7. Il paese delle meraviglie

 

 

 

Il teschio - Lauren Bacall - In biblioteca.

 

Decisi di prendere un taxi e tornare a casa. Fuori ormai era calata la sera e le strade erano piene di gente che usciva dal lavoro. Inoltre piovigginava, così prima che riuscissi a fermare un taxi trascorse un'eternità.

Niente di strano, ci metto sempre parecchio tempo a trovarne uno, perché per non correre rischi lascio passare le prime due vetture libere che vedo. Ho sentito dire che i Semiotici dispongono di finti taxi, e succede che carichino dei Cibermatici che escono dal lavoro, li portino via e li facciano sparire. Può darsi che sia soltanto una leggenda, ovviamente. A nessuna delle persone che conosco è mai capitata una cosa del genere. Ma la prudenza non è mai troppa.

Così cerco sempre di usare la metropolitana o l'autobus, ma quella sera ero molto stanco e avevo voglia di dormire. In più pioveva, e al solo pensiero di prendere i mezzi pubblici all'ora di punta mi veniva male. Dopo un sacco di tempo trovai un taxi. Nella vettura fui più volte sul punto di addormentarmi senza neanche accorgermene, ma con uno sforzo disperato riuscii a vincere la sonnolenza. Una volta tornato a casa, mi sarei steso sul letto e avrei potuto dormire quanto volevo. Addormentarmi nel taxi sarebbe stato troppo pericoloso.

Mi misi ad ascoltare con la massima attenzione il commento della partita di baseball alla radio. Non essendo un esperto, mi schierai con la squadra che al momento era all'attacco e contro quella in difesa. Una comoda soluzione, lo ammetto. La squadra per cui tenevo stava perdendo 3 a 1. Era 2 out con un giocatore in seconda base quando ci fu una battuta, ma il giocatore che doveva correre inciampò fra la terza e la quarta base col risultato che regalò il punto all'avversario. Il commentatore disse che era una cosa sconcertante, e io gli diedi ragione. Chiunque può inciampare e cadere, ma non un giocatore di baseball durante una partita, fra la terza e la quarta base. Il lanciatore ne rimase talmente costernato che lanciò una palla facile, diretta, al battitore avversario, il quale la spedì sulla gradinata sinistra segnando un altro punto: ora erano 4 a 1.

Quando il taxi arrivò davanti al palazzo dove abitavo, il punteggio non era cambiato. La testa annebbiata, pagai e scesi dalla vettura tenendomi stretta la cappelliera. Aveva quasi smesso di piovere.

Nella cassetta delle lettere non c'era posta. Sulla segreteria telefonica nemmeno un messaggio. Nessuno aveva bisogno di me, pareva. Magnifico. Neanch'io avevo bisogno di nessuno. Presi l'acqua dal frigorifero e mi preparai un abbondante whisky con ghiaccio, aggiungendovi un po' di soda. Poi mi spogliai, mi infilai nel letto, e appoggiato alla spalliera presi a sorseggiare lentamente il mio whisky. La mia coscienza sembrava sul punto di offuscarsi da un momento all'altro, ma non potevo perdermi la dolcezza di quel rito di fine giornata. Non c'è nulla che mi piaccia di più di quel breve intervallo di tempo che va da quando mi infilo nel letto a quando mi addormento. Mi porto qualcosa da bere, ascolto la musica, leggo qualche pagina. È un piacere immenso, come un bel tramonto o l'aria pura e pulita.

Avevo bevuto circa la metà del mio whisky, quando squillò il telefono. L'apparecchio era posato su un tavolo rotondo distante un paio di metri dai piedi del letto. Non avendo alcuna intenzione di estrarmi da sotto le coperte e camminare fin lì, rimasi placidamente a guardarlo suonare. Tredici o quattordici squilli, ai quali non feci caso. Nei vecchi cartoni animati a ogni squillo il telefono traballa, ma nella realtà questo naturalmente non succedeva. L'apparecchio se ne stava tranquillo, acquattato sul tavolo. E io lo osservavo bevendo il mio whisky.

