13. Il paese delle meraviglie

 

 

 

Francoforte - La porta di casa - Un' organizzazione indipendente.

 

Come al solito, ripresi gradualmente coscienza a partire dagli angoli del mio campo visivo. Prima riconobbi la porta del bagno sulla destra e la lampada alla mia sinistra, poi a poco a poco la mia attenzione si spostò verso il centro, come fa il ghiaccio quando un lago gela. Nel mezzo del mio campo visivo c'era la sveglia, le cui lancette segnavano le undici e ventisei. Era uno di quei regali che nei banchetti nuziali si distribuiscono agli invitati; per fermare la suoneria bisognava schiacciare contemporaneamente il pulsante rosso sul lato destro e quello nero sul lato sinistro, altrimenti non smetteva. Il dispositivo doveva prevenire quel comportamento tanto diffuso al mondo che consiste nel premere di riflesso, quando si è ancora mezzo addormentati, l'interruttore e rimettersi a dormire. Per schiacciare i due pulsanti insieme, infatti, non si poteva fare a meno di sedersi nel letto e posarsi la sveglia sulle ginocchia, ma a quel punto la coscienza aveva necessariamente fatto qualche passo nel mondo reale. Ripeto, era un regalo che avevo ricevuto a un matrimonio. Non ricordo più chi si sposasse. Verso i venticinque o ventisei anni, quando avevo ancora parecchi amici e conoscenti, ero invitato a una cerimonia di nozze dopo l'altra, e a uno di quei banchetti mi avevano regalato quella sveglia: io non avrei mai comperato di mia scelta un arnese tanto complicato. Anche perché di solito non ho nessuna difficoltà a svegliarmi e alzarmi.

Quando il mio campo visivo si focalizzò sulla sveglia, di riflesso la presi, me la misi sulle ginocchia e schiacciai i due pulsanti. Al che mi resi conto che non stava suonando. Non avevo dormito, di conseguenza non avevo nemmeno predisposto la suoneria. Quell'oggetto si trovava sul tavolo della cucina per puro caso. Avevo effettuato uno shuffling, la sveglia non c'entrava niente.

La rimisi al suo posto e mi guardai intorno. La stanza era esattamente come prima. Le spie rosse del dispositivo d'allarme erano accese, e in un angolo del tavolo era posata la tazza da caffè vuota. Nel portacenere dallo smalto screpolato c'era il mozzicone della sigaretta che la bibliotecaria aveva fumato prima di andar via, ancora in bilico sull'estremità. Marlboro Light. Nessuna traccia di rossetto. Ripensandoci, mi venne in mente che non usava trucco.

Controllai il quaderno e le matite posati davanti a me. Delle cinque matite ben temperate, due erano spezzate, due consumate quasi completamente, solo una era ancora intatta. Sul dito medio della mano destra avevo ancora la leggera piega che resta quando si scrive per molto tempo. Avevo completato lo shuffling. Sedici pagine del quaderno erano coperte di dati numerici molto fitti.

Seguendo le istruzioni del manuale, confrontai voce per voce i dati prima e dopo lo shuffling, poi bruciai la prima lista nel lavandino. Chiusi il quaderno in una solida scatola e la misi nella cassaforte insieme al registratore. Quindi mi sedetti sul divano e feci un profondo sospiro. Avevo finito la metà del lavoro. Per tutta una giornata potevo starmene tranquillo senza far niente.

Mi versai in un bicchiere due dita di whisky, chiusi gli occhi e lo bevvi in due sorsi. Il vivo calore dell'alcol mi passò attraverso la gola, si trasmise all'esofago e si placò nello stomaco. Quindi si propagò nelle vene e negli organi interni del mio corpo, mi scaldò il petto, le guance, le mani e alla fine anche i piedi. Andai in bagno, mi lavai i denti, bevvi due bicchieri d'acqua, orinai, poi andai in cucina, rifeci la punta alle matite e le posai in ordine nel loro vassoietto. Rimisi la sveglia sul comodino e staccai la segreteria telefonica. Le lancette segnavano le undici e cinquantasette. L'indomani avevo l'intera giornata a disposizione. Mi spogliai in fretta, mi misi il pigiama, mi infilai nel letto, tirai le coperte fino al mento e spensi la luce sul comodino. Ero deciso a dormire dodici ore di fila. Per dodici ore nessuno mi avrebbe disturbato. Gli uccelli potevano cantare quanto volevano, folle di gente prendere il treno per andare in ufficio... da qualche parte nel mondo ci sarebbe forse stata l'eruzione di un vulcano, pattuglie dell'esercito israeliano avrebbero distrutto qualche villaggio nei territori occupati... io avrei continuato a dormire.

Poi cominciai a pensare alla vita che avrei fatto dopo aver lasciato la professione. Col denaro messo da parte e la mia liquidazione avrei potuto vivere tranquillo, imparare a parlare il greco e a suonare il violoncello. Avrei messo lo strumento sul sedile posteriore della macchina, sarei andato in montagna e mi sarei esercitato da solo finché ne avessi avuto voglia.

Se tutto andava bene, mi sarei anche comprato una casetta, in montagna. Un piccolo chalet con la sua bella cucina. Sarei rimasto li a leggere, ascoltare la musica, guardare videocassette di vecchi film, cucinare. Il cibo... a quel punto mi venne in mente la bibliotecaria dai capelli lunghi. Non mi sarebbe dispiaciuto se ci fosse stata anche lei li con me, in quella casa in montagna, cioè. Io avrei cucinato, lei avrebbe mangiato.

