33. Il paese delle meraviglie

 

 

 

Bucato in un giorno di pioggia - Auto a noleggio - Bob Dylan.

 

In quella domenica di pioggia, i quattro essiccatori della lavanderia erano tutti occupati. Alle rispettive maniglie erano appese borse delle spesa e sacche di plastica di colori diversi. Nel locale erano sedute tre donne: una casalinga fra i trentacinque e i quarant'anni e due ragazze, probabilmente due inquiline del dormitorio per studentesse del quartiere. La casalinga non doveva avere nient'altro da fare perché se ne stava seduta sulla sua sedia d'alluminio e guardava ruotare il tamburo della lavatrice come se fosse uno schermo televisivo. Le due ragazze erano sedute l'una accanto all'altra e sfogliavano le pagine di una rivista. Quando entrai mi lanciarono qualche occhiata curiosa, poi tornarono a occuparsi del loro bucato e della loro rivista.

Mi sedetti su una sedia con la borsa della Lufthansa sulle ginocchia e aspettai il mio turno. Le ragazze non avevano borse, di sicuro avevano già messo il bucato nell'essiccatore. Il che significava che appena uno degli apparecchi si fosse liberato sarebbe toccato a me. Mi dissi con sollievo che non ci sarebbe voluto molto tempo. Il solo pensiero di dover perdere quasi un'ora in quel posto a guardare la roba girare nelle lavatrici mi deprimeva. Mi restavano soltanto ventiquattro ore da vivere.

Seduto sulla sedia, mi rilassai guardando distrattamente un punto nello spazio. Nella lavanderia regnava uno strano miscuglio di odori, quello tipico del bucato che si sta asciugando e quello dei detersivi. Le due ragazze di fianco a me parlavano dei motivi di una maglia. Nessuna delle due era una bellezza. Le belle ragazze non passano la domenica pomeriggio in lavanderia a leggere riviste.

Contrariamente alle mie aspettative, nessuno degli essiccatori accennava a fermarsi. Ogni lavanderia a gettoni ha le sue regole. Lì una delle regole era: se c'è qualcuno in attesa, gli essiccatori vanno avanti in eterno. Da fuori i vestiti sembravano completamente asciutti, eppure i tamburi continuavano a girare.

Dopo quindici minuti ruotavano ancora. Nel frattempo era entrata una giovane donna snella con una grande borsa di carta, aveva infilato in una lavatrice un carico di pannolini da neonato, aperto una busta di detersivo, versato il contenuto sopra i pannolini, chiuso il coperchio e messo i gettoni nella lavatrice.

Io avevo voglia di chiudere gli occhi e dormire, ma non potevo farlo: magari un essiccatore si sarebbe fermato e qualcun altro arrivato dopo di me ci avrebbe messo dentro il suo bucato. Rischiavo di perdere altro tempo inutilmente.

Rimpiangevo di non aver portato con me una rivista. Se avessi letto qualcosa il sonno mi sarebbe passato, e il tempo sarebbe trascorso più veloce. Ma era una cosa saggia cercare di far passare il tempo più rapidamente? Nella mia posizione, mi conveniva fare il contrario. Che senso aveva allora restare tanto a lungo in quella lavanderia a gettoni? In quel modo aumentavo soltanto lo spreco.

Pensare al tempo, alla sua essenza, mi faceva venire mal di testa. Era qualcosa di troppo concettuale. Infiliamo l'una dopo l'altra le esperienze nel tempo, e poi non riusciamo più a capire se quel che ne ricaviamo sia frutto del tempo o dell'esperienza.

Al diavolo quei pensieri, mi dissi, dovevo decidere cosa fare una volta uscito dalla lavanderia. Prima di tutto avevo bisogno di comprarmi dei vestiti. Dei vestiti come si deve. Non avendo il tempo di far regolare l'orlo dei pantaloni, dovevo purtroppo rinunciare al completo in tweed su cui mi ero fissato nel sotterraneo. Pazienza, mi sarei tenuto i pantaloni che avevo addosso e mi sarei comprato una giacca, una camicia e una cravatta. E un impermeabile. Così abbigliato mi avrebbero fatto entrare in qualunque ristorante. Per mettere insieme quegli indumenti mi ci voleva circa un'ora e mezza. Avrei finito prima delle tre. Restava un vuoto di tre ore fino all'ora dell'appuntamento.

