sono faccende eleganti. I loro amici, tutti insegnanti, portano brocche di vino e chitarre. Sono tutti hippy dell’Ohio. Sebbene abbiano un lavoro e paghino ipoteche, si considerano spiriti indipendenti in una missione di spionaggio. Hanno accettato di impersonare degli insegnanti mentre scrivono i loro romanzi, finiscono le loro tesi, o mettono via abbastanza soldi per poter essere liberi.

Carlton e io siamo i lacchè. Prendiamo i cappotti, portiamo da bere. Grazie alla nostra precocità, lo abbiamo fatto in tutte le feste da quando eravamo piccoli, comportandoci sempre da buoni fratelli. Siamo degli esperti. Un donnone con le labbra appiccicose che ha dedicato la propria verginità alla matematica del nono anno mi definisce l’Uomo Ideale. Un assistente vicepreside con un colbacco russo di pelo ci domanda se pensiamo di votare democratico o socialista. Rubacchiando qualche sorsata, riesco quasi a sbronzarmi.

A un certo punto, però, la rispettabilità della serata deraglia a causa di una mezza dozzina di amici di Carlton. Bussano alla porta e io vado ad aprire, ansioso come un imbonitore da fiera di vedere chi sarà il prossimo a entrare per farmi rimangiare l’illusione di essere un sobrio e garbato ragazzo di nove anni. Mi aspetto adulti immaturi e mi trovo davanti un branco di giovani teppisti con stivali pesanti e capelli in disordine. Li guida la ragazza di Carlton che indossa qualcosa fatto quasi interamente di frange.

“Ciao, Bobby,” dice baldanzosa. Viene da New York ed è più sveglia della media locale.

“Ciao,” dico. Li lascio entrare nonostante un impulso retrogrado a chiudere la porta e telefonare alla polizia. Tre sono femmine, quattro maschi. Mi passano davanti con occhiate sornione, immersi in una nuvola di fumo d’erba.

In poche parole, invadono la festa. Mentre Carlton, all’estremo opposto della tavernetta, sta scegliendo un altro album, la sua ragazza fende decisa la folla per schierarsi al suo fianco. Ha l’ossatura e le movenze sciolte, fluide, che alcuni considerano belle. Attraversa la stanza come se l’avessero mandata qui a darci una lezione.

La faccia di Carlton mi fa capire che era tutto programmato. Nostra madre vorrebbe sapere cosa sta succedendo. Indossa un vestito rosso scuro che le lascia le spalle scoperte. Quando si mette in ghingheri, puoi vedere che donna è, o era. È lei la responsabile della bellezza di Carlton. Io ho la faccia di nostro padre.

Carlton dice rapidamente qualcosa. E anche se nostra madre non ne è affatto convinta, gli invasori sono autorizzati a rimanere. Uno di loro, una specie di Eddie Haskell, a giudicare da tutto il suo cuoio e dai suoi capelli, le dice che ha un magnifico aspetto. A lei fa piacere.

Così i teppisti, con l’approvazione della padrona di casa, si mescolano agli invitati. Io mi faccio strada a fatica per portarmi al fianco di Carlton, che in quel momento non è occupato dalla sua ragazza. Mi piacerebbe dire qualcosa di ironico e di maturo, qualcosa che unisca me e lui contro tutte le altre persone presenti nella stanza. Sento la forma della battuta che ho in mente ma, essendo un ragazzo brillo di nove anni, non riesco ad arrivarci con la bocca. La sola cosa che dico è: “Merda, amico.”

La ragazza di Carlton mi ride in faccia. Per lei è divertente che un ragazzino dica: “Merda.” Mi piacerebbe dirle che cosa ho immaginato di lei, ma ho nove anni e sono sbronzo con tre quarti di Tom Collins. Anche sobrio posso solo immaginare di avere uno spirito tagliente.

“Tieni duro, Frisco,” mi dice Carlton. “Potrebbe diventare una vera festa.”

Dal lampo dei suoi occhi intuisco che cosa sta succedendo. Ha combinato un appuntamento al buio fra gli amici dei nostri genitori e i suoi. È una mossa da Woodstock – lui lavora per un futuro in cui giovani e vecchi faranno affari insieme. Mi rassegno ad aspettare e vado in cucina con la speranza di sgraffignare qualche goccio di gin.

Ci trovo nostro padre appoggiato al frigorifero. Una fila di magneti a forma di farfalle gli ronza intorno al capo. “Ti diverti a questa festa?” domanda, toccandosi il pizzo. Non si è ancora abituato del tutto a essere un uomo con la barba.

“Uh-huh.”

“Anch’io,” dice con tristezza. Non aveva mai sognato di finire insegnante di musica alle superiori. È stata la faccenda dei soldi a convincerlo.

