24. La fine del mondo

 

 

 

Il piazzale delle ombre.

 

Dopo tre magnifiche giornate di sole, il tempo cambiò. Quella mattina il cielo era coperto da spesse nuvole scure, senza uno spiraglio, e i raggi di sole che riuscivano a forarle quando arrivavano sulla Terra avevano perso tutto il loro calore e il loro splendore. In quella luce fredda e grigia, gli alberi protendevano al cielo i rami nudi dai quali erano cadute tutte le foglie assumendo l'aspetto di crepe, e il fiume diffondeva nell'aria il rumore duro dell'acqua che stava per gelare. Poteva mettersi a nevicare da un momento all'altro, eppure la neve non arrivava.

- Non credo che oggi nevicherà, - mi spiegò il Colonnello. - Lo escluderei, a giudicare dalle nuvole.

Aprii la finestra e guardai di nuovo il cielo, ma non sapevo distinguere le nuvole che portavano neve da quelle che non la portavano.

 

Il Guardiano era seduto davanti a una grande stufa di ferro, si era tolto le scarpe e si stava scaldando i piedi. La stufa era uguale a quella della biblioteca, provvista di un ripiano superiore per posarvi un paio di pentole o di bollitori, e di un cassetto per togliere la cenere in basso. La parte anteriore formava una sorta di stipo, con una grossa maniglia di ferro. Il Guardiano, seduto su una sedia, vi aveva posato i piedi. A causa del vapore dell'acqua che bolliva e dell'odore del tabacco di cattiva qualità della sua pipa - probabilmente un surrogato - nella stanza l'aria era umida e pesante. Ovviamente si sentiva anche l'odore dei suoi piedi. Dietro alla sedia dov'era seduto c'era un grande tavolo di legno, sul quale erano disposte in fila asce e roncole, insieme alle pietre per affilarle. Tutti arnesi usati di frequente, tanto che le impugnature avevano cambiato colore.

- Vengo per una sciarpa, - dissi senza preamboli. - Ho troppo freddo al collo senza una sciarpa.

- Sì, non mi stupisce, - rispose il Guardiano in tono comprensivo. - È naturale.

- Nel ripostiglio in fondo alla biblioteca ci sono degli indumenti che nessuno usa. Pensavo di prenderne qualcuno.

- Ah, vuol dire quella roba. Si serva pure. Nel suo caso non ha nessuna importanza, può prendere una sciarpa, un cappotto, tutto quello che vuole.

- I proprietari non ci sono più?

- Non si preoccupi per i proprietari. Anche se esistono, non ci pensano più a quelle cose. A proposito, pare che lei stia cercando uno strumento musicale.

Annuii. Non gli si poteva nascondere nulla.

- In questa città il regolamento vuole che non ci siano strumenti musicali. In realtà però ne sono rimasti. Lei lavora con impegno, non c'è nulla di male se riesce a procurarsene uno. Vada alla Centrale Elettrica e chieda al custode. Può darsi che trovi qualcosa.

- Alla Centrale Elettrica? - chiesi meravigliato.

- Be', abbiamo una Centrale Elettrica, cosa crede? - disse l'uomo indicando la lampadina sopra la sua testa. - Da dove pensa che venga questa luce? Dagli alberi di mele?

Ridendo mi indicò sulla mappa la strada per arrivare alla Centrale. - Segua il sentiero a sud del fiume in senso opposto alla corrente. Dopo una trentina di minuti sulla sua destra vedrà un vecchio granaio. Senza più né tetto né porta. Lì svolti a destra, poi vada sempre diritto. Troverà una collina, e al di là della collina un bosco. La Centrale Elettrica si trova un cinquecento metri più avanti, nel bosco. Ha capito?

- Sì, penso di sì, - dissi. - Ma non è pericoloso andare nel bosco in inverno? Lo dicono tutti, e anch'io me la sono vista brutta una volta.

