In attesa che ci portassero quanto avevamo ordinato, tanto per ammazzare il tempo decisi di dare un'occhiata a una copia di «Sports Nippon» che qualcuno aveva lasciato sul sedile accanto al mio. Non pensavo che leggere un giornale sportivo mi servisse a molto, ma era meglio di niente. La data era domenica 2 ottobre. Le previsioni del tempo non c'erano, ma sulla pagina delle corse ippiche trovai dettagliate considerazioni sulla pioggia. Verso sera sarebbe cessata, diceva l'articolo, ma ormai le condizioni del terreno erano quelle che erano e per i cavalli sarebbe stata una bella fatica. Allo stadio Jingu era stata giocata l'ultima partita Yacult contro Chunichi, conclusasi 6 a 2 per i secondi. Nessuno sapeva che proprio sotto lo stadio si trovava il grande covo degli Invisibili.
La ragazza mi disse che voleva vedere la pagina che aveva davanti agli occhi, così gliela porsi. Le interessava un articolo dal titolo Bere lo sperma fa bene alla pelle? Sotto c'era un altro articolo, Mi hanno messa in gabbia e violentata. Come si faceva a violentare una donna messa in una gabbia? Un sistema adeguato doveva esserci, ma chissà che faticaccia! Io non ne sarei stato certo capace.
- A lei piace che bevano il suo sperma? - mi chiese la ragazza.
- Mi è indifferente, - risposi.
- Qui però c'è scritto che alla maggior parte degli uomini piace che la donna beva lo sperma durante una fellatio. In questo modo l'uomo è sicuro di venire completamente accettato dalla donna. È una cerimonia e un riconoscimento.
- Non capisco cosa voglia dire.
- Qualcuna glielo ha mai fatto?
- Non mi ricordo. Forse no.
- Mmh... - fece lei, e riprese a leggere per conto suo l'articolo.
Io lessi i risultati della Central League e della Pacific League.
Ci portarono due tazze di brodo e il sandwich, che dividemmo a metà. Aveva sapore di pane tostato, prosciutto e rosso d'uovo. Con un tovagliolino di carta mi pulii la bocca dalle briciole e le tracce d'uovo, poi feci un altro sospiro. Un sospiro profondissimo, il concentrato di tutti quelli che avevo in corpo. Non se ne fanno tanti, in una vita, di sospiri così.
Usciti dal locale, io cercai di fermare un taxi. Sporchi compravamo, dovemmo aspettare parecchio prima che un tassista ci facesse la grazia di farci salire. Era un ragazzo dai capelli lunghi, che aveva posato sul sedile accanto al suo un grosso stereo portatile e ascoltava una cassetta dei Police. Gli urlai il mio indirizzo e mi lasciai andare contro il sedile.
- Perché siete così sporchi? - chiese lui guardando nel retrovisore.
- Abbiamo avuto una lite furibonda nella pioggia, - rispose la ragazza.
- Wow, grandioso! - fece il tassista. - Vedeste come vi siete conciati! Lei, signore, ha un segno tremendo sul collo.
- Lo so, - dissi.
- A me però non importa, non ci faccio caso, io, a queste cose.
- Come mai? - chiese la ragazza.
- Perché faccio salire solo i clienti giovani, quelli che gli piace il rock. Non me ne frega niente se sono sporchi o puliti. A me basta ascoltare la musica che voglio. A voi piacciono i Police?
- Sì, - risposi, tanto per farlo contento.
- All'agenzia dicono che non dobbiamo mettere musica così. Solo canzoni giapponesi, quella roba che danno alla radio. Ma neanche per scherzo! Matchi, Matsuda Seiko: non la sopporto quella schifezza. I Police sono il massimo! Potrei ascoltarli tutto il giorno. Anche il reggae mi piace. A lei, signore, piace il reggae?
- Sì, non è male, - dissi.
Finita la cassetta dei Police, il tassista ci fece ascoltare una registrazione live di Bob Marley. Il ripiano del cruscotto era ingombro di cassette. Io ero stanco, avevo freddo, mi sembrava di andare a pezzi dal sonno, e non ero certo in condizioni di apprezzare la musica. Ero già contento che il tassista ci avesse fatto salire. Da dietro lo vedevo muovere le spalle al ritmo del reggae, le mani sul volante.
Quando la vettura si fermò davanti al mio palazzo, pagai e gli diedi mille yen di mancia.
- Tenga, si compri una cassetta, - gli dissi.
- Oh, grazie! - fece lui. - Magari ci incontriamo ancora.