Mentre pensavo a quel che avrei preparato, mi addormentai. Il sonno calò su di me tutt'a un tratto, come se il cielo mi precipitasse addosso. Tutto sparì: il violoncello, la casa in montagna, la cucina. Rimasi soltanto io, addormentato come un tonno.

 

Qualcuno mi stava praticando un buco nel cranio con un trapano e vi ficcava dentro una specie di rigido nastro di carta. Un nastro lunghissimo, che mi veniva infilato in testa metro dopo metro. Io lo afferravo con la mano e cercavo di tirarlo fuori, ma non riuscivo a fermarlo.

Mi sollevai a sedere e mi tastai i lati della testa: non c'era nessun nastro. Non c'era neanche il buco. Una suoneria stava squillando. Non smetteva. Afferrai la sveglia, me la misi sulle ginocchia e schiacciai contemporaneamente il pulsante rosso e quello nero. La suoneria non si fermò. Era il telefono. Le lancette segnavano le quattro e diciotto. Fuori era ancora buio, il che voleva dire che erano le quattro e diciotto del mattino.

Mi alzai dal letto, andai in cucina e sollevai il ricevitore. Ogni volta che il telefono suona in piena notte mi dico che la prossima volta prima di andare a dormire lo porterò in camera da letto, ma poi me ne dimentico subito. E così finisco sempre con l'urtare contro lo spigolo del tavolo o la stufa a gas.

- Pronto? - dissi.

Nessun suono dall'altra parte del filo. Un silenzio totale, come se l'apparecchio fosse sepolto nella sabbia.

- Pronto!!! - urlai.

Niente, il ricevitore non dava segni di vita. Nessun respiro affannoso, nessun ticchettio. Avevo l'impressione che attraverso il filo del telefono il silenzio avrebbe inghiottito anche me. Riagganciai furibondo, tirai fuori il latte dal frigorifero, ne bevvi grandi sorsate dalla bottiglia, quindi me ne tornai a letto.

Quando il telefono riprese a squillare, erano le quattro e quarantasei. Mi alzai, raggiunsi l'apparecchio seguendo lo stesso percorso e sollevai il ricevitore.

- Pronto? - feci.

- Pronto, - rispose una voce di donna. Non riuscivo a capire chi fosse. - Mi scusi per prima. Il campo sonoro è disturbato. Per questo ogni tanto il suono viene meno, - disse.

- Il suono viene meno?

- Sì. Tutt'a un tratto avvengono delle perturbazioni nel campo sonoro, già da un po'. Dev'essere successo qualcosa al nonno. Mi sente?

- Sì che ti sento -. Era la nipote di quel vecchio eccentrico che mi aveva regalato il teschio dell'unicorno. La ragazza grassa con il tailleur rosa.

- È da tantissimo tempo che il nonno non torna su. E a un certo punto sono iniziati questi disturbi del campo sonoro. È certamente accaduto qualcosa di grave. Ho provato a telefonargli nel suo laboratorio ma non risponde... Sono sicura che gli Invisibili l'hanno rapito e gli hanno fatto cose tremende.

- Forse ti sbagli. Non è che il nonno non torna su perché è troppo preso da un esperimento o qualcosa del genere? L'altra volta si era dimenticato di averti tolto il suono per una settimana intera, no? Mi sembra il tipo che quando è assorto nei suoi studi si scorda qualunque cosa.

- No, no, questa volta è diverso. Lo so. C'è una telepatia speciale tra me e il nonno, se a uno dei due succede qualcosa, l'altro lo sente. E io sono certa che gli è successo qualcosa. Qualcosa di brutto. In più la barriera acustica è stata infranta, di sicuro. È per questo che il campo sonoro sotterraneo è disturbato.

- Cosa vuoi dire?

- La barriera acustica è un dispositivo speciale che emette dei suoni per tenere lontani gli Invisibili. È stata spezzata con la forza, e l'equilibrio sonoro dell'ambiente intorno è completamente impazzito. Sono sicura che hanno rapito il nonno.

- Ma a che scopo?

- Tutti vogliono conoscere i risultati dei suoi studi. Gli Invisibili, i Semiotici, tutti. Cercano di mettere le mani sulle sue ricerche. Hanno anche tentato di fare uno scambio, ma lui ha rifiutato, era furibondo. Venga subito, per favore. Sta accadendo qualcosa di grave. Mi aiuti, la prego.

Immaginai di trovarmi faccia a faccia con gli Invisibili in quell'inquietante percorso sotterraneo. Solo al pensiero di calarmi lì dentro mi veniva la pelle d'oca.

- Senti, sono desolato, ma il mio lavoro consiste soltanto nell'elaborare dati informatici. Il mio contratto non include nessun altro compito, e non posso assumermene la responsabilità. Naturalmente se posso esserti utile in qualcosa lo faccio volentieri. Ma lottare contro gli Invisibili per salvare tuo nonno, sinceramente, è escluso. È una cosa di cui si deve occupare la polizia, i professionisti del Sistema, gente che ha ricevuto un addestramento speciale, insomma.

- La polizia è fuori discussione. Se li chiamassi dovrei spiegare loro ogni cosa, e sarebbe un pasticcio tremendo. Se a questo punto la ricerca del nonno venisse divulgata, il mondo cesserebbe di esistere.

- Come, cesserebbe di esistere?