Provai a riflettere sul modo migliore di impiegarle, ma non mi vennero idee geniali. La stanchezza e il sonno mi offuscavano la mente, da qualche parte remota dove la mia coscienza non arrivava.

Mentre cercavo di dipanare a poco a poco il filo dei miei pensieri, l'ultimo essiccatore sulla destra si fermò. Dopo aver controllato che non fosse un'illusione ottica, mi guardai intorno. Sia la casalinga sia le due ragazze vi avevano gettato solo un'occhiata indifferente, senza alzarsi dalle rispettive sedie. Rispettando le regole della lavanderia, aprii lo sportello dell'essiccatore, presi gli indumenti ancora caldi attaccati alle pareti del tamburo e li misi nella borsa della spesa appesa alla maniglia, poi infilai nell'apparecchio il contenuto della mia sacca. Chiusi lo sportello, inserii il gettone, verificai che il tamburo cominciasse a ruotare e tornai a sedermi sulla mia sedia. Il mio orologio segnava le dodici e cinquanta minuti.

Dietro le mie spalle, la casalinga e le ragazze seguivano con gli occhi ogni mio movimento. Poi si misero a guardare quello che avevo messo nell'essiccatore. Il problema fondamentale era che di roba ce n'era pochissima: solo vestiti e biancheria intima femminile, e tutto rosa. Decisamente dava troppo nell'occhio. Non sopportando quell'atmosfera, appesi la borsa alla maniglia dell'apparecchio e uscii, deciso a buttare via i venti minuti seguenti da qualche altra parte.

La pioggia continuava a cadere fine fine, esattamente come al mattino, quasi volesse suggerire qualcosa al mondo. Aprii l'ombrello e mi misi a girare per il quartiere. Dalle tranquille strade residenziali passai in una via piena di negozi. C'erano una panetteria, un barbiere, un negozio di tavole da surf - perché diavolo vendevano tavole da surf a Setagaya? - una tabaccheria, una pasticceria, un posto dove noleggiavano videocassette, una tintoria. Fuori dalla tintoria vidi un cartello che diceva: «io per cento di sconto a chi ritira la roba nei giorni di pioggia». Non capivo che motivo ci fosse di fare uno sconto nei giorni di pioggia. All'interno il titolare, un uomo calvo dall'espressione seccata, stava stirando una camicia. Dal soffitto pendevano, come spessi rami d'edera, i cordoni di alcuni ferri da stiro. Una tintoria all'antica, nella quale il titolare stirava personalmente le camicie. Provai simpatia per lui. Probabile che non attaccasse il numero all'orlo delle camicie con la pinzatrice. È perché detesto questa pratica che me le lavo da solo.

Davanti alla tintoria c'era una fioriera con alcune piante. Rimasi per un po' a guardarle, ma non ne conoscevo il nome. Mi chiesi perché fossi tanto ignorante in materia di fiori. Tutti quelli nella fioriera erano comunissimi, una persona normale probabilmente sapeva che nome avessero. Gocce di pioggia che stillavano dalla grondaia cadevano nel terreno scuro dei vasi. Guardandoli, cominciai a sentirmi a disagio. Ero vissuto in questo mondo trentacinque anni, e non sapevo nemmeno il nome dei fiori più comuni.

Mi era bastato osservare una tintoria per fare parecchie scoperte. Una di queste era che ignoravo tutto riguardo al nome dei fiori, un'altra che nei giorni di pioggia le tintorie sono meno care. Ero passato per quella strada quasi ogni giorno, e non mi ero mai accorto che davanti alla tintoria c'era una fioriera.

Sulla fioriera c'era una lumaca, e anche questa per me era una scoperta. Fino ad allora avevo sempre pensato che le lumache uscissero solo durante la stagione delle piogge. Ma se fosse stato così, nelle altre stagioni dove sarebbero andate, cosa avrebbero fatto?

Presi quella lumaca autunnale e la misi dentro un vaso, su una foglia. Per un po' lei rimase in equilibrio sulla foglia oscillante, poi si tranquillizzò nella sua posizione diagonale e si guardò intorno.