- Ah già, è vero. L'avevo completamente dimenticato. L'ho caricata sul carro e l'ho portata fino a casa sua, sulla collina. Adesso come sta?

- Adesso bene, grazie.

- Ha messo giudizio?

- Sì, penso di sì.

Il Guardiano sogghignò e cambiò la posizione dei piedi sulla maniglia. - Ottima cosa, mettere giudizio. Si diventa più prudenti. E diventando più prudenti si evita di farsi male. Il bravo taglialegna ha soltanto una cicatrice su di sé. Né una di più né una di meno. Una sola. Capisce cosa voglio dire?

Feci cenno di sì.

- Comunque non si deve preoccupare: la Centrale Elettrica si trova all'ingresso del bosco, la strada è una sola e non rischia di perdersi. Non ha bisogno di inoltrarsi molto. Il pericolo è in fondo al bosco e nelle vicinanze della muraglia. Se non si avventura fin lì, non rischia nulla. Però non vada oltre la Centrale, altrimenti le capiterà qualche altro guaio.

- Il custode della Centrale è una delle persone che vivono nei boschi?

- No, lui no. Non fa parte di quella gente, ma nemmeno degli abitanti della città. È una via di mezzo. Non può inoltrarsi nel bosco, ma nemmeno tornare in città. Non fa del male a nessuno, ma non ha il minimo coraggio.

- Come sono le persone che vivono nei boschi?

Il Guardiano piegò la testa da un lato e mi guardò in silenzio per qualche secondo.

- Come le ho detto all'inizio, lei può chiedermi tutto quello che vuole, ma sono io a decidere se rispondere o no.

Di nuovo feci un cenno di assenso.

- Va be'... Ad ogni modo non ho voglia di risponderle. A proposito, non diceva che voleva incontrare la sua ombra? Allora? La vuole vedere adesso? Ormai siamo in inverno, le ombre sono molto indebolite, può vederla senza pericolo.

- Non sta bene?

- Sì che sta bene. Sta benone. Ogni giorno la faccio uscire qualche ora a fare un po' di moto, e ha anche un bell'appetito. Semplicemente, d'inverno le giornate sono corte, fa freddo, e le ombre, tutte senza esclusione, sono giù di forma. Non è colpa di nessuno. È un fenomeno del tutto naturale. Né io né lei ci possiamo far nulla. Comunque, visto che le permetto di incontrarla, lo potrà chiedere direttamente a lei.

Il Guardiano prese il mazzo di chiavi appeso alla parete, se lo infilò nella tasca della giacca e sbadigliando si allacciò i solidi stivali di cuoio. Sembravano pesantissimi, e avevano la suola chiodata per camminare sulla neve.

Il posto dove viveva la mia ombra si trovava in una zona intermedia fra la città e il mondo esterno. Come io non potevo uscire nel mondo esterno, lei non poteva entrare nella città. L'unico posto dove potessero incontrarsi le persone che avevano perso la loro ombra e le ombre che avevano perso il loro padrone era quel «piazzale delle ombre». Si trovava dietro l'uscita posteriore della baracca del Guardiano. Di un piazzale aveva solo il nome, in realtà non era un luogo molto vasto. Recintato da una pesante inferriata, era appena un po' più grande del giardino di una casa media.

Il Guardiano estrasse di tasca il mazzo di chiavi, mi fece passare ed entrò anche lui. Il piazzale aveva una forma quadrata, e in fondo era chiuso dalla muraglia che circondava la città. In un angolo c'era un antico olmo, sotto il quale era sistemata una semplice panchina. L'olmo era di un colore biancastro e non capivo se fosse vivo o morto.

Addossata alla muraglia c'era una casupola di mattoni e di travi. Le finestre non avevano vetri, un pannello di legno libero sui cardini fungeva da porta. Non vedendo comignoli, ne dedussi che non c'era nemmeno un mezzo per riscaldarsi.