- La prego, - insistette la ragazza. - Venga subito, mi aiuti. Altrimenti finiremo in una situazione dalla quale non potremo più tornare indietro. Dopo il nonno, quelli lì rapiranno lei.

- Perché mai dovrebbero rapire me? Capirei ancora te, ma io non so assolutamente nulla della ricerca di tuo nonno, ti pare?

- Sì, ma lei è la chiave. Hanno bisogno di lei per aprire la porta.

- Non so di cosa tu stia parlando, - dissi.

- Non ho il tempo di spiegarle tutto per telefono. Ma è una faccenda estremamente grave. Molto più grave di quanto lei si immagini. Mi creda, per favore. È una questione di vita o di morte anche per lei. Se non corriamo ai ripari finché siamo ancora in tempo, è finita. Non sto mentendo.

- Cose da pazzi, - dissi guardando l'orologio. - Ad ogni modo è meglio che tu venga via da lì. Se la tua immaginazione non ti sta giocando degli scherzi, quello è un posto troppo pericoloso.

- E dove dovrei andare?

Le diedi l'indirizzo di un supermercato aperto tutta la notte nel quartiere di Aoyama. - Aspettami alla caffetteria all'interno. Entro le cinque e mezza sarò lì.

- Ho una paura tremenda. Qualcosa...

 

Di nuovo il suono era venuto meno. Chiamai forte più volte, ma non ottenni risposta. Il silenzio saliva dai fori del ricevitore come fumo dalla canna di un fucile. Il campo sonoro era disturbato. Riagganciai, mi tolsi il pigiama e indossai una felpa e dei pantaloni di cotone. Poi andai in bagno, mi feci la barba alla svelta col rasoio elettrico, mi lavai la faccia. Mi pettinai davanti allo specchio. Per la privazione di sonno la mia faccia era gonfia come un cheesecake da pochi soldi. Volevo solo dormire. Dormire come un ghiro per recuperare le forze, e poi fare la vita tranquilla di una persona normale. Perché la gente non mi lasciava in pace? Gli unicorni, gli Invisibili, cosa diavolo c'entravano con me?

Sulla felpa indossai una giacca a vento, mi misi in tasca il portafoglio, qualche spicciolo e il coltello. Poi, dopo qualche momento di esitazione, avvolsi bene il teschio dell'unicorno in due asciugamani, lo infilai insieme alle molle da fuoco in una sacca da sport e ci ficcai dentro anche la scatola che conteneva il quaderno dei dati. L'appartamento non era affatto sicuro. Per dei professionisti, aprire la porta d'ingresso e la cassaforte sarebbe stato semplice come bere un bicchier d'acqua. Mi misi le scarpe da ginnastica di cui una era rimasta sporca, presi la sacca e uscii. Nel corridoio non c'era nessuno. Scesi le scale a piedi, evitando l'ascensore. Non era ancora l'alba e nel palazzo non si sentiva un rumore. Anche nel garage sotterraneo non vidi nessuno.

Però c'era qualcosa di strano. La quiete era troppa. Considerato che quelli lì volevano portare via il mio teschio, logicamente avrebbero dovuto piazzare almeno un uomo di guardia, ma non ne vidi. Sembrava che mi avessero dimenticato.

Aprii la portiera della macchina, posai la sacca sul sedile accanto al mio e accesi il motore. Erano quasi le cinque. Uscii dal garage guardandomi intorno e mi diressi verso Aoyama. Le strade erano quasi deserte: a parte alcuni taxi che si affrettavano a tornare e qualche camion, circolavano pochissime vetture. Ogni tanto gettavo un'occhiata nel retrovisore, ma non c'erano automobili che mi seguissero.

Il modo in cui le cose stavano procedendo non mi convinceva. Conoscevo bene i metodi dei Semiotici. Quando miravano a un obiettivo, facevano scendere in campo tutte le forze a loro disposizione e lo ottenevano. Non era nemmeno concepibile che si servissero di un imbranato come quell'impiegato del gas, o che mettessero uno scansafatiche di guardia a un avversario. Sceglievano il metodo più rapido ed efficace, e lo applicavano senza por tempo in mezzo. Una volta, due anni prima, avevano catturato cinque Cibermatici e con una sega elettrica avevano sezionato loro la parte superiore della scatola cranica. Poi avevano estratto i cervelli ancora caldi e vi avevano letto direttamente i dati che contenevano. L'esperimento era finito male, e in conclusione i cadaveri dei cinque Cibermatici erano stati ritrovati nella baia di Tòkyo, dove galleggiavano privi di una parte della calotta cranica e del cervello. Di questo erano capaci i Semiotici. Decisamente c'era qualcosa di strano.

Alle cinque e ventotto, in perfetto orario, parcheggiai la macchina al supermercato. Il cielo stava appena cominciando a schiarire a oriente. Con la sacca sotto il braccio entrai nel negozio. Nel vasto locale non c'era quasi nessuno. Il commesso seduto alla cassa, un ragazzo che indossava una divisa a righe, stava leggendo una rivista. Una donna di cui sarebbe stato difficile dire l'età e la professione gironzolava tra le corsie spingendo un carrello pieno di scatole di conserve e cibi pronti. Girai intorno al settore dov'erano esposte le bevande alcoliche e mi diressi alla caffetteria.