Tornai verso la tabaccheria, dove comprai un pacchetto di Lark e un accendino. Avevo smesso di fumare da cinque anni, ma il giorno prima di morire potevo ben concedermi un pacchetto, non mi avrebbe fatto male. Sulla soglia del negozio mi infilai una sigaretta fra le labbra e l'accesi con l'accendino. Dopo tanto tempo, il contatto della sigaretta sulla bocca mi diede una sensazione poco familiare. Aspirai lentamente il fumo, e lentamente lo espirai. Mi sentivo la punta delle dita intorpidita e la mente offuscata.

Entrai nella pasticceria e comprai quattro dolci. Avevano tutti lunghi nomi francesi, e una volta messi nella scatola non mi ricordavo più cosa avessi comprato. Tutto il mio francese si era dileguato appena finita l'università. La commessa della pasticceria era alta come una pertica, molto maldestra nel fare il fiocco al nastro con cui aveva legato la scatola. Non ho mai avuto la fortuna di incontrare una ragazza alta che avesse abilità manuale. Però non saprei dire se sia una cosa in accordo con la logica del mondo o semplicemente un destino che privilegia solo me.

Nel negozio accanto, quello che noleggiava videocassette, c'ero già stato qualche volta. I proprietari, marito e moglie, avevano più o meno la mia età, e lei era piuttosto bella. Il televisore 27 pollici accanto all'ingresso trasmetteva L'eroe della strada, un film in cui Charles Bronson è un pugile e James Coburn il suo manager. Entrai, mi sedetti sul divano riservato ai clienti e decisi di guardare la scena dell'incontro di boxe per far passare il tempo.

Dietro al banco la padrona badava al negozio con aria annoiata, così le offrii un dolce. Lei scelse una fetta di torta alle pere, io un dolce al formaggio. Lo mangiai guardando Charles Bronson che pestava il suo avversario, un tizio grande, grosso e pelato. La maggior parte degli spettatori si aspettava che vincesse l'avversario, ma io, avendo già visto il film alcuni anni prima, sapevo che avrebbe vinto Charles Bronson. Quando ebbi finito di mangiare il mio dolce mi accesi una sigaretta, e dopo aver visto Charles Bronson mettere ko il suo avversario mi alzai dal divano.

- Guardi pure tranquillo, - disse la padrona.

Le risposi che mi avrebbe fatto piacere, ma avevo lasciato della roba ad asciugare in una lavanderia a gettoni. Gettando un'occhiata al mio orologio vidi che era l'una e venticinque. L'essiccatore doveva essere fermo già da un pezzo.

- Per carità! - feci.

- Non si preoccupi, qualcuno avrà tirato fuori la sua roba e l'avrà messa nella borsa. Nessuno le ha rubato la biancheria.

- È vero, - dissi debolmente.

- La settimana prossima mi arrivano tre vecchi film di Hitchcock, - mi annunciò la padrona.

 

Uscii dal negozio e tornai alla lavanderia seguendo la stessa strada. Per fortuna nel locale non c'era nessuno. La roba che avevo messo ad asciugare aspettava il mio ritorno appiattita contro le pareti del tamburo. Dei quattro essiccatori solo uno era in funzione. Misi tutto nella borsa e tornai a casa.

La ragazza grassa era nel mio letto, profondamente addormentata. Di un sonno così pesante che quando la vidi per un attimo mi domandai se non fosse morta, ma avvicinando l'orecchio sentii il suo lieve respiro. Tirai fuori gli indumenti asciutti dalla borsa, li posai accanto al cuscino e misi la scatola dei dolci sul comodino, vicino alla lampada. Avrei tanto voluto sdraiarmi di fianco a lei e sprofondare nel sonno anch'io, ma non era possibile.

Andai in cucina, bevvi un bicchier d'acqua, andai a orinare, poi tornai in cucina, mi sedetti su una sedia e mi guardai intorno: c'erano il rubinetto, il boiler a gas, la ventola, il forno, pentole di varia grandezza, il frigorifero, il tostapane, la credenza, la coltelliera... una grande lattina di tè Brooke Bond, la pentola elettrica del riso, la macchina del caffè, altri oggetti ben disposti in fila. «Si fa presto a dire "una cucina", - pensai. - In realtà è un ambiente composto da tante cose, tanti apparecchi...» Osservai di nuovo con calma lo spettacolo. Provai un senso di tranquillità, una tranquillità stranamente colma dell'ordine che tiene insieme il mondo.

