3. Il paese delle meraviglie
Una mantellina per la pioggia - Gli Invisibili - Un tipo di lavaggio.
Fui introdotto in una vasta stanza vuota. Le pareti e il soffitto erano bianchi, la moquette color caffè: due tinte belle e di buon gusto. Si fa presto a dire bianco, c'è quello raffinato e quello dozzinale, ogni sfumatura ha un suo carattere proprio. I vetri delle finestre non erano trasparenti e non lasciavano vedere il paesaggio al di là, ma la luce tranquilla che ne veniva era senza possibilità d'errore quella del sole. Quindi non eravamo nei sotterranei, l'ascensore era davvero salito. A questa constatazione provai un certo sollievo, i miei sensi non mi avevano ingannato. Poiché la ragazza mi faceva cenno di sedermi, mi accomodai sul divano di pelle che si trovava in mezzo alla stanza e incrociai le gambe. Subito dopo lei uscì da una porta diversa da quella da cui eravamo entrati.
Nella stanza non c'era quasi mobilia. Sul tavolino davanti al divano erano posati un accendisigari di ceramica, un portacenere e un portasigarette. Provai ad aprire quest'ultimo, ma era vuoto. Alle pareti non erano appesi quadri, calendari o fotografie. Non c'era un solo oggetto superfluo.
Di fianco alla finestra si trovava un'ampia scrivania. Per guardare cosa c'era sopra mi alzai e andai a mettermi davanti alla finestra. Il ripiano, solido e spesso, era stato ricavato da un solo pezzo di legno, e da entrambi i lati c'erano grandi cassetti. Sul ripiano erano posate una lampada, tre penne biro e un'agenda. Un pugno di fermagli sparpagliati. Gettando un'occhiata all'agenda, vidi che era aperta alla data del giorno.
In un angolo della stanza c'erano tre contenitori in acciaio, che stonavano completamente con l'atmosfera generale. Dozzinale mobilia d'ufficio, troppo arida. Se fosse dipeso da me, avrei messo degli armadietti in legno, più eleganti, ma quella non era casa mia. Ero venuto lì solo per ragioni di lavoro, e che ci fossero dei contenitori grigi o dei jukebox rosa pesca non era cosa che mi riguardasse.
Sulla parete sinistra era incassato un armadio con una porta a soffietto lunga e stretta. Non c'erano altri oggetti. Nemmeno un orologio, un telefono, un temperino, una brocca d'acqua. O uno scaffale, un contenitore per lettere. Non riuscivo a immaginare a cosa servisse quella stanza, per cosa venisse usata. Tornai a sedermi sul divano, incrociai di nuovo le gambe e sbadigliai.
Passati dieci minuti, la ragazza ricomparve. Senza degnarmi di uno sguardo aprì lo sportello di uno dei due contenitori, ne tirò fuori un involucro nero e reggendolo con entrambe le braccia lo portò sulla scrivania. Si trattava di una mantellina per la pioggia e di un paio di stivali di gomma. Sul tutto erano posati degli occhiali come quelli che portavano i piloti durante la prima guerra mondiale. Cosa stava per succedere? Non ne avevo la minima idea.
La ragazza si voltò verso di me e disse qualcosa, ma mosse le labbra troppo in fretta e non capii nulla.
- Potrebbe parlare un po' più adagio, per favore? - chiesi. - Non sono molto bravo a leggere sulle labbra.
Lei ripeté le stesse parole lentamente, muovendo in modo chiaro la bocca. - Indossi questa roba sopra i vestiti -. A dir la verità non ne avevo alcuna voglia; ma mettermi a discutere era ancora più seccante, così seguii senza protestare le sue indicazioni. Mi tolsi le scarpe da ginnastica e infilai gli stivali di gomma, quindi indossai la mantellina sopra i pantaloni e la camicia. La mantellina era pesantissima e gli stivali un paio di numeri troppo grandi, ma di nuovo preferii non fare obiezioni. La ragazza venne a mettersi davanti a me e mi abbottonò la mantellina fino ai malleoli, poi mi tirò bene il cappuccio sulla testa. Nel farlo mi sfiorò la punta del naso con la fronte liscia.
- Che buon profumo, - dissi, un complimento per la sua acqua di colonia.
Lei formò un «grazie» con le labbra e mi strinse i lacci del cappuccio fin sotto le narici. Poi mi mise gli occhiali da pilota. Ero diventato una specie di mummia equipaggiata per la pioggia.
A quel punto la ragazza aprì la porta dell'armadio, mi prese per mano e mi spinse dentro. Quindi accese la luce e chiuse la porta dietro di sé. Si trattava di un normalissimo armadio-guardaroba, ma di vestiti non ce n'erano: appesi alla sbarra vidi soltanto delle grucce e alcuni sacchetti di naftalina. Probabilmente, mi dissi, non era quello che sembrava, bensì una sorta di passaggio segreto camuffato. Altrimenti che senso aveva farmi indossare una mantellina da pioggia e chiudermi lì dentro?