- È lì che dorme la sua ombra, - disse il Guardiano. - Non è terribile come sembra. C'è l'acqua corrente, e anche il gabinetto. La casa ha una cantina, e non lascia passare il vento. Be', non è un albergo, ma ripara dalle intemperie. Vuole entrare a dare un'occhiata?

- No, preferisco incontrarla qui, - risposi. L'aria viziata nella baracca del Guardiano mi aveva fatto venire il mal di testa. Preferivo stare all'aperto, anche se faceva un po' freddo.

- Va bene, allora vado a chiamarla, - disse il Guardiano entrando da solo nella casupola.

Mi tirai su il bavero del cappotto, mi sedetti sulla panchina sotto l'olmo, e battendo i piedi a terra aspettai che la mia ombra arrivasse. Il suolo era duro, qua e là c'era del ghiaccio formato dalla neve che si era sciolta. Solo nella striscia all'ombra della muraglia era rimasta intatta.

Dopo un po' il Guardiano uscì dalla casupola con la mia ombra. Attraversò il piazzale a grandi passi, come se frantumasse la terra con la suola chiodata dei suoi stivali. La mia ombra lo seguiva lentamente. Non era certo l'immagine della salute, come il Guardiano aveva voluto farmi credere. Aveva un viso emaciato, in cui gli occhi risaltavano penosamente.

- Be', vi lascio soli, - disse il Guardiano. - Avrete tante cose da dirvi. Parlate pure con calma. Ma non dilungatevi troppo. Se per qualche ragione doveste riappiccicarvi, per separarvi ci vorrebbe un sacco di tempo. E poi non vi servirebbe a nulla. Vi fareste soltanto del male. Capito?

Annuii per dire che lo sapevo. Probabilmente aveva ragione lui. Se ci fossimo rimessi insieme, ci avrebbero di nuovo separati. E avremmo dovuto ricominciare tutto da capo.

Guardammo in silenzio il Guardiano chiudere il cancello a chiave e sparire all'interno della sua baracca. Il rumore delle scarpe chiodate che mordevano il terreno si allontanò, finché la pesante porta di legno non si chiuse rumorosamente. Quando la figura del Guardiano sparì, la mia ombra si sedette di fianco a me. E come me prese a scavare un buco nella terra col tacco. Portava un pullover a maglie larghe, dei pantaloni da lavoro e i vecchi stivali che le avevo procurato io.

- Come stai? - chiesi.

- Come vuoi che stia? Fa un freddo cane, e il cibo fa schifo.

- Ho sentito che fai esercizio fisico ogni giorno.

- Esercizio fisico? - fece lei con aria sconcertata. - Ah, forse qui lo chiamano «esercizio fisico»! Ogni giorno il Guardiano mi fa uscire per aiutarlo a cremare le bestie. Devo caricare i cadaveri sul carro e portarli fuori dal cancello nel bosco di meli. Poi cospargerli d'olio e bruciarli. Prima però lui taglia loro la testa con l'accetta. L'hai vista anche tu, no, la sua magnifica collezione di strumenti a lama? Non è mica a posto, quello lì. Se potesse, andrebbe in giro a tagliare tutto quello che gli capita a tiro.

- Anche il Guardiano fa parte degli abitanti della città?

- No, lui no. Forse l'hanno soltanto ingaggiato. A lui piace, bruciare le bestie. La gente della città non se ne occupa. Da quando è cominciato l'inverno ne abbiamo già bruciate molte. Stamattina ne sono morte tre. Adesso le portiamo alla pira.

Imitandomi, la mia ombra per un po' continuò a scavare col tacco il terreno gelato, duro come una pietra. Degli uccelli si alzarono dai rami dell'olmo con strida acute.

- Ho trovato la mappa, - disse. - Era disegnata meglio di quanto pensassi, anche le spiegazioni erano esaurienti. Però me l'hai data troppo tardi.

- Sono stato malato, - dissi.