“Cosa ne pensi di questa musica?” domanda. Carlton ha messo gli Stones sul giradischi. Mike Jagger canta 19th Nervous Breakdown. Nostro padre include in un gesto generoso la stanza, la festa, l’intera casa – tutto ciò che viene toccato dalla musica.

“A me piace,” dico.

“Anche a me.” Mescola il suo drink con un dito che poi succhia.

“Io l’adoro,” dico troppo forte. C’è qualcosa in lui che mi porta ad alzare la voce. Vorrei afferrare manciate di musica e cacciarmele in bocca.

“Io non sono sicuro di poter dire che l’adoro,” dice lui. “Non sono sicuro di poterlo dire, no, direi piuttosto che ho simpatia per le sue intenzioni. Direi che se è questa la direzione in cui sta andando la musica, io non mi metterò di mezzo.”

“Uh-huh.” dico. Sono già impaziente di tornare alla festa, ma non voglio ferire i suoi sentimenti. Se intuisce che lo si sta evitando può piombare in accessi di giustificazioni ancor più terrificanti delle collere di nostra madre.

“Temo di essere stato troppo severo con i miei studenti,” dice nostro padre. “Forse quest’estate voi ragazzi potrete insegnarmi qualcosa della musica che ascolta oggi la gente.”

“Certo,” dico ad alta voce. Lasciamo passare un minuto aspettando d’avere qualcos’altro da dire.

“Voi ragazzi siete contenti, vero?” ci domanda. “Vi divertite a questa festa?”

“Ci divertiamo da matti,” dico.

“Lo pensavo. Io pure.”

A questo punto sono arrivato a un salto di distanza dalla porta. Gli grido: “Be’, arrivederci!” e mi rituffo nella festa.

È successo qualcosa durante la mia breve assenza. La festa ha cominciato a muoversi. Sarà una congiunzione tra storia e clima. Gli amici di Carlton si stanno comportando decentemente e quelli dei nostri genitori hanno deciso di rinunciare in parte alla propria ricetta di vino e canti popolari per vedere cosa possono imparare. Carlton sta ballando con la moglie di un vicepreside. Frank, un amico di Carlton con una faccia da bambino invecchiato e un quoziente d’intelligenza appena superiore a sessanta, con nostra madre. Vedo che nostro padre mi ha seguito fuori dalla cucina. Si è messo ai margini della festa; io mi ci butto in mezzo. Invito a ballare la professoressa di matematica dalle labbra fucsia. Lei è fin troppo contenta. È grossa e ha la grazia di un carro carnevalesco, e io la guido senza sforzo nel pieno della festa. Mia madre, famosa nella scuola per la sua disciplina da siciliana, balla sfrenatamente, ed è una novità per tutti. Impossibile ignorare la sua bellezza.

La notte sale sempre più in alto. Ci si comincia a scatenare. Carlton getta nuova musica sul giradischi – Janis Joplin, i Doors, i Dead. Il futuro brilla per tutti, carico di altre possibili serate esattamente come questa. Perfino nostro padre è costretto a ballare, e lo fa come un uccello senz’ali, tutto un agitare di braccia e di pancia. Tuttavia balla. Nostra madre gli manda un bacio.

Alla fine sonnecchio sul divano, beato per tutti i drink che ho bevuto. Sto sognando di volare quando nostra madre si avvicina e mi tocca una spalla. Sorrido alla sua faccia arrossata e radiosa.

“Dovresti essere a letto da ore,” dice, con tono carezzevole e materno. Annuisco. Non posso contestare questo fatto.

Continua a toccarmi la spalla. Ci metto un secondo o due per capire che in realtà mi sta ordinando di lasciare la festa per andare a dormire. “No...” le dico.

“Sì,” mi sorride.

“No...” dico dolcemente, sperimentando la possibilità che mi dia una risposta migliore. Questa nuova madre sa ballare e flirtare. Chissà cos’altro potrebbe permettere.

“Sì.” Il vellutato senso materno scompare dalla sua voce. Fa sul serio, sul serio come al solito. Mi tiro su e stavolta non ci sono scuse. Ho esattamente nove anni e sfuggo il momento di andare a letto come sfuggirei la morte.

Corro da Carlton per chiedergli protezione. Sta ridendo con la sua ragazza, e il sudore gli ha appiccicato sulla fronte un punto interrogativo di capelli. Gli piombo addosso con tanto impeto da farlo quasi cadere.

“Ehilà, Frisco,” dice. Mi solleva per le ascelle e mi fa fare un mezzo giro. Nostra madre mi strappa dalle sue mani e mi posa a terra, con una solida presa da contadina sulla mia nuca.

“Augura la buona notte, Bobby,” dice. E aggiunge, a beneficio della ragazza di Carlton: “Avrebbe dovuto essere a letto prima che cominciasse questa festa.”

No,” strillo. Mi contorco per liberarmi, ma nostra madre ha una stretta capace di schiacciare una noce.