Davanti al bancone erano disposti in fila una dozzina di sgabelli, vuoti, la ragazza non c'era. Mi sedetti sull'ultimo e chiesi un bicchiere di latte freddo e un sandwich. Il latte era gelato al punto che non se ne sentiva il gusto, il sandwich arrivò avvolto nella pellicola trasparente, per cui il pane era molle e umido. Lo mangiai lentamente, a piccoli morsi, bevendo un sorso di latte ogni tanto. Per un po' cercai di ammazzare il tempo guardando un poster di Francoforte attaccato alla parete accanto a me. Era una veduta della città in autunno, le foglie degli alberi lungo il fiume avevano preso sfumature rosse, sull'acqua galleggiavano dei cigni, e un signore anziano che indossava un cappotto nero e un berretto con la visiera dava loro da mangiare. C'era un vecchio ponte in pietra, bellissimo, al di là del quale si vedeva un imponente campanile. Osservando meglio vidi che alle due estremità del ponte, contro le colonne, c'erano due specie di garitte munite di feritoie, il cui uso non mi era chiaro. Il cielo era azzurro, le nuvole bianche. Sulle panchine in riva al fiume erano sedute molte persone, tutte indossavano il cappotto, diverse donne avevano un foulard sulla testa. Era una bella fotografia, ma solo a guardarla mi venne la pelle d'oca. Sia perché l'autunno a Francoforte sembrava molto freddo, sia perché la vista di un alto campanile appuntito mi fa sempre venire i brividi.

Allora mi voltai a guardare il poster attaccato alla parete di fronte, la pubblicità di una marca di sigarette. Un uomo giovane dal volto liscio teneva fra le dita una sigaretta col filtro accesa e contemplava con aria distratta, un po' in diagonale, il panorama che aveva davanti. Chissà perché sulle pubblicità delle sigarette gli uomini hanno sempre quello sguardo, quell'aria di non vedere niente, non pensare a niente.

Al contrario della veduta di Francoforte, in quel poster non c'era molto da osservare, così mi voltai indietro a guardare il supermercato vuoto. Sui banchi la frutta formava pile altissime che sembravano formicai giganteschi. C'erano montagne di pesche, pompelmi, arance, con davanti un tavolino per far assaggiare la merce, ma era ancora troppo presto e il servizio non era in funzione. Chi mai assaggerebbe della frutta alle cinque e quarantacinque del mattino? A un angolo del tavolo era appeso un poster che diceva: «Fiera della frutta Usa». Si vedevano delle sedie da giardino bianche davanti a una piscina e una ragazza che mangiava della frutta. Una bella bionda molto abbronzata, occhi azzurri e gambe lunghe. Sono sempre bionde le ragazze che fanno la pubblicità della frutta. Uno può stare a guardarle per ore, ma appena distoglie gli occhi dalla fotografia non riesce più a ricordarsi che faccia abbiano. Sì, al mondo ci sono anche delle bellezze così, non si distinguono l'una dall'altra, come i pompelmi.

Il settore alcolici aveva una cassa a parte, dietro la quale però non c'era nessuno. La gente normale non va a comprare bevande alcoliche il mattino prima di colazione. Per questo in quell'angolo non si vedevano né clienti né commessi, soltanto bottiglie allineate silenziosamente come piccole conifere appena piantate. Per mia fortuna lì i poster prendevano tutta la parete. Ce n'era uno per il cognac, uno per il bourbon, due per la vodka, tre per il whisky scozzese, tre per il whisky nostrano, due per il sake, quattro per la birra. Mi chiesi perché ci fossero tante pubblicità delle bevande alcoliche. Forse l'alcol, fra tutti i cibi e le bevande, ha il carattere più festoso.

Ad ogni modo, dovendo ammazzare il tempo, cominciai a guardare quei poster l'uno dopo l'altro, nell'ordine. Dopo averli osservati tutti e quindici, avevo capito una cosa: il più bello dal punto di vista estetico era quello che ritraeva un bicchiere di whisky con ghiaccio. La fotografia era perfetta. In un grande bicchiere dal fondo spesso avevano messo tre o quattro pezzi di ghiaccio e vi avevano versato sopra del whisky color ambra. La foto era stata scattata un attimo prima che il bianco dell'acqua che si scioglieva si mischiasse all'ambra del whisky. Davvero stupenda. A guardar bene, tutte le pubblicità del whisky erano così, con solo ghiaccio. Il whisky allungato con acqua non aveva sufficiente impatto, e quello liscio non lasciava spazio alla fantasia.

Un'altra cosa alla quale feci caso, era che nessun poster ritraeva stuzzichini insieme alle bevande. Le persone al centro delle foto non mangiavano nulla, bevevano soltanto. Forse l'idea era che l'alcol perdesse la sua purezza se presentato insieme al cibo. Oppure che gli stuzzichini togliessero forza all'immagine dell'alcol. O attirassero troppo l'attenzione dell'osservatore. Questo lo potevo capire. Ogni cosa segue la sua logica.

Intanto si erano quasi fatte le sei. La ragazza grassa ancora non si vedeva. Mi domandai perché fosse tanto in ritardo, quando era stata lei a pregarmi di raggiungerla il più presto possibile. Bah, a cosa mi serviva arrovellarmi? Io ero corso subito, il resto erano problemi suoi. Fin dall'inizio non era una faccenda di cui toccasse a me occuparmi.

Ordinai un caffè molto caldo e lo bevvi senza aggiungervi né zucchero né latte.