- Può darsi.
- Anche se tra dieci o quindici anni tutti i tassisti ascolteranno musica rock, sul lavoro. Non crede? Sarebbe magnifico, no?
- Sì, magnifico, - risposi. Ma pensavo che le sue previsioni fossero sbagliate. Da quando era morto Jim Morrison, più di dieci anni prima, non mi era mai capitata la fortuna di ascoltare in un taxi la musica dei Doors. Al mondo ci sono cose che cambiano e cose che non cambiano. E quelle che non cambiano restano invariate per sempre. La musica nei taxi è una di quelle. Le radio dei taxi trasmettono sempre canzoni giapponesi, talk show idioti, partite di baseball. Gli altoparlanti dei grandi magazzini ci sollazzano con la Raymond Lefebvre Orchestra, nelle birrerie suonano sempre qualche polka, e nei centri commerciali alla fine dell'anno si ascoltano solo canzoni di Natale.
Salimmo con l'ascensore al mio appartamento. La porta era sempre fuori dai cardini, ma qualcuno l'aveva appoggiata al suo posto contro la soglia, in modo che a prima vista sembrasse chiusa. Non sapevo a chi dire grazie, ma di sicuro l'operazione aveva richiesto una bella forza. Con l'impressione di essere un uomo di Cromagnon che apra la sua caverna, feci scivolare il battente di metallo e lasciai passare la ragazza. Poi dall'interno spinsi di nuovo la porta al suo posto, affinché non ci vedessero da fuori, e per velleità misi la catena.
L'appartamento era tutto pulito e ordinato. Al punto che per un attimo mi chiesi se la memoria non mi ingannasse: forse non era vero che il giorno prima me l'avevano saccheggiato.
I mobili erano stati rimessi nella posizione giusta, i piatti e le stoviglie che quell'energumeno aveva buttato sul pavimento erano di nuovo in ordine al loro posto, cocci e pezzi di vetro erano scomparsi, i libri e i dischi erano tornati nei loro scaffali, i vestiti erano appesi nell'armadio. La cucina, il bagno, la camera da letto luccicavano, il pavimento era immacolato.
A guardar bene, però, restavano delle tracce del saccheggio.
Il tubo catodico del televisore, frantumato, si apriva come un tunnel del tempo distrutto. Il frigorifero non funzionava ed era completamente vuoto. I vestiti lacerati erano stati tutti buttati via, restavano soltanto pochi indumenti, da riempire una piccola valigia. Nella credenza c'era solo parte dei piatti e dei bicchieri. L'orologio a muro era fermo, e non c'era un apparecchio elettrico che funzionasse. Qualcuno aveva selezionato e riordinato le cose ancora servibili. Grazie a costui il mio appartamento sembrava molto meno ingombro di prima. Perfino più vasto, ora che non c'era più nulla di superfluo. Probabilmente mancavano anche alcune cose indispensabili, ma a quel punto era difficile giudicare cosa mi fosse necessario.
Andai in bagno, ispezionai il boiler a gas, e dopo aver constatato che non era stato distrutto riempii la vasca d'acqua calda. Il sapone, il rasoio, lo spazzolino da denti, l'asciugamano, lo shampoo non erano stati toccati, e anche la doccia funzionava. L'accappatoio era sano e salvo. Mi dissi che pure lì dovevano mancare parecchi oggetti, ma non riuscivo a ricordarmi quali.
Mentre io ispezionavo la sala da bagno e riempivo la vasca, la ragazza grassa si era buttata sul letto e stava leggendo Gli Sciuani di Balzac.
- Pare che anche in Francia ci fossero delle lontre di fiume, - fece.
- Già, pare.
- Pensa che ce ne siano ancora adesso?
- Non ne ho la più pallida idea, - risposi. Cosa ne sapevo io?
Mi sedetti su una sedia in cucina a fare congetture: chi mai poteva essere stato a pulire il mio appartamento, che prima era ridotto a un cumulo di macerie? Chi, e per quale scopo, si era dato la pena di rimetterlo in ordine da un capo all'altro? Forse i due compari mandati dai Semiotici, oppure qualcuno appartenente al Sistema. Non riuscivo a immaginare quali criteri regolassero i loro pensieri e le loro azioni. Ad ogni modo ero molto grato a quel misterioso qualcuno. Tornare in una casa pulita era stata davvero una bella sensazione.