La ragazza armeggiò con una maniglia metallica in un angolo, finché un pannello della parete di fronte, grande come il portellone posteriore di un'utilitaria, non si aprì in avanti. Al di là era tutto buio, ma sentii nettamente il soffio di una corrente d'aria umida e fredda. Molto sgradevole. Si udiva anche un fragore continuo d'acqua.
- Laggiù scorre un torrente, - disse lei. Il suo silenzioso modo di parlare ora sembrava più reale. Come se stesse davvero pronunciando le parole ma la sua voce fosse coperta dal rumore dell'acqua. Avevo anche l'impressione di capirla meglio. Molto, molto strano.
- Risalendo il corso del torrente, arriverà a una grande cascata. Ci passi sotto, per favore. Dall'altra parte c'è lo studio del nonno. Una volta lì, il resto le sarà chiaro.
- Dall'altra parte ci sarà suo nonno ad aspettarmi?
- Esatto, - rispose la ragazza dandomi una grossa pila elettrica a prova d'acqua cui era attaccata una cinghia. L'idea di inoltrarmi in quell'oscurità non mi sorrideva affatto, ma a quel punto protestare non aveva senso: trattenni il fiato e infilai un piede in quel buco nero spalancato. Poi mi piegai e misi dentro la testa, le spalle, per ultima la gamba rimasta fuori. Tutto avviluppato com'ero nella mantellina, non fu impresa da poco, ma in qualche modo riuscii a portarmi oltre la parete dell'armadio. Mi voltai a guardare la ragazza rimasta dall'altra parte. Osservandola dal buio, attraverso gli occhiali da pilota, la trovai terribilmente carina.
- Faccia attenzione. Non deve assolutamente allontanarsi dal fiume o prendere qualche sentiero laterale, - disse chinandosi a guardarmi.
- Sempre diritto fino alla cascata.
- Sempre diritto fino alla cascata.
Tanto per provare, mossi le labbra a formare la parola «sela», senza suono.
- Sela, - ripeté lei ridendo, poi chiuse con decisione la porta.
Mi ritrovai nel buio totale. Tenebre compatte, non il più fioco barlume di luce. Non vedevo assolutamente nulla. Neanche la mia mano se me la portavo davanti alla faccia. Rimasi qualche momento fermo e imbambolato dove mi trovavo, frastornato come se avessi ricevuto un colpo. Un freddo senso di impotenza mi pervase, mi sembrava di essere un pesce buttato nel congelatore e lasciato lì, avvolto nella pellicola. La sorpresa di ritrovarmi di colpo nelle tenebre mi tolse per qualche secondo le forze. Se doveva proprio chiudere la porta, quella ragazza avrebbe almeno dovuto avvisarmi.
Schiacciai a tentoni l'interruttore della lampada e subito un gradito raggio di luce gialla tracciò una linea diritta attraverso il buio. Prima di tutto illuminai il terreno ai miei piedi e osservai attentamente lo spazio intorno. Mi trovavo su una piattaforma quadrata di cemento, di tre metri di lato, oltre la quale si apriva un baratro di cui non si vedeva il fondo. Nessuna barriera, nessuna recinzione. Anche di questo avrebbe dovuto avvisarmi, mi dissi un po' arrabbiato.
Su un lato della piattaforma c'era una scala a pioli di alluminio per calarsi giù. Mi attaccai la lampada al petto con la cinghia e cominciai a scendere uno alla volta i gradini sdrucciolevoli, facendo ben attenzione a dove mettevo i piedi. Man mano che scendevo il rumore dell'acqua diventava più forte e chiaro. Al di là di un armadio, in un palazzo, si apriva un baratro in fondo al quale scorreva un fiume. Inaudito! E nel bel mezzo di Tokyo, per giunta. Solo a pensarci mi veniva il mal di testa. Prima quell'assurdo ascensore, poi la ragazza grassa che parlava senza emettere suoni, e ora questa roba. Forse facevo meglio a rinunciare all'incarico e tornarmene a casa. I pericoli erano troppi, non c'era nulla che avesse il minimo senso. Ciononostante mi rassegnai a scendere in quel baratro buio. Da una parte per orgoglio professionale, dall'altra a causa della ragazza dal tailleur rosa. Per qualche misterioso motivo mi piaceva, e non avevo alcuna intenzione di mollare tutto e ritirarmi in buon ordine.