- L'ho sentito. Ad ogni modo è troppo tardi, l'inverno è iniziato. Ne avevo bisogno prima. Le cose sarebbero state più facili, avrei architettato il mio piano in men che non si dica.

- Il tuo piano?

- Sì, il mio piano di fuga. È evidente, no? Quale altro piano ci potrebbe essere? Cosa credevi, che ti avessi chiesto una mappa tanto per passare il tempo?

Scossi la testa.

- Speravo che mi spiegassi il significato di questa strana città, - dissi. - Ormai i miei ricordi appartengono tutti a te.

- Ti sbagli, - rispose la mia ombra. - È vero che custodisco molti dei tuoi ricordi, ma non posso usarli come voglio. Per farlo bisognerebbe che noi due tornassimo insieme, ma questo è impossibile. Se facessimo una cosa del genere non ci potremmo incontrare mai più, e non potrei più mettere a punto il mio piano. Per questo adesso sto riflettendo per conto mio. Sul significato di questa città.

- E hai capito qualcosa?

- Qualcosetta, ma ancora non posso dirti niente. Perché se non chiarisco tutti i dettagli non riuscirò a convincerti. Voglio pensarci ancora un po'. Ho l'impressione di essere vicino alla soluzione. Ma può darsi che a quel punto sia troppo tardi. Da quando è arrivato l'inverno sto diventando sempre più debole, e di questo passo a cosa mi servirà perfezionare il mio piano? Probabilmente non avrò più la forza di metterlo in pratica. Perciò volevo la mappa prima che cominciasse il freddo.

Guardai l'olmo sopra la mia testa. Attraverso l'intreccio dei rami si vedevano le scure nubi invernali.

- Ma non c'è modo di andarsene da qui, - dissi. - La mappa l'hai vista, no? Non ci sono vie d'uscita. Qui è la fine del mondo. Non si può né tornare indietro né andare avanti.

- Può darsi che sia la fine dal mondo, ma una via d'uscita ci dev'essere. Io lo so. Così è scritto nel cielo. L'uscita c'è. Vedi gli uccelli che sorvolano la muraglia? Dove vanno quegli uccelli? Nel mondo esterno. C'è un altro mondo al di là di questo muro, altrimenti perché circonderebbe la città in modo che gli abitanti non escano? Che bisogno c'era di erigerlo, se fuori non ci fosse nulla? No, da qualche parte ci dev'essere un passaggio.

- Può darsi, - dissi.

- Io lo troverò, e me ne andrò da qui con te. Non voglio morire in questo luogo tristissimo.

Detto ciò la mia ombra tacque e riprese a scavare il terreno col piede.

- Te l'ho già detto all'inizio, no? Questa città è un luogo innaturale, tutto sbagliato, - riprese poi. - Lo penso ancora adesso, lo sento. Innaturale e sbagliato. Il problema è che nella sua innaturalezza ed erroneità è perfetta. Tutto è innaturalmente distorto, col risultato che ogni cosa combacia esattamente con l'altra a formare un tutto. Tutto si concatena. Così -. Col tacco la mia ombra disegnò per terra una circonferenza. - È un cerchio chiuso. Infatti, se si resta qui troppo tempo, a forza di arrovellarsi il cervello si finisce col chiedersi se non siano loro nel giusto e noi nell'errore. Perché ci appaiono troppo compatti. Capisci quello che voglio dire?

- Perfettamente. È una cosa che sento anch'io ogni tanto. In confronto alla città, mi sento una piccola creatura debole e contraddittoria.

- È qui che ti sbagli, - disse la mia ombra disegnando accanto al cerchio motivi senza significato. - Noi siamo nel giusto e loro nell'errore. Noi siamo naturali, loro innaturali. Devi crederlo. Crederlo con tutte le tue forze. Altrimenti prima che te ne accorga verrai inghiottito dalla città, e allora sarà troppo tardi.