Quando la vasca fu piena, dissi alla ragazza di farsi pure il bagno, io l'avrei fatto dopo. Lei mise un segno alla pagina che stava leggendo, scese dal letto e si spogliò con disinvoltura in cucina. In modo tanto naturale che io rimasi seduto a guardarla senza scompormi. Il suo corpo nudo era strano, a metà fra quello di una donna adulta e quello di una bambina. La carne bianca e morbida era distribuita uniformemente, come gelatina cosparsa su una persona di corporatura normale. Era un modo di essere grassa tanto ben equilibrato che se non lo si teneva presente si finiva col dimenticarlo. Braccia, cosce, collo, pancia: tutto era prodigiosamente rigonfio e liscio, come in una balena. In confronto alla mole globale, i seni non erano tanto grossi ma appena formati. Anche il sedere era bello alto.
- Non è male, vero, il mio corpo? - chiese lei.
- No, non è affatto male, - risposi.
- Ho fatto una bella fatica a metter su tutta questa ciccia. Ho dovuto mangiare un sacco di riso, dolci, roba grassa...
Io annuii in silenzio.
Mentre lei faceva il bagno, mi tolsi la camicia e i pantaloni bagnati, mi vestii con quello che trovai e mi buttai sul letto a riflettere: come potevo passare le prossime ore? Il mio orologio segnava quasi le undici e mezza, me ne restavano solo poco più di ventiquattro. Dovevo assolutamente decidere cosa fare. Non potevo limitarmi a seguire il corso degli eventi, lasciare al caso le ultime ventiquattro ore della mia vita. Fuori la pioggia non accennava a smettere. Una pioggerella sottile e quieta che non si vedeva quasi. Per rendersi conto che pioveva bisognava guardare le gocce che scorrevano lungo il telaio della finestra. Ogni tanto, quando passava una macchina, si sentiva sotto le gomme lo sciabordio del sottile velo d'acqua che copriva la strada. Mi arrivava anche la voce di alcuni bambini che chiamavano qualcuno. In bagno la ragazza cantava una canzone dalla melodia poco orecchiabile. Doveva averla inventata lei.
A stare sdraiato sul letto mi stava venendo un sonno tremendo, ma non era il caso di addormentarmi. Avrei sprecato inutilmente, senza fare nulla, parecchie ore.
Dovevo restare sveglio e darmi una mossa. Per fare cosa? Non ne avevo la minima idea. Tolsi la guarnizione che copriva il bordo del paralume della lampada sul comodino e ci giocherellai un po', poi la rimisi al suo posto. In ogni caso, non potevo restare in casa. Cosa ci guadagnavo a starmene lì con le mani in mano? Se fossi uscito, magari mi sarebbe venuta qualche ispirazione. Ci avrei pensato una volta fuori.
A pensarci bene, era una sensazione strana avere soltanto ventiquattro ore di vita. C'era di sicuro una montagna di cose che avrei dovuto fare, ma in pratica non me ne veniva in mente nemmeno una. Di nuovo tolsi la gomma della lampada e me l'arrotolai intorno al dito. Poi mi ricordai del poster di Francoforte attaccato a una parete del supermercato. Col fiume, il ponte, i gabbiani che galleggiavano sull'acqua. Sembrava una città piacevole. Andare a passare a Francoforte le ultime ore della mia vita non era una cattiva idea. Ma ormai non mi era possibile arrivarci in meno di ventiquattro ore, a parte il fatto che passarne più di dieci in aereo, dove mi avrebbero fatto mangiare delle schifezze, era escluso. E poi, una volta lì, forse avrei trovato la realtà molto meno bella del paesaggio del poster. Volevo perlomeno evitare di finire la mia vita con una delusione. Il che eliminava dal programma qualunque viaggio. Spostarsi richiedeva tempo, e nella maggior parte dei casi la realtà deludeva.
In conclusione, tutto quello che mi venne in mente fu una buona cena e una bella bevuta con una ragazza. Non c'era nient'altro che desiderassi davvero. Sfogliai la mia agenda alla ricerca del numero della biblioteca, lo composi e chiesi della ragazza alla reception.
- Pronto? - fece lei quando le passarono la linea.
- Volevo ringraziarti per i libri sugli unicorni, - dissi.
- Grazie a te per la cena.
- Ti andrebbe di cenare di nuovo con me stasera?
- Cenare? - ripetè lei. - Be', stasera ho il mio gruppo di ricerca.
- Il tuo gruppo di ricerca?
- Sì, sull'inquinamento dei fiumi. I pesci che vengono sterminati dai detersivi, quella roba lì. Ci lavoriamo in parecchi. Stasera tocca a me fare una relazione.