Dopo essere sceso per venti gradini, mi fermai ed emisi un profondo sospiro. Altri diciotto gradini. E finalmente toccai col piede il terreno. Fermo accanto alla scala, perlustrai scrupolosamente con la lampada lo spazio intorno. Mi trovavo su una roccia piatta e dura, oltre la quale, un paio di metri più in là, scorreva il fiume. Nel fascio di luce vidi la superficie dell'acqua ondeggiare come una bandiera. La corrente era piuttosto rapida, ma non riuscivo a valutarne la profondità né a distinguerne il colore. L'unica cosa che capii era che andava da sinistra a destra.
Facendo luce ai miei piedi, mi incamminai lungo la riva in senso contrario alla corrente. Ogni tanto vicino a me sentivo muoversi qualcosa che cercavo di illuminare svelto con la lampada, ma non vedevo mai niente. Solo il fiume e le ripide pareti rocciose sui due lati. Probabilmente avevo i nervi a fior di pelle a causa dell'oscurità. Passati cinque o sei minuti, dalla mutata risonanza dell'acqua capii che il soffitto ora era più basso. Diressi verso l'alto il raggio luminoso, ma si perse nell'oscurità. Vidi che sulle pareti laterali si aprivano dei sentieri, come mi aveva detto la ragazza. Anzi, più che sentieri erano delle fenditure nella roccia, dalle quali fuoriuscivano rivoli che andavano a unirsi al fiume in torrentelli. Provai a far luce in uno di quegli anfratti ma non vidi nulla, mi parve soltanto che al fondo diventasse molto più largo che all'ingresso. Infilarmi lì dentro? No grazie, un'altra volta.
Tenendo la pila ben salda nella mano destra, continuai a risalire lungo la riva, nello stato d'animo di un pesce in fase di mutazione. La roccia era bagnata e scivolosa, dovevo avanzare adagio, facendo ben attenzione a dove mettevo i piedi. Nel buio totale in cui mi trovavo, se facevo un passo falso e finivo in acqua o lasciavo cadere la lampada, ero spacciato.
Avendo concentrato tutta l'attenzione sui miei piedi, non mi accorsi subito del fievole lumino che oscillava un po' più in su. Alzando gli occhi me lo trovai di fronte, a sette o otto metri di distanza. Per riflesso spensi la lampada, infilai la mano nell'apertura della mantellina e tirai fuori il coltello dalla tasca dei pantaloni. Feci scattare la lama. L'oscurità e il rumore dell'acqua mi coprirono.
A quel punto la debole luce gialla iniziò a muoversi, disegnando due ampi cerchi nell'aria. In qualche modo mi sembrò che volesse tranquillizzarmi, andava tutto bene. Ciononostante rimasi sulla difensiva, in attesa che «loro» venissero allo scoperto. La luce ricominciò a spostarsi. Per quel che ne sapevo poteva appartenere a un insetto gigantesco, fornito di un cervello altamente sviluppato, che veniva verso di me oscillando. Rimasi fermo a guardare, il coltello ben stretto nella mano destra, la pila elettrica spenta nella sinistra.
A tre metri da me la luce smise di avanzare, si spostò di colpo verso l'alto, di nuovo si fermò. Era così fioca che all'inizio non riuscii a capire cosa cercasse di illuminare, ma aguzzando lo sguardo mi resi conto che si trattava della faccia di un uomo. Un uomo che portava come me degli occhiali da pilota e un cappuccio nero in testa. Teneva in mano una piccola lanterna, di quelle che si comprano nei negozi di sport. Mentre si illuminava il viso stava disperatamente cercando di dirmi qualcosa, ma a causa del fragore dell'acqua non si sentiva nulla, ed era troppo buio per leggergli sulle labbra.
-... perché... questa è la causa... Lei cosa... mi dispiace, inoltre... - mi parve che dicesse, ma trarre un senso da quelle parole era impossibile. Ad ogni modo l'uomo non sembrava pericoloso, così riaccesi la pila elettrica e mi illuminai la faccia di lato, mentre con le dita mi indicavo le orecchie per fargli capire che non sentivo nulla.
L'uomo parve convincersi perché dopo aver annuito più volte posò la lanterna a terra, mise le mani nelle tasche della mantellina e così rimase con aria impacciata, finché il rombo dell'acqua che riempiva la spazio non incominciò a diminuire, come una marea che improvvisamente si ritiri. Stavo per svenire, ne ero certo. La mia coscienza si stava offuscando, era per questo che il rumore si allontanava dalla mia testa. Tesi i muscoli - chissà poi perché dovevo svenire? - per prepararmi alla caduta.
Passati alcuni secondi, ero sempre in piedi e perfettamente lucido. Soltanto il rumore continuava a diminuire.
- Le sono venuto incontro, - disse l'uomo. Questa volta udii benissimo la sua voce.
Scossi la testa, mi misi la pila elettrica sotto l'ascella, chiusi il coltello e lo rinfilai in tasca. Avevo il presentimento che avrei passato una giornata assurda.
- Dov'è finito quel rumore tremendo? - chiesi.