Ero ancora sposato quando mi ero trasferito in quell'appartamento. Da allora erano già passati otto anni, ma all'epoca del mio matrimonio trascorrevo parecchio tempo seduto al tavolo della cucina, a leggere fino a tarda notte. Mia moglie quando dormiva non la si sentiva nemmeno respirare, tanto che a volte mi coglieva il dubbio che fosse morta nel letto. A modo mio, probabilmente incompleto, l'amavo.

Già otto anni che abitavo lì! All'inizio con noi viveva un gatto. La prima ad andare via era stata mia moglie, poi fu la volta del gatto. E ora me ne stavo andando anch'io. Spensi la sigaretta in una vecchia tazzina da caffè spaiata che usai come portacenere, poi bevvi un altro bicchier d'acqua. Perché mai ero rimasto otto anni in quel posto? Sembrava strano persino a me. Non certo perché mi piacesse particolarmente: era esposto solo a ovest, e l'affitto era piuttosto alto. Il custode era tutt'altro che gentile. Né la mia vita era diventata più allegra da quando vivevo lì. Al contrario, in casa c'era stato un drammatico calo demografico.

Ad ogni modo, tutto sarebbe finito tra poco.

Una vita perenne, pensai. L'immortalità. Volevo rifletterci su.

Il Professore mi aveva detto che stavo per entrare in un mondo dove non si moriva. Non sarei uscito dal mondo in cui mi trovavo con la morte, ma con una conversione grazie alla quale sarei diventato me stesso e avrei potuto ritrovare quello che avevo perso o stavo perdendo.

Poteva darsi che le cose stessero come diceva lui. Anzi, probabilmente era così. Sapeva tutto, quel vecchio. Se affermava che in quel nuovo mondo non si moriva, doveva essere così. Tuttavia le parole del Professore non trovavano in me alcun riscontro. Mi raccontavano qualcosa di troppo astratto e vago. A me sembrava di essere già sufficientemente me stesso, e cosa pensasse la gente immortale a proposito della propria immortalità era un problema che superava i limiti della mia limitata immaginazione. Tantopiù che comparivano anche unicorni e muri di cinta. Il mago di Oz in confronto era un capolavoro di realismo.

Insomma, cos'è che avevo perso?, mi chiesi grattandomi la testa. Molte cose, era vero. Per elencarle tutte ci voleva un quaderno. C'erano cose la cui perdita sul momento non mi era parsa grave ma che avevo rimpianto in seguito, e viceversa. Mi sembrava di aver continuato a perdere cose, persone e sentimenti. Nella tasca del cappotto che simbolizzava la mia persona c'era un buco che non si poteva ricucire con nessun tipo di ago o di filo. In tal senso, se qualcuno avesse aperto la finestra, messo dentro la testa e mi avesse gridato: «La tua vita è un fallimento! » non avrei avuto nessuna prova per negarlo.

Eppure, se avessi potuto ricominciare da capo, ero sicuro che avrei rifatto le stesse identiche cose. Perché quello ero io: quella vita in cui continuavo a perdere tutto. Non avrei potuto fare altro che diventare me stesso, nient'altro che me stesso, con tutte le persone che mi avrebbero lasciato, o che io avrei lasciato, con tutti i bei sentimenti e le magnifiche qualità e i sogni che sarebbero andati distrutti, o perlomeno che avrei dovuto ridimensionare.

Un tempo, quando ero più giovane, mi ero illuso di poter diventare qualcos'altro. Avevo pensato che magari un giorno, chissà, avrei aperto un bar a Casablanca e incontrato Ingrid Bergman. O più realisticamente - ammesso che la cosa fosse più realistica - avrei potuto costruirmi una vita edificante e adatta a me. E a questo scopo mi ero allenato a modificare la mia personalità. Avevo perfino letto La rivoluzione verde, avevo visto Easy Rider tre volte. Però finivo sempre per tornare allo stesso posto, come una barca dal timone bloccato. Quello ero io. Non potevo andare da nessun'altra parte. Ero lì, e aspettavo di tornare.

Dovevo chiamarla «disperazione»?

Non lo sapevo. Forse sì, forse era disperazione. Turgenev l'avrebbe chiamata «delusione». Dostoevskij, «inferno». Somerset Maugham, «realtà». Ma qualunque nome le si desse, quello ero io.