- Sì, però il giusto e l'ingiusto sono concetti relativi. E soprattutto sono stato privato dei miei strumenti di valutazione, dei miei ricordi, come posso fare dei confronti?

La mia ombra annuì.

- È più che comprensibile che tu sia confuso. Prova a riflettere, però: tu credi nel moto perpetuo?

- No, il moto perpetuo nella realtà non esiste.

- È esattamente la stessa cosa. La perfezione di questa città, la sua compattezza, sono come il moto perpetuo. Nella realtà non esiste un mondo perfetto. Qui invece l'hanno realizzato. Di conseguenza da qualche parte ci dev'essere un trucco. Così come il meccanismo di quello che appare come moto perpetuo usa sottobanco una forza esterna non visibile.

- E tu l'hai trovato questo trucco?

- No, non ancora. Come ti ho detto prima, sono arrivato a metà soluzione, ma devo chiarire i dettagli. E per questo mi ci vuole ancora un po' di tempo.

- Perché non mi spieghi quella mezza soluzione? Può darsi che io possa aiutarti a definire i dettagli.

La mia ombra tirò fuori le mani dalle tasche dei pantaloni, e dopo averci soffiato sopra il fiato caldo le incrociò sulle ginocchia.

- No, non puoi. Io sono sofferente nel corpo, ma tu sei sofferente nel cuore. Prima di tutto devi guarire. Altrimenti saremo entrambi rovinati prima di andarcene di qui. Io per conto mio rifletterò, ma tu devi fare tutto il possibile per salvarti. È questa la cosa più importante.

- Lo so, sono molto confuso, - dissi guardando il cerchio disegnato sul terreno. - Hai ragione tu. Non so in che direzione avanzare. Non so nemmeno che genere di persona fossi prima. Quanta forza può avere, in realtà, un cuore che si è smarrito? E in un luogo possente e dotato di solidi criteri di valore come questo? Da quando è arrivato l'inverno, a poco a poco sto perdendo fiducia nelle capacità del mio cuore.

- No, non devi, - disse la mia ombra. - Non ti sei smarrito. È solo che i tuoi ricordi si sono nascosti. Per questo sei confuso. Ma una cosa è sicura: non sei nell'errore. Anche se hai perduto i tuoi ricordi, il tuo cuore procede ancora nella direzione giusta. Il cuore ha i propri criteri d'azione. Il tuo io resta il tuo io. Devi credere nella tua forza. Altrimenti verrai afferrato da energie esterne e trascinato chissà dove.

- Mi sforzerò, - dissi.

La mia ombra annuì, e per un po' restò a guardare il cielo grigio. Alla fine chiuse gli occhi, come se fosse immersa in qualche riflessione.

- Quando sono in preda alla confusione, io guardo sempre gli uccelli, - disse. - Osservandoli mi convinco che ho ragione. Perché non hanno alcun nesso con la perfezione della città. Come non ne hanno con la muraglia, col cancello, col richiamo del corno. Guarda anche tu gli uccelli, quando ti senti smarrito.

Sentii il Guardiano chiamarmi all'ingresso del recinto. Il tempo concesso al nostro incontro era terminato.

- Per un po' non venirmi a trovare, - mi sussurrò la mia ombra al momento di separarci. - Quando sarà necessario sarò io a fare in modo di incontrarti. Il Guardiano è un uomo sospettoso, se ci incontriamo troppo mangia la foglia, e in tal caso per me sarà difficile muovermi. Se ti chiede qualcosa, fingi, rispondigli che non abbiamo più molto da dirci, noi due. Hai capito?

- D'accordo, - dissi.

 

- Com'è andata? - mi domandò il Guardiano quando tornai alla baracca. - Contento di parlare con la sua ombra dopo tanto tempo?

- Non lo so, - risposi scuotendo il capo con aria perplessa.

- Non mi stupisce, - fece lui in tono soddisfatto.