- Il rumore dell'acqua?... Già, era troppo forte, mi scusi, l'ho abbassato. Ora è tutto a posto, - rispose l'uomo annuendo più volte. Il fragore del fiume si era trasformato nel mormorio di un ruscello. - Allora, andiamo? - aggiunse voltandomi la schiena, e si incamminò con passo sicuro in senso contrario alla corrente. Io lo seguii, illuminando con la lampada il suolo ai miei piedi.
- Cosa significa che ha abbassato il rumore? Che è prodotto artificialmente? - chiesi, parlando in direzione della sua schiena.
- No, è un suono del tutto naturale.
- Se è naturale, come ha fatto ad abbassarlo?
- Per essere precisi, non l'ho abbassato: l'ho soppresso.
La risposta mi lasciò interdetto, ma decisi di non insistere.
Non ero nella posizione di porre domande. Ero venuto per ragioni di lavoro, e i miei clienti potevano abbassare il suono, sopprimerlo o frullarlo come champagne, non erano affari miei. Di conseguenza stetti zitto e proseguii.
C'era una gran quiete, ora che il rumore era cessato, al punto che sentivo cigolare i miei stivali di gomma. Sopra la mia testa sentii due o tre volte uno strano scricchiolio, come se qualcuno sbriciolasse dei sassolini, ma anche quello cessò.
- Ho trovato dei segni che gli Invisibili si sono intrufolati qui dentro, - disse l'uomo, - così le sono venuto incontro, ero preoccupato. Di solito non riescono ad arrivare fin qui, ma a volte succede. È un bel problema.
- Gli Invisibili?
- Dica la verità, non si sarebbe mai immaginato che si spingessero fin qua sotto, vero? - disse l'uomo con una sonora risata.
- No, certo... - risposi, fingendo di capire. Invisibili o cosa diavolo fossero, non avevo alcuna voglia di imbattermi in qualche strana creatura in quella caverna buia.
- Per questo le sono venuto incontro, - ripeté l'uomo. - Pericolosissimi, gli Invisibili.
- Grazie, molto gentile da parte sua.
Procedemmo per qualche minuto, finché non ci arrivò un rumore d'acqua scrosciante, come se ci fosse un rubinetto aperto da qualche parte. Era la cascata. Con la lampada feci subito luce in quella direzione, e la vidi. Non riuscivo a distinguerla bene, ma pareva piuttosto grande: se il suono non fosse stato abbassato avrebbe prodotto un rombo assordante. Quando ci fermammo davanti, gli spruzzi mi bagnarono completamente gli occhiali.
- Dobbiamo passare qua sotto, vero? - chiesi.
- Esatto, - rispose l'uomo, poi senza aggiungere altro avanzò in direzione della cascata e sparì sotto le sue acque. Non potei far altro che affrettarmi a seguirlo.
Passammo dalla parte dove la portata d'acqua era minore, per fortuna, eppure il getto aveva una forza tale da inchiodarmi al suolo. Era una cosa a dir poco stupida che uno, per quanto protetto da un impermeabile, dovesse prendersi tutta quell'acqua addosso ogni volta che entrava nel proprio studio. Probabile che si trattasse di una misura di sicurezza e che esistesse anche un ingresso più agevole. All'interno della cascata caddi e andai a sbattere violentemente contro la roccia. L'assenza di suono mi aveva fatto perdere il senso della proporzione con la realtà che avrebbe dovuto produrlo, il che mi aveva messo in uno stato confusionale. Una cascata dovrebbe fare il rumore di una cascata.
Sul fondo si apriva un cunicolo abbastanza largo da far passare una persona, chiuso all'altra estremità da una porta di ferro. L'uomo estrasse dalla tasca della mantellina una sorta di microcalcolatrice, la infilò nella serratura e armeggiò per qualche secondo, finché la porta non si aprì silenziosamente verso l'interno.
- Be', eccoci arrivati. Prego, si accomodi, - disse cedendomi il passo, poi entrò anche lui e richiuse la porta alle sue spalle.
- È stata una bella impresa, eh? - fece.
- Non posso negarlo, ma...
Tutto bardato com'era, con cappuccio, occhiali e lanterna appesa al collo, l'uomo rise. Una risata strana, come dei colpi di tosse.
La stanza dove eravamo entrati sembrava lo spogliatoio di una piscina, un vasto locale disadorno provvisto di scaffali sui quali erano allineati una mezza dozzina di equipaggiamenti simili a quelli che indossavamo noi: mantelline, stivali, occhiali di gomma. Mi tolsi gli occhiali e la mantellina e li appesi a un attaccapanni, posai gli stivali su uno scaffale, infine agganciai la pila elettrica a un uncino nel muro.