Accanto al telefono erano posati il portafoglio, il coltello e la cappelliera che avevo ricevuto in regalo. Tutt'a un tratto mi dissi che mi conveniva aprirla e guardare cosa conteneva prima che la giornata finisse. Poteva trattarsi di cibo che andava messo in frigo, oppure c'era un essere vivente lì dentro, o qualcosa di molto importante. Ma ero troppo stanco per muovermi. Prima di tutto era logico supporre che in un caso del genere chi me l'aveva data mi avrebbe avvisato. Aspettai che il telefono smettesse di squillare, poi finii in un sorso il whisky, spensi la luce sul comodino e chiusi gli occhi. Immediatamente, come se non avesse aspettato altro, il sonno calò dal cielo come una gigantesca rete nera. Mentre vi sprofondavo, mi domandai come sarebbero andate a finire le cose... Mah, chi poteva dirlo?

Quando mi svegliai, la stanza era in penombra. La sveglia segnava le sei e un quarto. Del mattino o della sera? Lo ignoravo. Infilai i pantaloni, mi sporsi fuori dalla porta di casa e guardai davanti a quella dei vicini. Vidi posato lì il giornale del mattino, di conseguenza doveva essere mattina. Essere abbonati al giornale è molto pratico, in certi casi. Forse dovrei abbonarmi anch'io.

Dunque avevo dormito dieci ore. Il mio corpo reclamava altro riposo, potevo dormire ancora un po' non avendo nulla di urgente da fare, ma decisi di alzarmi. Non c'è niente che valga il piacere di alzarsi insieme al sole appena sorto. Mi lavai scrupolosamente sotto la doccia e mi feci la barba. Poi, dopo i soliti venti minuti di ginnastica, feci colazione con quello che trovai nel frigo. Era di nuovo vuoto, dovevo fare provvista. Mi sedetti al tavolo della cucina, e bevendo un succo d'arancia cominciai a scrivere a matita su un notes la lista della spesa. Un foglietto non bastò, ce ne vollero due. Ad ogni modo il supermercato non era ancora aperto, decisi di andarci più tardi, ne avrei approfittato per pranzare fuori.

Svuotai la cesta dei vestiti sporchi nel bagno e misi tutto in lavatrice. Stavo strofinando nel lavandino le scarpe da ginnastica, quando tutt'a un tratto mi ricordai del regalo che mi aveva fatto il vecchio. Lasciai a metà la scarpa destra, mi asciugai le mani su uno strofinaccio da cucina, tornai in camera da letto e presi in mano la scatola. Come il giorno prima, mi sembrò molto leggera rispetto alle dimensioni. Una leggerezza che mi procurava un'ineffabile senso di fastidio. Era eccessiva. Nella mia testa qualcosa faceva resistenza. Una sorta di sesto senso professionale, privo di un fondamento concreto.

Mi guardai intorno. La stanza era stranamente silenziosa, come se il suono fosse stato tolto. Tuttavia provai a schiarirmi la gola e produssi il rumore che mi attendevo. Presi il coltello, ne estrassi la lama e picchiai col manico contro il tavolo: anche questa volta sentii alcuni colpi sordi. Chiunque abbia sperimentato la soppressione del suono per qualche tempo avrà tendenza a trovare sospetto il silenzio. Aprii i vetri che davano sul balcone. Udendo il rumore delle macchine e il cinguettare degli uccelli, mi tranquillizzai. Evoluzione o no, il mondo è bene che abbia tutti i suoi rumori.

Ripresi il coltello e tagliai il nastro adesivo, facendo ben attenzione a non rovinare l'interno della scatola. Nella parte superiore erano stati messi dei fogli di giornale appallottolati. Aprendone un paio, vidi che si trattava di un numero del «Mainichi» di tre settimane prima senza alcuna notizia degna di nota, cosi andai a prendere in cucina un sacco di plastica per la spazzatura e ve li cacciai dentro. Anche gli altri fogli erano del «Mainichi», in tutto dovevano esserci i numeri di due settimane! Tolta la carta, trovai dei cilindri di polistirolo espanso o come diavolo si chiami, grandi come il pollice di un bambino. Mi misi a raccoglierli con entrambe le mani e a gettarli nel sacco per la spazzatura. Cosa mai ci poteva essere lì, dentro? In ogni caso era costato molto lavoro quel regalo! Tolta la metà del polistirolo espanso, di nuovo trovai dei fogli di giornale appallottolati. Leggermente irritato, tornai in cucina a prendere dal frigo una lattina di Coca-Cola, poi mi sedetti sul letto e la bevvi senza fretta. Con la lama del coltello mi accorciai un'unghia. Un uccello dal petto nero venne a posarsi sul balcone e cominciò a beccare le briciole di pane sparse lì col solito picchiettio leggero. Una pacifica mattinata.