La ragazza di Carlton scrolla i capelli e dice: “Buona notte, piccolo.” Sorride col sorriso della vincitrice. Spiana la ciocca ribelle sulla fronte di Carlton.

“No,” grido di nuovo. Per qualcosa che riguarda il modo in cui gli tocca i capelli. Nostra madre chiama nostro padre, che arriva e mi prende in braccio e s’avvia con me fuori della stanza, tenendomi come quella bomba vivente che sono, in effetti. Prima di andarmene guardo Carlton negli occhi. Lui alza le spalle dice: “Notte, amico.” Nostro padre mi porta fuori. Non la prendo bene. Mi allontano agitando le braccia, troppo furioso per piangere, sgocciolando un viscido filo di saliva da bambino cattivo.

Più tardi giaccio sul mio lettino e ascolto il ronzio della musica nelle molle. La vita si sta aprendo proprio qui in casa nostra. Le persone stanno cambiando. Domani nessuno sarà più lo stesso. Come possono impedirmi di assistere a questo? Sogno vendette contro i nostri genitori e, più feroci ancora, contro Carlton. Lui avrebbe potuto salvarmi. Si sarebbe potuto schierare con me contro di loro. Non posso perdonargli quell’alzata di spalle, quel “Notte, amico” con uno sguardo mite. Si è unito agli adulti. Si è fatto più grande e ha rimpicciolito me. Mentre i Doors martellano Strange Day, spero che gli capiti qualcosa di orribile.

Verso mezzanotte quello stupido di Frank annuncia di aver visto un disco volante sopra il cortile dietro casa. Posso udire la sua voce profonda ed eccitata fin nella mia camera. Dice che è come una nuvola luminosa intermittente. Sento che metà degli invitati cerca di uscire dalla porta scorrevole in uno sbraitante crocchio disorganizzato. A questo punto sono tutti così fuori di testa che un disco volante sarebbe proprio ciò che si aspettano. Quell’eccesso di festeggiamenti doveva logicamente attrarre una gioiosa risposta da oltre le stelle.

Scendo dal letto e avanzo furtivo in corridoio. Non mi lascerei sfuggire a nessun costo la visita di un alieno, neanche a costo della collera di nostra madre o della delusione di nostro padre. Mi fermo in fondo al corridoio, imbarazzato nel trovarmi in pigiama. Se sono davvero degli alieni, mi scambieranno per il membro più umile della famiglia. Mentre sono incerto se tornare o no in camera a cambiarmi, la gente comincia a rientrare, parlando di un inganno della nebbia e di un aeroplano. E ricomincia a ballare.

Carlton deve aver scavalcato la staccionata del cortile, con l’idea di trovarsi là da solo nell’eventualità che decidessero di portarsi via qualcuno. Qualche sera dopo, uscirò e andrò anch’io lì dove quasi sicuramente era stato lui. Sull’altro lato del canalone, ora un fiume gonfio di neve sciolta, il cimitero brillerà come una città perduta. Ci sarà luna piena. Io aspetterò lì, come deve aver aspettato Carlton, ipnotizzato dalla luce argentea sulle lapidi, dall’angelo bianco che alza le braccia oltre il fiume.

Secondo i nostri genitori, il mistero è come mai fosse tornato a casa di corsa. Qualcosa nel cimitero doveva averlo spaventato e forse aveva sentito il bisogno di rompere l’incantesimo, ma secondo me è più probabile che quando si riprese non vedeva l’ora di tornare alla musica e alla gente, al disordine rumoroso della vita che continua.

Qualcuno ha chiuso la porta a vetri. La ragazza di Carlton guarda pigramente fuori, sfiorandone la base col proprio riflesso. Guardo anch’io. Carlton sta correndo verso casa. Esito. Poi penso che potrebbe sbattere col naso. Sarebbe un bello scherzo. Lascio che continui ad avvicinarsi. La sua ragazza lo vede attraverso il proprio riflesso e fa per lanciargli un grido d’avvertimento nel momento stesso in cui Carlton cozza contro il vetro.