- Spiacente di averle procurato tutti questi fastidi, - disse l'uomo. - Ma sulle misure di sicurezza non si transige. Stanno in agguato, quelli lì, se non faccio più che attenzione sono pronti a cogliermi in fallo.
- Gli Invisibili? - chiesi, tirando a indovinare.
- Esatto. Proprio loro, tanto per cominciare, - rispose l'uomo annuendo tra sé.
Poi mi guidò in una sala oltre lo spogliatoio. Senza l'impermeabile nero, era un vecchio signore normalissimo, molto cortese. Non si poteva dire che fosse grasso, ma aveva una corporatura robusta e sembrava piuttosto forte. Aveva un colorito sano, e quando estrasse dalla tasca gli occhiali senza montatura e se li mise, assunse l'aria di un ministro d'anteguerra.
Mi invitò a sedermi sul divano mentre lui prendeva posto dietro la scrivania. La stanza era la copia esatta della prima dove mi avevano fatto entrare. Il colore della moquette, le lampade, la carta alle pareti, tutto era identico. Sul tavolino davanti al divano erano posati gli stessi oggetti. Sulla scrivania, un'agenda e dei fermagli. Come se avessi girato in tondo e fossi tornato nella stessa stanza. Forse era proprio così, non ricordavo esattamente in che modo fossero sparpagliati i fermagli.
Il vecchio passò alcuni secondi a osservarmi. Poi prese un fermaglio, lo raddrizzò e cominciò a raschiarsi la pellicina di un'unghia. Quella dell'indice della mano sinistra. Quando ebbe finito, gettò il fermaglio ormai inservibile nel portacenere. Se fossi nato una seconda volta, mi dissi, tutto volevo essere tranne un fermaglio da carta. Ti raddrizzano per raschiare le pellicine delle unghie di un vecchio assurdo e poi ti gettano via. No grazie.
- Stando alle informazioni che ho, gli Invisibili si sono alleati con i Semiotici, - disse il vecchio. - Questo non significa che abbiano stretto un vero e proprio patto, ovviamente. Gli Invisibili sono molti prudenti, e i Semiotici pieni di impegni. La loro alleanza dev'essere solo ai preliminari. Pessimo segno, comunque. Non dovrebbero bazzicare da queste parti, gli Invisibili, e invece ogni tanto fanno capolino. Brutta faccenda. Di questo passo, prima o poi ce ne sarà un'invasione anche qui. E in tal caso per me sarebbe un bel guaio.
- In effetti... - dissi. Non riuscivo nemmeno a immaginare che razza di roba fossero, questi Invisibili, ma se avevano stretto alleanza con i Semiotici per qualche obiettivo comune, anche per me le cose si mettevano male. Noi e i Semiotici, cioè, eravamo in forte competizione, sul filo di un equilibrio delicatissimo, e bastava un nonnulla perché tutto andasse a rotoli. Tanto per cominciare, io non conoscevo gli Invisibili mentre loro conoscevano me, e già questo alterava il rapporto di forze. Inoltre, se ignoravo la loro esistenza, era solo perché svolgevo un ruolo secondario in maniera autonoma, ma i capi dovevano esserne informati già da un bel pezzo.
- Comunque sia, se lei è d'accordo le chiederei di mettersi subito al lavoro, - disse il vecchio.
- Per me va bene, - risposi.
- Ho domandato all'Agenzia di mandarmi il Cibermatico più in gamba che ci fosse. Lei ha un'ottima reputazione, sa? Dicono tutti un sacco di bene di lei. Che è bravo, coraggioso, preciso. Nessuna critica, a parte il fatto che ha poco spirito di gruppo.
- Molto obbligato, - dissi. Sono un tipo modesto.
Di nuovo il vecchio scoppiò nella sua forte risata a colpi di tosse.
- Non so che farmene dello spirito di gruppo. L'importante è il coraggio. Se uno non ha coraggio, non diventerà mai un Cibermatico di prima classe. D'altronde è proprio per questo che il suo onorario è così alto.
Non avendo nulla da dire, rimasi in silenzio. Il vecchio rise di nuovo, poi mi guidò nel laboratorio attiguo.
- Sono un biologo. Ma il mio campo di ricerca è estremamente vasto, non si può riassumere in una parola. Neurofisiologia, acustica, linguistica, teologia comparata... Studi importanti e originali, mi scusi se mi faccio i complimenti da solo. In questo momento sto svolgendo una ricerca sul palato dei mammiferi.
- Il palato dei mammiferi?
- Sì, la bocca. La struttura della bocca. Come si muove, in che modo emette la voce, sto studiando questo genere di cose. Guardi qui, per favore.