Alle sei cominciarono ad arrivare i primi clienti. Casalinghe che venivano a comprare il pane e il latte per la prima colazione, studenti che tornavano a casa dopo aver fatto le ore piccole e desideravano fare uno spuntino. Una ragazza acquistò della carta igienica, un impiegato tre giornali diversi. Entrarono due uomini di mezza età con delle sacche da golf sulla spalla, che comprarono due bottigliette tascabili di whisky. Dovevano avere trentacinque o trentasei anni, cioè più o meno come me. A pensarci bene, anch'io ormai potevo considerarmi di mezza età. Se sembravo più giovane era solo perché non andavo in giro con delle sacche da golf e non indossavo abiti da golf.

Ero contento di aver dato appuntamento alla ragazza in un supermercato. In un altro posto mi sarei annoiato a morte. Adoro i supermercati.

Aspettai fino alle sei e mezza, poi rinunciai, tornai alla macchina e mi recai alla stazione di Shinjuku. Parcheggiai, presi la sacca e andai a lasciarla in consegna al deposito bagagli. Quando dissi all'inserviente di trattarla con riguardo perché conteneva un oggetto che si poteva rompere, l'uomo attaccò alle maniglie un cartellino con la scritta FRAGILE e il disegno di un bicchiere da cocktail. Controllai che mettesse bene al sicuro la sacca su uno scaffale, poi presi lo scontrino che lui mi diede. La mossa seguente fu di andare al chiosco dei giornali, comprare una busta e un francobollo da 260 yen, mettere lo scontrino nella busta, chiuderla, affrancarla e spedirla espresso alla mia casella postale segreta, che era intestata a una ditta fittizia. In questo modo, se non si verificavano circostanze eccezionali, nessuno avrebbe trovato la sacca. A volte mi servo di questo sistema come misura di sicurezza.

Dopo aver spedito la busta, tirai fuori la macchina dal parcheggio e me ne tornai a casa. Mi sentivo più tranquillo, ora che non correvo più il rischio di furto. Misi la macchina in garage, salii al mio appartamento, mi feci una doccia e mi infilai di nuovo a letto. Mi addormentai di un sonno profondo, come se non fosse successo nulla.

 

Alle undici venne qualcuno. Considerata la piega che stavano prendendo gli eventi, me l'aspettavo e non ne fui per nulla sorpreso. Tuttavia i visitatori in questione non suonarono il campanello, si buttarono a corpo morto contro la porta di casa. Ma forse l'espressione «buttarsi a corpo morto» non è la più adatta, fu un'operazione meno delicata. Il pavimento vibrò come se la porta fosse stata investita da un bulldozer da demolizione. Una cosa terribile. Se erano tanto forti, perché non avevano obbligato il portiere a dar loro il pass-partout? Almeno mi sarei evitato le spese di riparazione. A parte il fatto che dopo un tale episodio di violenza sarei stato certamente cacciato dal palazzo.

Mentre quelli si accanivano contro la mia porta, mi infilai i pantaloni, la felpa, nascosi il coltello nell'interno della cintura, andai in bagno e orinai. Per precauzione aprii la cassaforte, schiacciai il pulsante di emergenza del registratore e cancellai tutto quel che vi era registrato. Poi tirai fuori dal frigo una lattina di birra e un'insalata di patate e mi misi a mangiare senza fretta. Se avessi voluto, avrei potuto scappare dalla scala d'emergenza sul balcone, ma ero troppo stanco, non avrei retto alla fatica di una fuga. E poi, una volta scappato, non avrei risolto nessuno dei problemi che dovevo affrontare. Ero in una situazione estremamente complicata - diciamo piuttosto che mi ci trovavo aggrovigliato dentro - e da solo, con le mie sole forze, non potevo fare nulla. Avevo bisogno di consultarmi seriamente con qualcuno.

Riepilogando, su richiesta di uno scienziato mi ero recato nel suo laboratorio sotterraneo, dove avevo riordinato dei dati. Dopodiché ero tornato a casa con quello che sembrava il teschio di un unicorno. Poco dopo era arrivato un impiegato del gas, probabilmente mandato dai Semiotici, che aveva cercato di rubarmi il suddetto teschio. Il giorno seguente mi aveva telefonato la nipote del mio cliente per chiedermi di aiutarla, perché suo nonno era stato rapito dagli Invisibili. Ma sul luogo dell'appuntamento lei non si era fatta vedere. Insomma, sembrava che io fossi in possesso di due generi di mercanzia: uno era il famoso teschio, l'altro i dati convertiti con lo shuffling. Li avevo lasciati entrambi in consegna al deposito bagagli della stazione di Shinjuku.

Un intrico di circostanze incomprensibili. E nessuno che mi desse un suggerimento. Se restavo così a brancolare nel buio, sarei fuggito in eterno con il mio teschio di unicorno sottobraccio.

Finii la mia birra e la mia insalata di patate, feci un sospiro, e proprio in quel momento la porta blindata si spalancò col fragore di un'esplosione e nella stanza apparve una specie di gigante che mi era del tutto sconosciuto. Aveva addosso una camicia hawaiana dai disegni bellissimi, dei pantaloni militari cachi costellati di macchie d'unto, ai piedi delle scarpe da tennis grandi come pinne. La testa era completamente rapata, il naso camuso, il collo spesso come il girovita di una persona normale. Le palpebre scure e spesse come metallo, il bianco dell'occhio sgradevolmente vistoso e viscido. Sembravano occhi di vetro, ma a guardarli bene ogni tanto la pupilla si muoveva, dal che dedussi che erano veri. Sarà stato alto un metro e novantacinque. Aveva le spalle larghe, e la gigantesca camicia hawaiana, che pareva ricavata da un lenzuolo piegato in due e buttato sulle spalle, gli tirava tanto sul petto che i bottoni potevano saltar via da un momento all'altro.

