Bobby

Era mezzanotte passata. Le nuvole rotolate via nel loro lungo viaggio dal cuore del continente all’Atlantico. La luna piena brillava generosamente dalla finestra della nostra camera. Attraversando il pavimento sbiancato dalla luce, mi fermai per dare un’occhiata a Jonathan e a Clare, addormentati all’ombra della lampada. Lei, come al solito, russava leggermente, soffiando piccole bolle di fiato. Jonathan giaceva con la testa leggermente scostata, come se stesse sognando un rumore puro e non volesse disturbare il suo sonno.

Percorsi il corridoio e bussai alla porta, ma non aspettai una risposta. La camera era sul lato della casa non illuminato dalla luna – e manteneva un’oscurità più profonda. Mi fermai un momento sulla soglia, poi bisbigliai: “Erich?”

“Sì?”

“Stai dormendo?”

“No. Be’, no. Non proprio.”

“Volevo solo sapere se stavi comodo.”

“Sì, certo. È un buon letto.”

La sua testa era una macchia scura in movimento sul bordo della coloratissima trapunta. Colsi qualche barlume: gli occhi, la fronte a cupola. La stanza non odorava di malattia.

“Era il vecchio letto di Clare. Cioè, mio e di Clare, per qualche tempo. Adesso è il letto di Jonathan, e noi, ecco, abbiamo quell’altro.”

“È un buon letto. Non troppo morbido. Avevo sempre pensato che in campagna i letti fossero tutti morbidi.”

“Qualche volta qui si intrufola un topo. Continuiamo a dire che dovremmo mettere una trappola, ma non lo facciamo mai. Non so se siamo abbastanza meticolosi, capisci, per vivere in campagna.”

“I topi da queste parti sono probabilmente più puliti. Probabilmente assomigliano di più a dei veri animali.”

Ci fu un silenzio. Un attimo dopo udimmo il topo che raspava all’interno del muro. Ridemmo.

“Hai qualcuno a New York che si occupi un po’ di te?”

“Ci sono i volontari. E se dovessi stare proprio male, potrei telefonare a qualche associazione.”

“E la tua famiglia?”

“La mia famiglia mi ha cancellato.”

“Non ti aiuteranno?” domandai.

“Neanche mi parlano. Come se non esistessi. Mia sorella mi telefona, ma non vorrebbe mai trovarsi in una stanza con me. Crede che possa contagiare i suoi bambini.”

“Hai ancora il tuo lavoro?” domandai.

“No. Mi hanno licenziato qualche settimana fa, dopo che ero stato all’ospedale con la polmonite.”

“E i tuoi amici?

“Alcuni sono morti nell’ultimo anno. Se ne sono andati così, tre persone in meno di sei mesi. Quello che ho sempre considerato il mio migliore amico è più malato di me, è in ospedale. Non riconosce nessuno, a parte nelle giornate molto molto buone.”

“Sei spaventato?”

“Tu cosa pensi?

“Be’, lo sarei anch’io.”

Sospirò. “Ma certe volte non lo sono. È una specie di va’ e vieni. Ma adesso ogni minuto è differente. Anche quando non sono spaventato, le cose sono differenti. Sento – oh, non so spiegarlo. È differente. Una volta, vedi, mi capitava di perder il contatto con me stesso. Come se non avessi un corpo, come se fossi soltanto, non so, come se fossi la strada su cui sto camminando. Ora non perdo mai il contatto.”

“Uh-huh.”

“E, sai,” disse lui. “Se mai mi capitava di pensarci, mi immaginavo vecchio e senza rimpianti. Capisci? Mi immaginavo come una specie di vecchio famoso che, a letto con tanta gente intorno, dice: ‘Non ho rimpianti.’ È un po’ stupido, no? È molto stupido.”

“Che cosa rimpiangi esattamente?”

“Oh, be’. In realtà niente, suppongo. Voglio dire che pensavo di fare qualcosa di più della mia vita. Pensavo di avere più tempo. E, come ti ho già detto, pensavo che sarei diventato famoso e mi sarei ritirato in un posto come questo.”

“Uh-uh. Be’, questo non piacerebbe a tutti,” dissi. “C’è soltanto un cinema. E neanche un locale dove si possa ascoltare della buona musica.”

Rise, un suono profondo con qualcosa di stridulo, come quando si gratta una patata. Sentivi in quella risata la sua malattia. “Io a New York non facevo praticamente mai queste cose. Mi limitavo a... Si potrebbe forse dire che mettevo a repentaglio la mia vita. Forse si potrebbe dire così. Pensavo che in qualche modo le cose si sarebbero risolte. Pensavo che bastasse lavorare sodo e avere fede.”

Mi avvicinai al letto. Rimasi in piedi accanto a lui. Il topo continuava a raspare all’interno del muro. “Uhm, ehi, che ne diresti se venissi a letto con te per un po’?” dissi.

“Cosa?”

“Non mi sembra giusto che tu debba star qui da solo. Che ne diresti se venissi con te sotto le coperte per un po’ di tempo?”

“Non ho niente addosso.”

“Va bene lo stesso.”

“Che ti prende?” disse. “Vuoi venire a letto con me perché sono malato?”

“No.”

“Avresti voluto farlo se non lo fossi?”

“Non so.”

“Oh, per l’amor di Dio. Vuoi andartene da qui, per piacere?”

“Senti, mi dispiace. Non intendevo offenderti.”

“Lo so. Ma vattene. Per favore.”

“Be’. Okay.”

Lasciai la stanza e mi chiusi la porta alle spalle. Mi sentivo le braccia e le gambe pesanti, e un greve senso di delusione e un indicibile imbarazzo. Non avevo voluto violare la sua intimità.

Volevo solo tenerlo abbracciato per un po’, guidare la sua testa verso il mio petto. Volevo solo stringerlo a me mentre il suo corpo viveva la dura fatica di arrendersi al passato.