Il vecchio premette un interruttore e accese le luci nel laboratorio. La parete di fondo era completamente coperta da scaffali sui quali erano allineati i teschi di ogni possibile mammifero esistente al mondo. Dalla giraffa al cavallo, al panda, al topo, c'erano tutti quelli di cui mi ricordassi. In totale dovevano essere tre o quattrocento. Ovviamente c'erano anche dei teschi umani, appartenenti a persone di ogni razza - bianchi, neri, asiatici, indios - sempre a due a due, un maschio e una femmina.
- Le balene e gli elefanti sono conservati nel magazzino sotterraneo. Come si può immaginare, prendono parecchio posto.
- Non lo metto in dubbio, — dissi. Aveva ragione, un paio di teschi di balena avrebbero riempito la stanza.
Gli animali avevano tutti la bocca spalancata, come se si fossero messi d'accordo, e fissavano la parete di fronte con le orbite vuote. Erano solo degli esemplari da laboratorio, ma esserne circondati non era esattamente una cosa allegra. Sugli altri scaffali erano disposti in ordine dei vasi - in. numero inferiore ai teschi - contenenti diversi tipi di organi in formalina: lingue, orecchie, labbra ed esofagi.
- Be', cosa ne pensa? Bella collezione, no? - fece il vecchio in tono soddisfatto. - Al mondo c'è chi colleziona francobolli, dischi, chi accumula bottiglie di vino in cantina, ci sono persino dei riccastri che tengono file di carri armati in giardino, per puro divertimento. Io invece colleziono teschi. Il mondo è bello perché è vario. Non crede?
- Sì, certo.
- Ho cominciato a interessarmi ai teschi dei mammiferi quando ero relativamente giovane, e a poco a poco ne ho messi insieme un bel numero. Ormai sono quasi quarant'anni. Ci vuole più tempo di quanto uno si immagini per capire uno scheletro. In un certo senso, è più facile capire la gente in carne e ossa. Ne sono fermamente convinto. Ma a un giovane della sua età di sicuro interessa di più la carne, oh, oh, oh! - Di nuovo il vecchio scoppiò in una risata. - Quanto a me, mi ci sono voluti trent'anni per percepire il suono che emettono le ossa. Trent'anni. Un sacco di tempo, non crede?
- Il suono delle ossa? - chiesi interdetto. - Le ossa emettono un suono?
- È evidente. Ogni osso ha il suo suono specifico, caratteristico. Diciamo che lo si può paragonare a un segnale nascosto. Le ossa parlano, alla lettera, non è un'allegoria. L'obiettivo della mia ricerca attuale è decodificare quel segnale. E quando ci sarò riuscito, lo si potrà manipolare artificialmente.
- Oh... - feci. Non afferravo bene tutte le implicazioni della scoperta, ma se le cose stavano davvero come diceva il vecchio, si trattava di una ricerca importantissima, non c'era dubbio. - Sembrano proprio studi di grande interesse, - commentai.
- Infatti, - rispose lui annuendo. - È per questo che quelli lì vorrebbero metterci le mani sopra. Hanno l'udito fine, sa? E vorrebbero usare i miei studi per fini nefandi. Metta che dalle ossa si possa risalire alla memoria, ad esempio, non ci sarebbe neanche più bisogno della tortura. Basterebbe uccidere la persona in questione, scarnificarla e pulire bene lo scheletro.
- Che orrore!
- Ad ogni modo, che sia un bene o un male, la ricerca non è ancora arrivata fin lì. Per il momento si può risalire più facilmente alla memoria estraendo il cervello.
- Pazzesco, - dissi. Che si trattasse delle ossa o del cervello, una volta separati dal corpo, non era la stessa cosa?
- È proprio per questo che ho chiesto il suo aiuto. Perché i dati dei miei esperimenti non vengano rubati dai Semiotici, - disse il vecchio con espressione seria. - La civilizzazione si trova in grave pericolo perché la scienza viene usata per diversi scopi, sia buoni sia cattivi. Io sono convinto che la scienza debba esistere solo ed esclusivamente per se stessa.
- Le convinzioni non sono il mio forte, - intervenni, - ma c'è una cosa che vorrei mettere in chiaro. Una questione pratica. La richiesta di svolgere questo lavoro non mi è pervenuta dalla direzione del Sistema, e nemmeno dall'Agenzia Ufficiale, ma direttamente da lei. È una cosa del tutto anomala. Parliamoci chiaro, è possibile che sia contrario alle regole. E in tal caso io verrei penalizzato, e perderei la mia licenza. Questo lo sa, vero?
- Lo so benissimo, - rispose il vecchio. - E capisco la sua inquietudine. La richiesta però è regolare, stia tranquillo, è stata autorizzata dal Sistema. Soltanto che per mantenere il segreto ho preso contatto direttamente con lei, senza passare dell'amministrazione. Ma non corre alcun pericolo di sanzioni.
- Me lo garantisce?