L'uomo contemplò la porta che aveva appena distrutto con la stessa espressione con cui io avrei osservato il tappo di una bottiglia appena stappata, poi si voltò verso di me. Non sembrava nutrire molta simpatia per la mia persona. Mi guardava come se facessi parte della mobilia. Da parte mia, se avessi potuto lo sarei diventato volentieri.

Quando il gigante si fece da parte, dietro di lui apparve un tipo minuscolo. Non doveva arrivare al metro e mezzo, era magro, con un viso regolare. Portava una polo celeste e dei pantaloni beige, e al polso gli brillava un Rolex d'oro esageratamente grande: effetto inevitabile, dato che non si fabbricano Rolex per bambini. Più che un orologio, si sarebbe detto uno di quei trasmettitori che si vedono in Star Trek o in altri film di fantascienza. L'uomo doveva avere una quarantina d'anni, e con una ventina di centimetri in più avrebbe potuto interpretare la parte del bello in qualche serial televisivo.

Il gigante entrò in cucina senza togliersi le scarpe, girò intorno al tavolo e afferrò la sedia di fronte a me. Il piccoletto avanzò lentamente e vi si sedette. Il suo compare allora si appoggiò al lavabo, incrociò saldamente sul petto le braccia grosse come le cosce di una persona normale, e prese a fissarmi in un punto all'altezza delle reni. Lo sapevo, avrei dovuto scappare dalla scala d'emergenza. Avevo commesso un errore di valutazione, era evidente. Un bel check-up generale mi avrebbe fatto un gran bene.

Il piccoletto non mi guardò in faccia né mi salutò. Estrasse di tasca un pacchetto di sigarette e un accendino e li posò sul tavolo. Delle Benson & Hedges, un Dupont d'oro. A giudicare da quei dettagli, lo squilibrio commerciale doveva essere un'invenzione di qualche governo straniero. L'uomo prese l'accendino tra due dita e cominciò a farlo roteare. Non ricordavo di aver ordinato dei numeri da circo a domicilio.

Cercai sopra il frigorifero un portacenere che avevo ricevuto in omaggio tempo addietro al negozio di alcolici, lo spolverai con le dita e glielo posai davanti. Con un bel suono secco, breve, lui si accese la sigaretta, socchiuse gli occhi e soffiò il fumo nell'aria. Le sue dimensioni fisiche avevano qualcosa di strano. La faccia, le braccia, le gambe, tutto era piccolo in proporzione, sembrava la copia ridotta di una persona normale. Con la conseguenza che la sigaretta fra le sue dita appariva lunga come una matita nuova.

Immobile, senza dire una parola, l'omino ne fissava la brace. In un film di Jean-Luc Godard, quella scena sarebbe stata chiamata «l'uomo contempla la punta della sigaretta che brucia», ma fortuna o sfortuna che fosse, Godard non era più di moda. Quando buona parte della sigaretta si fu consumata, lui vi diede un colpetto e fece cadere la cenere sul tavolo. Senza degnare di un'occhiata il portacenere.

- Riguardo alla porta, - disse con un timbro di voce molto acuto, - l'abbiamo sfondata perché era necessario farlo. Nulla ci impediva di aprirla con la chiave, volendo, ma la prego di non serbarci rancore per questo.

- In casa non c'è nulla, - dissi. - Provate a cercare e ve ne renderete conto.

- Cercare? - fece lui in tono sorpreso. - Cercare? - E senza togliere la sigaretta di bocca si grattò i palmi delle mani. - Cos'è che dovremmo cercare?

- Insomma, siete venuti a cercare qualcosa, no? Anche se non so di cosa si tratti. Non è a questo scopo che mi avete distrutto la porta?

- Non capisco di cosa stia parlando. Guardi che sta prendendo un granchio, sa? Noi non vogliamo niente. Siamo semplicemente venuti a fare due chiacchiere. Tutto qui. Non cerchiamo nulla, non le domandiamo nulla. Se per caso avesse una Coca-Cola, però, la berrei volentieri.

Aprii il frigorifero, tirai fuori due lattine di Coca-Cola che avevo comprato per allungare il whisky e le posai sul tavolo insieme ai bicchieri. Per me presi una lattina di birra.

- Avrà sete anche lui, no? - feci indicando l'uomo alle mie spalle.

Al segno del piccoletto che lo chiamava col dito piegato a uncino, il gigante si avvicinò e prese la lattina sul tavolo. I suoi movimenti, rispetto alla sua mole, erano incredibilmente sciolti.

- Quando hai finito di bere fai quella cosa lì, - gli disse l'uomo seduto. Poi, rivolto a me, aggiunse brevemente: - Un piccolo show.

Mi voltai a guardare il gigante che in un sorso prosciugava la lattina di Coca-Cola. Finito di bere, la capovolse per controllare che non ne restasse nemmeno una goccia, la prese tra i palmi delle mani e senza muovere un muscolo della faccia la schiacciò fino ad appiattirla come una frittella. Con un fruscio che ricordava un giornale sospinto dal vento, la lattina rossa venne ridotta a una lamina di metallo.

- Questa è una cosa che può fare chiunque, - disse il piccoletto.

Chiunque, pensai, tranne me.