Non riuscivo a immaginare un mondo senza morte. Poteva darsi che vi ritrovassi tutto ciò che avevo perduto e mi costruissi una nuova identità. Che qualcuno mi applaudisse o si congratulasse con me. Che diventassi più felice e conducessi una vita edificante e più adatta a me. Ma in ogni caso sarei stato un'altra persona, senza relazione alcuna con il mio io attuale. Il mio io attuale non poteva uscire da se stesso. Era una realtà storica che nessuno poteva alterare.

Dopo averci riflettuto un po' su, arrivai alla conclusione che era più logico supporre che entro ventidue ore e qualcosa sarei morto. Meglio lasciar perdere quella storia di passaggio in un mondo immortale, decisi, mi metteva a disagio.

Dunque sarei morto: tanto valeva pensare così, era la cosa più pratica, più consona a me. A quel pensiero mi sentii molto più tranquillo.

Spensi la sigaretta, andai in camera da letto e, dopo aver guardato un momento il viso della ragazza addormentata, controllai di avere nelle tasche dei pantaloni tutto quello di cui avevo bisogno. A pensarci bene, però, a quel punto non c'era quasi nulla che mi fosse veramente indispensabile. Il portafoglio, la carta di credito, e poi? La chiave di casa non mi serviva più, tantomeno la mia licenza di Cibermatico. Inutile l'agenda, così come la chiave della macchina, avevo deciso di non prenderla. Non avevo bisogno del coltello, né di moneta spicciola. Presi tutte le monete che avevo in tasca e le posai alla rinfusa sul tavolo.

Prima di tutto mi recai in treno a Ginza, comprai una camicia, una cravatta e una giacca da Paul Stuart, e pagai con la carta dell'American Express. Mi guardai allo specchio. Niente male. Il fatto che la piega dei pantaloni verde oliva non si vedesse quasi mi disturbava un po', ma non era necessario che fossi perfetto dalla testa ai piedi. L'accostamento del blu della giacca con l'arancione della camicia creava una vaga atmosfera da agente pubblicitario giovane e promettente, ma almeno non sembravo uno che aveva appena vagato in un sotterraneo ed entro ventun ore sarebbe scomparso da questo mondo.

Tenendomi eretto mi accorsi che la manica sinistra era più corta della destra di un centimetro e mezzo. Di sicuro il difetto non era nel vestito ma nelle mie braccia, che non erano lunghe uguali. Non capivo perché mi fossi ridotto così. Non ero mancino, né mi ricordavo di aver usato particolarmente il braccio sinistro. La riparazione si poteva fare in due giorni, mi disse il commesso, perché non gli lasciavo la giacca? Ovviamente rifiutai.

- Lei forse gioca a baseball? - mi chiese lui dandomi la ricevuta della carta di credito.

No, risposi, non giocavo a baseball.

- La maggior parte degli sport finiscono col deformare il fisico, - mi spiegò il commesso. - Per quel che riguarda l'abbigliamento, la cosa migliore è evitare di fare troppo sport e di mangiare troppo.

Salutai e uscii dal negozio. Il mondo era pieno di regole di ogni sorta, sembrava. A ogni passo facevo una nuova scoperta, letteralmente.

Continuava a piovere e mi ero stufato di comprare vestiti, così rinunciai a cercare un impermeabile ed entrai in una birreria, dove bevvi una birra alla spina e mangiai delle ostriche. Per qualche misteriosa ragione gli altoparlanti del locale diffondevano una sinfonia di Bruckner. Il numero non me lo ricordavo, ma d'altronde chi è che si ricorda mai la numerazione delle sinfonie di Bruckner? In ogni caso era la prima volta che sentivo Bruckner in una birreria.

Oltre a me, nel locale c'erano solo altre tre persone. Una giovane coppia e un vecchio che portava un berretto. Il vecchio sorseggiava lentamente la sua birra, senza togliersi il berretto di testa, mentre i due giovani non toccavano quasi i loro boccali, immersi in una fitta conversazione a bassa voce. Questa è di solito l'atmosfera delle birrerie nei pomeriggi di pioggia.