Il vecchio aprì uno dei cassetti della scrivania, ne estrasse una cartellina e me la porse. La aprii. Era vero, conteneva una richiesta ufficiale alla direzione del Sistema. C'era tutto, formulari e firme.
- D'accordo, - dissi restituendo la cartellina al vecchio. - La mia categoria è doppio-valore, per lei va bene? Doppio-valore significa...
- Che si fa pagare il doppio del normale. Mi va benissimo. Anzi, aggiungiamoci un extra e facciamo triplo-valore.
- Molto generoso da parte sua.
- Sono calcoli della massima importanza, e in più l'ho fatta passare sotto una cascata, oh, oh, oh!
- Vorrei vedere i dati numerici. Dopo potremo stabilire la procedura. Chi di noi eseguirà i calcoli al computer?
- Io, se non ha nulla in contrario. Userò il mio. Lei dovrebbe occuparsi di tutto quello che viene prima e dopo.
- D'accordo. Mi semplifica il lavoro.
Il vecchio si alzò dalla sedia e toccò un punto nella parete alle sue spalle. Uno sportello si aprì con uno scatto in quello che sembrava un banale muro. Quel posto era una galleria di marchingegni. Il vecchio prese dalla cassetta di sicurezza un altro fascicolo, poi richiuse lo sportello. La parete era di nuovo intatta, una normalissima superficie bianca. Presi il fascicolo e lessi i dati riportati su sette pagine: semplici valori numerici che non presentavano alcun problema.
- Se è tutto qui, basta un lavaggio, - dissi. - Con una categoria di frequenza di questo livello, non c'è pericolo che venga creato un ponte temporaneo. Ovviamente a rigor di logica non è escluso, ma non sarebbe possibile provarne la legittimità. E se non la si può provare, si deve ammettere la possibilità di errore. Sarebbe come attraversare un deserto senza compasso. L'ha fatto solo Mosè.
- Mosè ha attraversato anche il mare.
- Storia antica. Per quel che ne so io, a questo livello non si è mai verificato un caso di intrusione da parte dei Semiotici.
- Vuol dire che una conversione singola è sufficiente?
- Una conversione doppia sarebbe troppo pericolosa. È vero che ridurrebbe a zero la possibilità di creare un ponte temporaneo, ma a questo stadio sarebbe un'operazione acrobatica. Il processo di conversione non è ancora definito con sufficiente chiarezza. Diciamo che è a metà strada.
- Non intendo una doppia conversione, - disse il vecchio, ricominciando a raschiarsi le pellicine delle unghie con un fermaglio. Questa volta era il dito medio della mano destra.
- Cosa vuol dire?
- Sto parlando di shuffling. Dissimulare i dati. Vorrei che lei facesse un lavaggio e dissimulasse i dati. È per questo che l'ho chiamata. Se si trattava soltanto di un lavaggio, non c'era bisogno di lei.
- Non capisco, - dissi incrociando le gambe nell'altro senso. - Come fa a essere al corrente dello shuffling? Sono informazioni ultrasegrete che nessuna persona esterna dovrebbe conoscere.
- Invece le conosco. Ho un canale diretto di comunicazione con i gradi alti del Sistema.
- Allora se ne serva per verificare. Mi ascolti bene, in questo momento ogni operazione di shuffling è congelata. Il perché non lo so. Probabilmente è insorto qualche problema. Ad ogni modo è vietato farlo. Se venissi scoperto, non me la caverei con una sanzione.
Il vecchio mi porse di nuovo la cartellina con i dati.
- Legga bene l'ultima pagina. Dovrebbe trovarci il permesso di effettuare uno shuffling.
Feci come mi diceva, aprii il fascicolo all'ultima pagina e la percorsi con gli occhi. Aveva ragione lui, si dava proprio il permesso di fare operazioni di shuffling. Un permesso ufficiale, lo lessi e rilessi più volte. Cosa diavolo avevano in testa, i gradi alti del Sistema? Prima ti davano l'ordine di scavare una fossa, poi ti dicevano di riempirla, e la volta seguente dovevi scavarla di nuovo. E a finire nei pasticci erano sempre quelli come me, quelli che operavano sul campo.
- Potrebbe farmi una copia a colori completa di questa richiesta, per favore? Senza una copia, in caso di emergenza potrei trovarmi in una posizione molto pericolosa.
- Certamente, - disse il vecchio. - Certamente gliene darò una copia. Può stare tranquillo. La pratica è stata effettuata in maniera del tutto regolare, non ci sono punti oscuri. Quanto al suo compenso, oggi ne avrà la metà, il resto quando mi consegnerà il lavoro finito. Se non ha obiezioni.
- Per me va bene. Il lavaggio lo faccio qui, adesso. Dopodiché, i dati lavati me li porto a casa e lì procederò allo shuffling. È un'operazione che richiede un'estrema cautela. Quando avrò finito, le riporterò i dati.