A quel punto il gigante prese fra le dita la lattina appiattita, e storcendo appena appena le labbra la ridusse in strisce. Una volta avevo visto uno strappare in due una guida del telefono, ma il numero cui avevo appena assistito era un'assoluta novità. Non avendo mai provato a compiere un'operazione del genere, non sapevo valutarla bene, ma probabilmente aveva del prodigioso.

- Riesce a piegare delle monete da cento yen. Sono pochi quelli in grado di farlo, - disse il piccoletto.

Annuii convinto.

- Può strappare un orecchio come niente fosse.

Annuii convinto.

- Fino a tre anni fa era un professionista di lotta libera. Se la cavava bene. Se non si fosse fatto male a un ginocchio sarebbe sicuramente entrato nella squadra nazionale. Era giovane, forte, relativamente agile. Peccato che abbia avuto quell'infortunio. Se uno perde la rapidità, è finito, come lottatore.

A quel punto il piccoletto mi guardò. Di nuovo annuii convinto.

- Da allora me ne occupo io. Tantopiù che è mio cugino.

- Non si producono taglie medie, nella vostra famiglia, a quanto pare.

- Provi a ripetere quello che ha detto... - fece il piccoletto guardandomi negli occhi.

- Dicevo così per dire.

Per qualche secondo l'uomo sembrò esitare. Poi decise di lasciar perdere, gettò il mozzicone per terra e lo spense sotto la suola della scarpa. Io non protestai.

- Ma perché non si rilassa? - continuò lui. - Non stia così sulle sue, si distenda. Non si può parlare a cuore aperto quando si è così tesi. Ha ancora le spalle troppo rigide.

- Posso prendere un'altra birra nel frigorifero? - chiesi.

- Prego! È in casa sua, si tratta del suo frigorifero e della sua birra, se non sbaglio.

- E della mia porta, - aggiunsi.

- Dimentichi la faccenda della porta. È perché ci pensa ancora che tiene le spalle così rigide. Una stupida porta da quattro soldi! Lei guadagna bene, perché non trasloca in un posto con una porta decente?

Senza ribattere, presi dal frigo un'altra birra. Il piccoletto versò la sua Coca-Cola nel bicchiere, aspettò che la schiuma si riducesse, poi ne bevve la metà.

- Certo non è carino metterla in uno stato confusionale, - disse. - Le spiegherò tutto. Noi siamo venuti a salvarla.

- Sfondando la porta?

A quelle mie parole, divenne rosso in faccia e le sue narici si dilatarono.

- Non le ho detto di dimenticarsi di quella porta? - chiese in tono pacato, poi si rivolse al gigante e ripetè la domanda. L'altro annuì per confermare. Il piccoletto sembrava molto irascibile. E a me non piace avere a che fare con gente irascibile.

- Siamo venuti da lei pieni di buone intenzioni, - proseguì. - Siamo venuti a spiegarle tante cose, visto che lei ora è confuso. Ma forse il termine «confuso» non è quello giusto, sarebbe meglio dire che si sente smarrito. O sbaglio?

- Confuso o smarrito, - risposi, - non so di cosa stia parlando, non ne ho la più pallida idea. E non ho nemmeno più la mia porta.

Il piccoletto afferrò l'accendino dorato sul tavolo e senza alzarsi dalla sedia lo scagliò contro il frigorifero. Un rumore stridente, sullo sportello restò un'evidente ammaccatura. Il gigante raccolse l'accendino da terra e lo rimise dov'era. A parte l'ammaccatura, tutto era tornato nella posizione di partenza. Per calmarsi il piccoletto bevve quel che restava della sua Coca-Cola. Quando ho a che fare con persone irascibili, mi viene voglia di verificare fino a che punto lo siano.

- Continua a insistere con quella dannata porta! Cerchi piuttosto di valutare la gravità della situazione. Anche se distruggessimo l'appartamento intero, in confronto non sarebbe nulla! Non ne voglio più sentir parlare, di quella porta!

La mia porta, mi dissi in cuor mio. Non mi importava quanto valesse, non era quello il problema. Una porta è un simbolo.

- Pazienza per la porta, - concessi. - Il fatto è che dopo quest'episodio mi cacceranno via. Questo è un palazzo molto quieto, ci vive gente come si deve.

- Se qualcuno protesta, se qualcuno cerca di cacciarla via, basta che mi faccia una telefonata. Stia tranquillo che li calmo io, me ne occupo io. Convinto? Non avrà fastidi.

Figurarsi, nel caso di un suo intervento, mi dissi, di fastidi ne avrei avuti ancora di più. Ma non volendo provocare ulteriormente il mio interlocutore, annuii in silenzio e bevvi un altro sorso di birra.

- Forse è un consiglio superfluo, ma passati i trentacinque anni sarebbe meglio perdere l'abitudine di bere birra, - prosegui l'uomo. - La birra va bene per gli studenti o le persone che fanno lavori di fatica. Fa venire la pancia, e non è una cosa fine. Dopo una certa età è meglio il vino, o il cognac. Orinando troppo, il metabolismo si deteriora. Quindi lasci perdere. Beva qualcosa di migliore qualità. Vino da ventimila yen la bottiglia, per esempio, ogni giorno: si sentirà lavato dentro.

Io feci un cenno di assenso e bevvi un altro sorso di birra. Un discorso inutile, il suo. Era proprio per poter bere tutta la birra che volevo che andavo regolarmente in piscina e facevo jogging, tenendo così a bada la mia pancia.