Mi riscossi, tornai davanti al tavolo ed estrassi con precauzione dalla scatola l'oggetto avvolto nei fogli di giornale.

Tutt'intorno era fasciato con del nastro adesivo, faceva pensare a qualche opera d'arte contemporanea. La forma era quella di un'anguria allungata, ma il peso no. Tolsi dal tavolo scatola e coltello, e sul ripiano liberato cominciai a svolgere piano il nastro adesivo e i fogli di giornale. Finché non apparve il teschio di un animale.

Roba da matti, mi dissi. Perché diavolo quel vecchio si era immaginato che quel teschio mi avrebbe fatto piacere? Solo uno spostato poteva regalare a qualcuno una cosa del genere!

Nella forma assomigliava al cranio di un cavallo, ma era molto più piccolo. Stando alle mie conoscenze di zoologia, doveva essere quello di un mammifero non molto grosso, un erbivoro dal muso allungato. Provai a elencare gli animali che avevano quelle caratteristiche: il cervo, la capra, la pecora, il camoscio, l'antilope... probabilmente ce n'erano altri, ma non me li ricordavo.

Decisi di posare il teschio sul televisore. Il colpo d'occhio non era eccezionale, ma non mi venne in mente un posto migliore. Ernest Hemingway l'avrebbe messo sopra il camino, di fianco alla testa d'alce, ma nel mio appartamento non c'erano camini. Figurarsi, non c'era nemmeno una credenza o una scarpiera! L'unico posto su cui posare quell'assurdo cranio era il televisore.

Quando tolsi dal fondo della cappelliera il resto della carta per gettarla nella busta di plastica, sul fondo vidi un altro oggetto, lungo e stretto, avvolto in fogli di giornale. Erano un paio di molle da fuoco in alluminio, come quelle usate dal vecchio per battere contro i crani dei suoi animali. Le presi in mano e rimasi un attimo a osservarle. Al contrario del teschio, erano molto pesanti, inoltre possedevano il carisma della bacchetta d'avorio di un grande direttore d'orchestra.

Abbandonandomi al corso naturale degli eventi, con le molle in mano mi spostai davanti al televisore e diedi un colpo leggero al teschio, sulla fronte. Si udì una sorta di rantolo che pareva il brontolio di un grosso cane. Dal momento che mi aspettavo un rumore secco, un kon o un toc, ne rimasi un po' sorpreso, ma in fin dei conti non avevo nulla da obiettare. Se il suono che doveva fare era quello, perché recriminare? Tanto non lo cambiavo, e anche supponendo il contrario, non avrei fatto avanzare la situazione.

Quando mi stufai di guardare il teschio e di batterci contro, mi allontanai dal televisore, andai a sedermi sul letto, mi misi il telefono sulle ginocchia e feci il numero dell'Agenzia del Sistema: volevo controllare la mia agenda di lavoro. Mi rispose il mio referente, il quale mi disse che se ero d'accordo mi aveva fissato un incarico quattro giorni dopo. Nessun problema, risposi. Fui anche tentato di controllare con lui la faccenda dello shuffling, per evitare grane in futuro, poi cambiai idea, chi me lo faceva fare? I documenti erano in regola, e la paga già fissata. Inoltre il vecchio mi aveva spiegato che per mantenere la segretezza aveva evitato di passare dagli agenti ufficiali. Meglio non complicare le cose.

Tantopiù che non avevo una gran simpatia per il mio referente. Era un uomo alto e magro, sulla trentina, il tipo sempre convinto di essere il più bravo in tutto. Il genere di persona con cui cerco di evitare ogni polemica.