È un’esplosione. Triangoli di vetro svolazzano nella stanza. Penso che per lui debba essere stato più sorprendente che doloroso, come finire in acqua da grande altezza. Si ferma, battendo le palpebre per un momento. I partecipanti alla festa si bloccano, guardano, cercano di capire cosa stia succedendo. Bob Dylan canta Just Like a Woman. Carlton alza curiosamente un braccio per tirar via una scheggia di vetro che gli si è conficcata nel collo, ed è allora che comincia a uscirne il sangue. Sgorga da lui a fiotti. Nostra madre urla. Carlton avanza fino a gettarsi fra le braccia della sua ragazza e i due cadono insieme. Nostra madre si lascia cadere su di lui e sulla ragazza. La gente grida consigli. Non sollevatelo. Chiamate un’ambulanza. Io guardo dal corridoio. Il sangue di Carlton zampilla, inzuppa il tappeto, inzacchera i vestiti degli invitati. Nostra madre e nostro padre cercano di tamponare le ferite con le mani, ma il sangue continua a erompere fra le loro dita. Carlton sembra soprattutto perplesso, come se non seguisse bene il corso degli eventi. “Va tutto bene,” gli dice nostro padre, cercando di fermare il sangue. “Va tutto bene, basta che non ti muovi, va tutto bene.” Carlton annuisce e stringe la mano di nostro padre. Nei suoi occhi c’è ora una luce di stupore. Nostra madre urla: “Non c’è nessuno che faccia qualcosa?” Ciò che fuoriesce da Carlton diventa sempre più scuro, quasi nero. Io guardo. Nostro padre cerca di afferrargli il collo, mentre lui tenta ancora di prendergli una mano. I capelli di nostra madre sono impastati di sangue. Le scorre sul viso. La ragazza di Carlton se lo stringe al seno, gli accarezza la testa, gli sussurra all’orecchio.

È già morto quando arriva l’ambulanza. Puoi vedere la vita che defluisce da lui. Quando il suo viso s’affloscia, nostra madre geme. Una parte di lei svolazza gemendo per la casa, dove gemerà e infunerà per sempre. Sento nostra madre che uscendo passa attraverso di me. Copre il corpo di Carlton con il proprio.

È sepolto nel cimitero dietro casa. Sono passati anni – stiamo vivendo nel futuro, che si è rivelato diverso da quello che avevamo progettato. Nostra madre si è fatta una sua vita separata dietro la porta della camera degli ospiti. Nostro padre bofonchia i suoi saluti ogni volta che lei passa davanti alla porta.

Una notte d’aprile, quasi esattamente un anno dopo la disgrazia di Carlton, a mezzanotte passata sento uno scalpiccio soffocato sul pavimento del soggiorno. Corro fuori con impazienza, pensando ai fantasmi, ma trovo soltanto nostro padre in un pigiama color tarma. Guarda titubante l’aria che ha davanti.

“Ciao papà,” dico dalla soglia.

Volge lo sguardo nella mia direzione. “Sì?”

“Sono io. Bobby.”

“Oh, Bobby,” dice. “Cosa fai in piedi, giovanotto?”

“Niente,” gli dico. “Papà?”

“Sì, figliolo.”

“Forse faresti meglio a tornare a letto. Okay?”

“Forse,” dice. “Ero uscito solo per bere un bicchiere d’acqua, ma devo essermi perso nel buio. Sì, forse sarebbe meglio.”

Lo prendo per mano e lo conduco in camera sua. La pendola batte un quarto.

“Scusami,” dice nostro padre.

Lo metto a letto. “Ecco,” dico. “Okay?”

“Perfetto. Non potrei sperare di meglio.”

“Okay. Buona notte.”

“Buona notte. Bobby?”

“Uh-huh?”

“Perché non resti un momento?” dice. “Potremmo fare una chiacchierata, tu e io. Cosa ne dici?”

“Okay,” dico. Mi siedo sul bordo del materasso. L’orologio sul tavolino da notte ticchetta i secondi.

Sento il raschio sordo del suo respiro. Intorno a casa nostra, stride e ronza la notte dell’Ohio. Il piccolo dito grigio della lapide di Carlton sporge in mezzo agli altri, sotto i bianchi occhi inespressivi dell’angelo. Sopra di noi sfavillano aerei e satelliti. Perfino a quest’ora c’è gente che vola verso New York e la California, per affrontare esistenze di rischi e d’invenzioni.

Rimango finché nostro padre non è faticosamente pervenuto a un borbottante sonno.

Un mese prima la ragazza di Carlton si era trasferita a Denver con la famiglia. Non ho mai saputo cosa gli avesse sussurrato. Benché avesse ammirevolmente evitato di perdere la testa durante l’incidente, finì poi per perderla. Al funerale pianse così forte che venne portata via dalla madre – una sua versione più anziana, coi capelli rossi. Cominciò a vedere uno psichiatra tre volte la settimana. Tutti, compresi i miei genitori, parlavano di quanto fosse stata dura per lei tenere fra le braccia un ragazzo morente a quell’età. Io le sono grato per aver stretto a sé mio fratello mentre moriva, ma mai una volta l’ho udita accennare al fatto che, sebbene fosse passata per una terribile esperienza, era ancora viva e poteva andare in giro. In fin dei conti, cercando d’avvertirlo, aveva protetto se stessa. Posso capire le complessità del suo dolore. Ma fin quando rimase a Cleveland non riuscii mai a guardarla in faccia, né a parlarle delle ferite che aveva subito. E non posso neppure scrivere il suo nome.