Ascoltando Bruckner spremetti il limone sulle mie cinque ostriche e le mangiai in senso orario, e intanto bevvi un boccale medio. Sul grande orologio a muro del locale mancavano cinque minuti alle tre. Sotto il quadrante due leoni in piedi si facevano fronte, e torcendosi allentavano la tensione delle molle. Erano entrambi maschi, con le code ritorte. La lunga sinfonia finì e iniziò un Bolero di Ravel. Una strana associazione.

Ordinai una seconda birra, poi andai in bagno a orinare. Orinai per un tempo che sembrava non terminare mai. Non capivo come potessi produrre una tale quantità di orina, ma non avendo nessun impegno impellente ci misi tutto il tempo necessario. Mi ci vollero circa due minuti. Intanto alle mie spalle continuava il Bolero di Ravel. Strano, orinare mentre si ascolta Ravel. Mi dava l'impressione che non avrei smesso più.

Quando finalmente ebbi terminato, mi sentivo un altro. Mi lavai le mani e, dopo aver gettato un'occhiata alla mia faccia nello specchio ovale, tornai in sala e bevvi la seconda birra. Avrei voluto fumare una sigaretta, però mi resi conto di aver dimenticato il pacchetto in cucina, allora chiamai la cameriera, comprai delle Seven Star e mi feci dare una scatola di fiammiferi.

Nella birreria semideserta il tempo pareva essersi fermato, ma in realtà non era così. I leoni continuavano la loro rotazione di 180 gradi e le lancette dell'orologio erano avanzate fino a segnare le tre e dieci. Le osservavo mentre fumavo e bevevo la mia birra, un gomito sul tavolo. Non c'è maniera più stupida di passare il tempo che guardare le lancette di un orologio, ma non mi veniva in mente niente di meglio. Ciò che fa muovere la gente è il presupposto che continuerà a vivere: se viene a mancare questo, non resta nulla.

Tirai fuori di tasca il portafoglio e ne controllai attentamente il contenuto. C'erano cinque biglietti da diecimila yen e alcuni da mille. Nell'altra tasca dei pantaloni c'erano venti biglietti da diecimila tenuti insieme da un fermaglio. Oltre ai contanti avevo la carta di credito dell'American Express e la VISA. Più due Bancomat, che spezzai in quattro e gettai nel portacenere. Tanto ormai non mi servivano più. Scartai anche la tessera della piscina coperta, quella del negozio di video, un buono sconto che mi avevano dato quando avevo comprato del caffè in grani. Tenni la patente, buttai due vecchi biglietti da visita. Il portacenere si riempì dei relitti della mia vita. Mi restavano soltanto il denaro in contanti, le due carte di credito e la patente.

Quando le lancette dell'orologio segnarono le tre e mezza, mi alzai, pagai il conto e uscii. Mentre bevevo le mie birre la pioggia era quasi cessata, così lasciai l'ombrello nell'ombrelliera. Non era un cattivo presagio. Il tempo stava cambiando, e io mi stavo alleggerendo.

Liberatomi dell'ombrello, mi sentii molto meglio, e mi venne voglia di entrare in un altro locale. Magari un posto pieno di gente. Mi fermai un momento davanti al grattacielo della SONY a guardare insieme a un gruppo di turisti arabi la fila dei televisori accesi, poi scesi nella metropolitana, comprai un biglietto della linea Marunouchi fino a Shinjuku. Probabilmente mi addormentai appena mi sedetti, perché tutt'a un tratto mi resi conto che ero già arrivato.

Quando uscii dal controllo biglietti, mi ricordai che avevo lasciato i dati sottoposti a shuffling al deposito bagagli della stazione. Ormai non pensavo che quella roba servisse a qualcosa, e non avevo nemmeno lo scontrino, ma non avendo null'altro da fare decisi di andare a ritirarli lo stesso. Salii le scale, andai allo sportello del deposito e dissi che avevo perso lo scontrino.

- Ha cercato bene? - mi chiese l'incaricato.

Gli dissi che avevo frugato dappertutto.

- Che cosa aveva lasciato?

- Una sacca sportiva blu della Nike.

- Che tipo di marchio ha?

Mi feci prestare un notes e una matita, disegnai il marchio di un boomerang schiacciato, e sopra vi scrissi NIKE. L'uomo guardò il disegno con aria sospettosa, poi con il notes in mano andò a cercare fra gli scaffali, finché non tornò con la mia sacca.

- È questa?

- Sì, - dissi.

- Ha qualche documento che possa provare come si chiama e dove abita?