- Ad ogni modo, ognuno fa come vuole, - continuò lui. - Ognuno ha i suoi punti deboli. Nel mio caso sono il fumo e i dolci. Soprattutto con i dolci dovrei fare attenzione, guastano i denti e fanno venire il diabete.

Annuii convinto.

Lui prese un'altra sigaretta e l'accese con l'accendino.

- Sono cresciuto di fianco a una fabbrica di cioccolato. Forse è per questo che ho un debole per le cose dolci. Ma non era una marca famosa, solo una fabbrichetta quasi sconosciuta. Producevano quella roba da poco che si vende nei chioschi o in promozione al supermercato. Comunque sia, passavo le mie giornate nell'odore di cioccolato. Si era attaccato a tutto in casa: alle tende, ai cuscini, al gatto, a qualunque cosa. Per questo ancora adesso ne vado pazzo. Quando sento l'odore di cioccolato torno bambino.

Gettò un'occhiata al suo orologio. Io stavo pensando di tirar fuori di nuovo il discorso della porta, ma rinunciai dicendomi che saremmo andati per le lunghe.

- Be', basta con le chiacchiere adesso, non abbiamo tutto 'sto tempo, - disse lui. - Si sente un po' più rilassato?

- Un pochino, - risposi.

- Bene, veniamo al punto. Come le ho già detto, se sono qui è per rimediare al suo smarrimento. Quindi, se ha qualche dubbio, mi faccia pure delle domande, senza timore. Se posso le rispondo volentieri. Mi chieda quello che vuole, - concluse accompagnando le parole con un gesto di incoraggiamento.

- Prima di tutto, vorrei sapere chi siete, e fino a che punto tenete in pugno la situazione, - dissi.

- Ottima domanda, - fece l'uomo lanciando un'occhiata al suo compare per cercarne l'approvazione. Al cenno d'assenso dell'altro, riportò lo sguardo su di me. - Quando è necessario si mostra intelligente, lei. Non parla a vanvera.

Spense la sigaretta nel portacenere.

- Mettiamola così: siamo venuti qui per aiutarla. Ora non ha importanza a quale organizzazione apparteniamo. E grossomodo teniamo la situazione sotto controllo. Sappiamo del Professore, del teschio, dello shuffling dei dati e via dicendo. Sappiamo anche cose che lei ignora. La domanda seguente?

- Ieri avete pagato un impiegato del gas perché mi rubasse il teschio?

- Gliel'ho già detto, noi non vogliamo quel teschio. Non vogliamo nulla.

- E allora chi è stato? Chi è che ha pagato quell'uomo? O forse era un fantasma?

- Non ne sappiamo niente, noi, di questa faccenda. E ci sono altre cose che ci sfuggono. L'esperimento al quale sta lavorando il Professore, per esempio. Conosciamo la sua ricerca in ogni dettaglio. Ma non capiamo a cosa miri. È questo che vorremmo sapere.

- Non lo so nemmeno io, - dissi. - Non lo so, eppure ho già avuto un sacco di grane.

- Ne siamo ben consci. Lei non sa niente. Viene soltanto usato.

- E dunque cosa ci guadagnate a venire qui?

- Volevamo soltanto conoscerla, - disse l'uomo picchiando sul tavolo con l'angolo dell'accendino. - Ci siamo detti che era meglio informarla della nostra esistenza. E pensiamo che per il futuro sarebbe utile mettere insieme il nostro sapere e le nostre idee.

- Posso provare a immaginare?

- Prego. L'immaginazione è libera come un uccello, vasta come il mare. Nessuno la può frenare.

- Voi non appartenete né al Sistema né alla Fabbrica. I vostri metodi sono diversi da quelli di entrambi. Volete ritagliarvi il vostro spazio. Forse aspirate ad annettervi il territorio della Fabbrica.

- Visto, cosa ti avevo detto? - fece l'uomo rivolgendosi al suo compagno. - È intelligente, no?

Il gigante annuì.

- Sorprendentemente astuto per uno che vive in una topaia come questa. Per uno che è stato lasciato dalla moglie -. Era da molto che non mi facevano tanti complimenti. Divenni rosso in viso.

- Le sue congetture sono più o meno giuste, - continuò l'uomo. - Vogliamo impossessarci delle nuove formule scoperte dal Professore e introdurci in questa guerra informatica. Abbiamo fatto i dovuti preparativi, possediamo i capitali. Ora dobbiamo procurarci persone come lei e le ricerche del Professore. In tal modo potremo sovvertire dalle radici questa struttura bipolare composta dal Sistema e dalla Fabbrica. Questo è il bello della guerra informatica. È estremamente equa. Vince chi si procura un sistema superiore. E vince definitivamente. Nessuna relazione con i risultati pratici, con niente. Inoltre le circostanze attuali sono palesemente innaturali. Una situazione di monopolio completo. Il Sistema monopolizza le informazioni che sono alla luce del sole, la Fabbrica quelle in ombra. Non c'è concorrenza. Il che è contrario alle regole dell'economia liberale. Non pensa anche lei che sia innaturale?

- Io non c'entro niente, - risposi. - Le persone come me sono l'ultimo anello della catena, lavorano soltanto, come le formiche. Senza pensare a nulla. Di conseguenza se siete venuti con l'intenzione di farmi passare dalla vostra parte...

- Lei non ha capito, - mi interruppe l'uomo facendo schioccare la lingua. - Non abbiamo nessuna intenzione di farla passare dalla nostra parte. Tutto quello che vogliamo è impadronirci di lei. La domanda seguente?

- Cosa sono gli Invisibili? - chiesi.