Dopo aver sistemato nel modo più spiccio i dettagli burocratici, riagganciai, mi sedetti sul divano del soggiorno, aprii una lattina di birra e guardai la videocassetta di un film con Humphrey Bogart, L'isola di corallo. Adoro Lauren Bacall in quel film. Ovviamente mi piace anche nel Grande sonno, ma nell'Isola di corallo non so perché mi sembra che abbia qualcosa di speciale che le manca negli altri film. Per capire di cosa si tratti ho rivisto la videocassetta parecchie volte, ma ancora non ho trovato una risposta. Può darsi che sia una qualità allegorica necessaria per semplificare l'esistenza umana. Ma non posso affermare nulla di preciso.

Mentre guardavo in silenzio lo schermo, i miei occhi andavano di continuo al teschio che vi era posato sopra, di conseguenza non riuscivo a concentrarmi sulle immagini. Arrivato alla scena del tifone rinunciai a vedere il seguito del film e spensi il videoregistratore, restando a bere la mia birra e a guardare distrattamente il teschio sopra il televisore. A poco a poco cominciai a provare l'impressione di averlo già visto da qualche parte. Dove, quando? Nulla, non mi veniva in mente nulla. Tirai fuori da un cassetto una maglietta e la misi sul teschio, poi ripresi a guardare L'isola di corallo. Finalmente potevo concentrarmi su Lauren Bacall!

Alle undici uscii di casa. Feci un po' di spesa al supermercato vicino alla stazione mettendo nel carrello quello che mi capitava sotto mano, andai al negozio di bibite e comprai del vino rosso, seltz e succo d'arancia. Passai in tintoria a ritirare una giacca e due camicie, comprai una penna biro, della carta da lettere e delle buste in cartoleria, una pietra per affilare a grana fine nel negozio di ferramenta. Poi acquistai due riviste in libreria, delle lampadine e delle cassette per lo stereo dall'elettricista, una pellicola per Polaroid dal fotografo. Già che c'ero mi recai anche in un negozio di musica e comprai alcuni dischi. Buste piene di roba occupavano tutto il sedile posteriore della mia utilitaria. Credo che fare acquisti sia un piacere innato in me. Esco raramente, ma ogni volta metto insieme una montagna di piccole cose, come uno scoiattolo a novembre.

D'altronde avevo comprato la macchina proprio a quello scopo. Un giorno, non riuscendo a portare tutte le cose che avevo acquistato, avevo preso quella decisione. Gli occhi mi erano caduti su un rivenditore di auto usate, ed ero entrato con le borse della spesa sulle braccia. C'erano automobili di tutti i tipi. Non ne vado pazzo e non ci capisco granché, così avevo detto: «Vorrei una macchina, una qualunque, purché non sia troppo grossa».

L'uomo di mezza età che era venuto a servirmi era andato a prendere un catalogo perché potessi scegliere il modello, ma io non avevo nessuna voglia di consultare un catalogo e gli avevo spiegato che desideravo semplicemente una vettura per fare la spesa. Non mi serviva per fare viaggi con la famiglia, sfrecciare sulle autostrade o portare in giro ragazze. Non avevo bisogno di un motore potente, né di un condizionatore d'aria, di un'autoradio, di un tettino apribile o di gomme speciali. Tutto quello che volevo era una macchina maneggevole, sicura, che non impestasse l'aria con i gas di scarico, non fosse troppo rumorosa e non mi lasciasse a piedi: una piccola vettura di buona qualità, insomma. E se fosse stata blu scuro non avrei avuto obiezioni.

Quella che l'uomo mi aveva proposto era un'utilitaria gialla di marca nazionale. Il colore non mi entusiasmava, ma provando a guidarla l'avevo trovata di mio gusto, oltre che maneggevole. Aveva una linea semplice, nessun dispositivo speciale, il che mi andava benissimo, e trattandosi di un modello vecchio non era nemmeno cara.

«È così che dev'essere un'automobile, sostanzialmente, - aveva detto il commesso di mezza età. - Se devo proprio essere sincero, mi chiedo cos'abbia in testa la gente».

Gli avevo risposto che ero d'accordo con lui.

Ecco come mi ero procurato una macchina per fare spese. Non avevo altre occasioni di usarla.