Gli porsi la patente, e l'incaricato confrontò i dati con quelli che avevo scritto sullo scontrino attaccato alla borsa. Poi staccò lo scontrino, lo posò sul banco insieme a una biro e mi indicò dove dovevo firmare. Firmai, presi la sacca e ringraziai.

Avevo avuto successo nel recuperare il mio bagaglio, ma in realtà quella sacca blu della Nike stonava completamente col mio abbigliamento. Non potevo portare a cena una ragazza con una sacca sportiva a tracolla. Pensai di cambiarla con un altro tipo di borsa, ma doveva essere abbastanza grande perché ci entrasse quel teschio di unicorno. Una valigia o un contenitore per le palle da bowling. Una valigia però era troppo pesante, e, per andare in giro con una borsa da bowling, tanto valeva tenermi quella che avevo.

Dopo aver scartato diverse idee, arrivai alla conclusione che la cosa migliore fosse noleggiare una macchina e lasciare la sacca sul sedile posteriore. Così non avevo il fastidio di portarmela dietro e non dovevo preoccuparmi della figura che facevo. Quanto alla macchina, avrei voluto un'elegante vettura europea, se possibile. Non perché mi piaccia particolarmente quel tipo di automobile, ma in quella giornata molto speciale della mia vita mi pareva opportuno usarne una degna dell'occasione. Non avevo mai guidato altro che utilitarie di marca nazionale e un Maggiolino della Volkswagen.

Entrai in un caffè, chiesi le Pagine Gialle, feci un segno accanto alle quattro agenzie di autonoleggio che trovai nelle vicinanze di Shinjuku e telefonai a tutte quante, l'una dopo l'altra. Nessuna aveva a disposizione automobili europee. Non ne tenevano, oltre al fatto che la domenica, in quella stagione, in sede restavano poche vetture. Due delle agenzie le avevano tutte fuori, una aveva soltanto una Honda Civic, l'ultima aveva ancora una Toyota Carina 1800 GT Turbo e una Toyota Mark II. Entrambe erano nuove e provviste di stereo, mi disse l'impiegata. Non avendo voglia di fare altre telefonate, decisi di noleggiare la Carina 1800 GT. Tanto non avevo mai provato interesse per le macchine e non sapevo nemmeno che forma avessero quelle due Toyota.

La mossa seguente fu di andare in un negozio di dischi e comprare alcune cassette. Una selezione di Johnny Mathis, Verklàrte Nacht di Schònberg con la direzione di Zubin Meh- ta, Stormy Sunday di Kenny Burrell, una cassetta di Duke Ellington, i Concerti di Brandeburgo suonati da Trevor Pinnock, e una cassetta di Bob Dylan che includeva Like a Roliing Stone. Un assemblaggio molto eterogeneo, ma cos'altro potevo fare, non sapendo quale musica fosse adatta all'interno di una Carina 1800 GT? Magari una volta seduto al volante mi sarebbe venuta voglia di ascoltare James Taylor. Oppure dei valzer viennesi, i Police, i Duran Duran. O niente del tutto. Chi poteva saperlo?

Buttai le sei cassette nella sacca, andai all'agenzia e chiesi di vedere l'automobile. Poi mostrai la mia patente e firmai il formulario apposito. In confronto a quello della mia utilitaria, il cruscotto della Toyota 1800 GT sembrava il pannello di comando di un'astronave. Le persone abituate a quel tipo di automobile probabilmente avrebbero giudicato la mia una sorta di macinino. Infilai nello stereo Watching the River di Bob Dylan, e ascoltando la musica provai ad accendere tutti gli interruttori del cruscotto, uno per uno, senza fretta. Non volevo rischiare di sbagliarmi mentre guidavo, provocando chissà quale disastro.

Nel frattempo la donna giovane e simpatica che mi aveva accolto era uscita dall'ufficio e si era avvicinata per chiedermi se c'era qualcosa che non andava. Aveva un sorriso pulito e affabile, da spot pubblicitario. Bei denti bianchi, il mento sodo, un rossetto gradevole.

Dissi che andava tutto bene, volevo semplicemente rendermi conto di ogni cosa per non avere problemi in seguito.