- Sembra una ricerca molto utile.
- Sì, infatti. Quindi non potremmo rimandare a domani? Domani è lunedì, la biblioteca è chiusa, abbiamo tutto il tempo che vogliamo.
- Domani pomeriggio non ci sarò più. Adesso per telefono non posso spiegarti bene, ma devo partire, per un po' starò via.
- Starai via? Cioè vai a fare un viaggio? - chiese la ragazza.
- Più o meno.
- Scusami un momento, per favore.
Sembrava che stesse parlando con qualche lettore che le chiedeva un'informazione. Attraverso la cornetta percepivo l'atmosfera della hall della biblioteca la domenica. Una bambina che parlava forte mentre il padre cercava di farla stare quieta, il rumore della tastiera di un computer. Il mondo sembrava funzionare regolarmente. La gente prendeva in prestito libri nelle biblioteche, i controllori della metropolitana facevano attenzione a chi viaggiava senza biglietto, i cavalli da corsa trottavano nella pioggia.
- Sulla ricostruzione in altro luogo delle vecchie case coloniche... - stava spiegando la ragazza a qualcuno, - scaffale F-5, tre volumi. Se vuole consultarli, prego, si accomodi pure.
Sentii la persona in questione rispondere qualcosa.
- Scusami, - fece la ragazza tornando al telefono. - Allora d'accordo, va bene. Vuol dire che salto il gruppo di ricerca. Tutti protesteranno, ma pazienza.
- Mi dispiace.
- Non fa niente. Tanto da queste parti nei fiumi non c'è più nemmeno un pesce: anche se la mia relazione tarda di una settimana non sarà un guaio per nessuno.
- Sì, forse hai ragione... - dissi.
- Ceniamo da te?
- No, il mio appartamento è inutilizzabile. Il frigo non funziona, e non ho quasi più piatti. Cucinare è impossibile.
- Lo so.
- Come, lo sai?
- Lo so. Però te l'ho rimesso tutto in ordine, no?
- Sei stata tu?
- Sì. Ho fatto male? Stamattina sono passata per portarti un altro libro e ho trovato la porta sfondata. Quando ho visto com'era ridotto l'appartamento ho fatto un po' di pulizia. Sono arrivata un po' tardi sul lavoro, ma volevo ringraziarti per la cena dell'altra volta. Ti ha dato fastidio?
- Figurati! - dissi. - Anzi, grazie davvero!
- Be', allora mi aspetti davanti alla biblioteca alle sei e dieci? La domenica chiudiamo alle sei.
- D'accordo. E grazie ancora.
- Di niente, - fece lei, poi riattaccò.
Mentre cercavo qualcosa da mettermi addosso per andare a cena, la ragazza grassa uscì dal bagno. Le porsi un asciugamano e un accappatoio. Lei li prese e tenendoli in mano rimase per qualche secondo nuda davanti a me. I capelli bagnati, dai quali spuntavano le orecchie appuntite, le stavano incollati alla fronte e alle guance. Ai lobi portava i soliti orecchini d'oro.
- Tieni sempre gli orecchini quando fai il bagno? - le chiesi.
- Sì, certo. Gliel'ho già detto, no? - rispose lei. - Non c'è pericolo che li perda, sono fatti apposta. Le piacciono questi orecchini?
- Sì, molto.
Nel bagno erano appese ad asciugare la sua gonna, la camicetta e la biancheria. Rosa il reggiseno, rosa le mutandine, rosa la gonna e rosa più chiaro la camicetta. Mi bastò guardare quella roba sul tubo della doccia perché mi venissero delle fitte alle tempie. Ho sempre detestato vedere biancheria e collant che asciugano nel bagno. Non chiedetemi il perché, la ragione non la conosco, comunque è così.
Mi lavai in fretta da capo a piedi, capelli e denti inclusi, e mi feci la barba. Poi uscii dal bagno, mi asciugai, mi misi le mutande e i pantaloni. La ferita alla pancia, nonostante tutto quello che avevo passato, mi faceva meno male del giorno prima, e fino al momento di entrare nell'acqua non me n'ero nemmeno ricordato. La ragazza grassa era seduta sul letto, e mentre si asciugava i capelli col phon continuava a leggere Balzac. La pioggia fuori dalla finestra non accennava a smettere. Nel bagno c'era della biancheria ad asciugare, sul letto una ragazza che si asciugava i capelli leggendo un libro, fuori pioveva. Mi sembrava di essere tornato indietro di parecchi anni, alla mia vita matrimoniale.