- Ah, ecco, - fece lei sempre sorridendo. Il suo sorriso mi ricordava una mia ex compagna di liceo. Una ragazza in gamba e intelligente. Qualcuno mi aveva detto che si era poi sposata con un leader rivoluzionario conosciuto all'università dal quale aveva avuto due figli, ma in seguito era scappata piantando baracca e burattini e nessuno ne aveva saputo più nulla. Il sorriso dell'impiegata dell'agenzia mi ricordava proprio quella mia ex compagna. Chi avrebbe mai immaginato che quella ragazza che amava Salinger e George Harrison avrebbe fatto una cosa del genere?

- Se tutti fossero prudenti come lei, eviteremmo un sacco di grane, - disse l'impiegata. - I cruscotti delle automobili sembrano ormai dei computer, chi non ci è abituato fa fatica.

Annuii. Allora non erano un mistero soltanto per me.

- Dove devo schiacciare per ottenere la radice quadrata di 185? - chiesi.

- Deve aspettare il prossimo modello, - rispose la ragazza ridendo. - È Bob Dylan, questo?

- Sì, - dissi. - Bob Dylan in Positively 4th Street. Per piacere ancora dopo vent'anni, dev'essere veramente una canzone stupenda.

- Bob Dylan, si capisce subito che è lui.

- Perché suona l'armonica peggio di Stevie Wonder?

Lei rise di nuovo. Era bello farla ridere. Riuscivo ancora a far ridere le ragazze.

- No, il fatto è che ha una voce inconfondibile. È come un bambino alla finestra che sta a guardare la pioggia fuori.

- È una bella definizione, - dissi. Lo era davvero. Avevo letto un sacco di libri su Bob Dylan, ma non avevo mai trovato una definizione così azzeccata. Semplice ed essenziale. Quando glielo dissi, lei arrossì.

- È difficile esprimere a parole le sensazioni che si provano, - aggiunsi. - Tutti ci provano in tanti modi, ma quasi nessuno ci riesce.

- Scrivere un romanzo è il mio sogno, - rispose la ragazza.

- Sono sicuro che sarebbe un bel libro.

- La ringrazio.

- È raro, però, che a una ragazza giovane come lei piaccia Bob Dylan.

- Mi piace il vecchio rock. Bob Dylan, i Beatles, i Doors, Jimmy Hendrix... quella gente lì.

- Sarei felice di fare una bella chiacchierata con lei, una volta, - dissi.

Lei sorrise e piegò un poco la testa. Una ragazza affascinante conosce mille modi di rispondere. E ha l'equità di riservarne uno anche per un trentacinquenne divorziato e stanco. La ringraziai e misi in moto la macchina. Bob Dylan cantava Stuck Inside of Mobile with the Memphis Blues Again. Grazie a quella ragazza ero di umore molto più allegro. Era valsa la pena di noleggiare una Toyota Carina 1800 GT Turbo.

L'orologio digitale sul cruscotto indicava le quattro e quarantadue. Sopra la città, il cielo senza sole cominciava a prendere il colore del tramonto. Mi diressi verso casa nel traffico congestionato tipico delle domeniche di pioggia. A peggiorare la situazione, una piccola vettura sportiva verde era andata a sbattere contro un camion che trasportava blocchi di cemento ostruendo la strada. L'automobile aveva preso la forma di una scatola di cartone vuota su cui qualcuno si fosse lasciato cadere seduto. Alcuni agenti di polizia che indossavano impermeabili neri la circondavano, mentre la squadra di soccorso vi attaccava una catena.

Per superare il luogo dell'incidente mi ci volle parecchio tempo, ma arrivai ugualmente in anticipo all'appuntamento. Mi accesi una sigaretta e la fumai con calma ascoltando Bob Dylan. Poi provai a immaginare cosa volesse dire sposare un leader rivoluzionario. Fare la rivoluzione poteva essere considerato alla stregua di una qualunque attività lavorativa? In senso stretto no. Ma se la politica veniva considerata un lavoro, la rivoluzione era solo una sua variante. Difficile giudicare.

Magari, rientrando dal lavoro, il marito di quella mia ex compagna si sedeva a tavola e parlava dei progressi della rivoluzione bevendo una birra.

Bob Dylan aveva attaccato Like a Rolling Stone: smisi di pensare alla rivoluzione e accompagnai la canzone canticchiando a bocca chiusa. Stavamo tutti invecchiando. Era una cosa evidente come la pioggia che cadeva.