- Vuole il phon? - chiese lei.
- No, - risposi. Quell'apparecchio l'aveva lasciato mia moglie quando se n'era andata di casa. Io non ne avevo bisogno, portavo i capelli molto corti.
Mi sedetti sul letto di fianco alla ragazza, appoggiai la testa alla spalliera e chiusi gli occhi. Nel buio vedevo tanti colori apparire e sparire. A pensarci bene, negli ultimi giorni non avevo quasi dormito. Ogni volta che cercavo di farlo arrivava qualcuno che mi svegliava a bastonate. Tenendo le palpebre abbassate sentivo il sonno trascinarmi in un mondo di tenebre profonde. Dal fondo dell'oscurità una mano si protendeva per attirarmi lì dentro, come gli Invisibili.
Aprii gli occhi e mi strofinai la faccia con entrambe le mani. Essendo rimasto per tanto tempo senza lavarmi né farmi la barba, la mia pelle era secca e dura come cuoio spesso. Mi sembrava di strofinare la faccia di un altro. Il punto dove le sanguisughe mi avevano succhiato il sangue mi bruciava. Dovevano essere state almeno due, un vero salasso.
- Senta, - disse la ragazza posando il libro accanto a sé. - Riguardo al suo sperma... davvero non vuole che lo beva?
- No, non ora.
- In questo momento non le dice niente?
- Infatti.
- Non ha nemmeno voglia di fare l'amore con me?
- Ora no.
- Non le piaccio perché sono grassa?
- Non è quello. Hai un corpo molto carino.
- Allora perché?
- Non lo so. Non so perché, ma sento che fare l'amore con te adesso non è la cosa giusta.
- C'è qualche ragione morale? Va contro la sua filosofia di vita?
- Filosofia di vita, - ripetei. Parole che suonavano strane. Ci pensai un po' su guardando il soffitto. - No, non è così, - dissi. - È qualcosa di diverso. Una sorta di istinto o sensazione, una roba del genere. Oppure ha a che vedere con il fatto che la mia memoria va all'incontrarlo. Non so come spiegartelo. In realtà ora ho una voglia pazza di fare l'amore con te. Quel qualcosa però me l'impedisce. Non è il momento.
Lei appoggiò il gomito al cuscino e mi guardò fisso in faccia.
- Non sta mentendo?
- Non mento su queste cose.
- Allora lo pensa davvero?
- Lo sento.
- Me lo può provare?
- Provare? - ripetei.
- C'è qualcosa che mi può convincere che adesso lei ha voglia di fare l'amore con me?
- Sto avendo un'erezione.
- Mi faccia vedere.
Esitai un po', poi abbassai i pantaloni e le feci vedere. Ero troppo stanco per discutere, e sarei rimasto in questo mondo ancora per poco. Mostrare il pene in piena erezione a una ragazza di diciassette anni non avrebbe causato tragedie sociali.
- Mmh... - fece lei guardando il mio pene aumentato di volume. - Posso toccarlo?
- No! - dissi. - Ti basta come prova?
- Mmh... Sì, più o meno.
Mi tirai su i pantaloni ricoprendomi il pene. Sotto la finestra sentii passare un grosso camion da trasporto.
- Quando pensi di tornare da tuo nonno? - chiesi.
- Prima voglio dormire un po' e far asciugare la roba lavata, - rispose la ragazza. - Verso sera l'acqua nel sotterraneo si sarà riassorbita, passerò di nuovo dalla metropolitana.
- Con questo tempo, non saranno asciutti prima di domani i tuoi vestiti.
- Crede? Allora cosa dovrei fare?
- Qui vicino c'è un servizio di lavanderia a gettoni. Potresti farla asciugare lì.
- E cosa mi metto per uscire?
Mi spremetti le meningi alla ricerca di una buona idea, ma non mi venne in mente nulla. L'unica soluzione era che andassi io stesso alla lavanderia e buttassi i suoi vestiti in un essiccatore. Andai in bagno e ficcai tutto in una sacca di plastica della Lufthansa. Poi scelsi tra i pochi vestiti intatti che mi restavano dei pantaloni verde oliva e una camicia azzurra sportiva. Infilai dei mocassini marroni. E fu così che sprecai insensatamente, su una squallida sedia d'alluminio di una lavanderia a gettoni, parte delle ultime, preziose ore che mi restavano da vivere. Il mio orologio segnava le dodici e diciassette.