- Ho assolutamente bisogno di averli fra tre giorni, a mezzogiorno.
- C'è tutto il tempo.
- Mi raccomando, niente ritardi, - insistette il vecchio. - Se non ce la facesse, sarebbe un vero disastro.
- Cascherebbe il mondo? - chiesi.
- In un certo senso, - rispose il vecchio in tono molto serio.
- Non si preoccupi. Non è mai successo che abbia consegnato un lavoro in ritardo, - lo rassicurai. - Mi scusi, potrei avere un bricco di caffè caldo e dell'acqua ghiacciata, per favore? E qualcosa da mangiare. Ho l'impressione che sarà un lavoro lungo.
Le mie previsioni erano esatte, il lavoro richiese molto tempo. I valori numerici in sé erano relativamente semplici, ma la graduatoria dei fattori determinanti i casi era vastissima, e il calcolo molto più complicato di quanto avessi giudicato a prima vista. Inserii i dati ricevuti nella parte destra del cervello, poi, dopo averli convertiti in segnali del tutto diversi, li spostai nella parte sinistra e li riportai su un foglio di carta, trasformati in numeri differenti da quelli originali. Questo è il lavaggio, in parole semplici è a questo che si riduce. I codici di conversione variano da un Cibermatico all'altro. Questo codice si differenzia dalle tabulazioni numeriche disordinate per la sua natura di diagramma. Insomma, la chiave si nasconde nel modo in cui l'emisfero cerebrale destro e quello sinistro vengono separati. Ovviamente è una convenzione di comodo, non è che il cervello sia davvero diviso in due parti. Se dovessi farne una rappresentazione grafica, disegnerei qualcosa del genere:
In ultima analisi, il fatto che i due bordi della spaccatura non combacino esattamente potrebbe significare che, una volta emessi, i dati non possono più tornare indietro. I Semiotici cercano però di decodificarli ugualmente, applicando un ponte provvisorio ai dati rubati a un computer. Analizzandone i valori numerici riproducono olograficamente le due linee a zigzag. A volte ci riescono, a volte no. Più noi Cibermatici affiniamo la nostra tecnologia, più loro affinano la controffensiva. Noi proteggiamo i nostri dati, loro li rubano. Il solito vecchio gioco di guardie e ladri, insomma.
Procuratisi illegalmente le informazioni, i Semiotici le immettono sul mercato nero, traendone profitti enormi. E quel che è peggio, le più importanti le tengono per sé, per usarle a proprio vantaggio.
La nostra organizzazione si chiama il Sistema, quella dei Semiotici la Fabbrica. In origine il Sistema era un gruppo privato, ma crescendo in importanza ha assunto una funzione quasi governativa. La sua struttura può essere paragonata a quella dell'agenzia statunitense Ma Bell, fornitrice di sistemi informatici. Noi Cibermatici siamo liberi professionisti, come i commercialisti e gli avvocati dobbiamo ottenere una licenza concessa dal governo, e possiamo accettare soltanto incarichi commissionati dal Sistema o dalla sua Agenzia Ufficiale. È una misura di sicurezza destinata a evitare un uso improprio della tecnologia da parte della Fabbrica, se non la rispettiamo veniamo penalizzati e perdiamo la licenza. Personalmente ho dei dubbi che si tratti di una misura adeguata. Perché i Cibermatici spogliati della loro qualifica spesso vengono assorbiti dalla Fabbrica e finiscono nel sommerso, diventando in definitiva dei Semiotici.
Riguardo alla struttura della Fabbrica, non ne so assolutamente nulla. All'inizio era un piccolo gruppo, ma in breve tempo ha conosciuto un'espansione straordinaria. C'è chi la chiama «mafia informatica», e in effetti assomiglia davvero alla mafia per il fatto di avere radici in diverse organizzazioni segrete. Però si occupa soltanto di informazioni. Le informazioni sono pulite, e diventano soldi. I Semiotici si introducono nei computer sui quali hanno messo gli occhi e ne rubano i dati.
Eseguii l'operazione di lavaggio, e intanto bevvi tutto il bricco di caffè. Lavoravo un'ora e mi riposavo trenta minuti, questa è la mia regola. Altrimenti la parte destra del cervello e la parte sinistra non si associano in maniera chiara, e i valori numerici che ne escono sono tutti sbagliati.
Durante la mezz'ora di riposo chiacchieravo di varie cose con il vecchio. Parlare, di qualunque argomento, è il metodo migliore per ripristinare le funzioni di un cervello esausto.
- A cosa si riferiscono questi dati? - chiesi a un certo punto.
- Ai risultati dei miei esperimenti, - rispose il vecchio. - I risultati di un anno di ricerche. Ci sono le conversioni numeriche delle proiezioni tridimensionali della capacità della cavità orale del cranio degli animali, insieme a una decodificazione in tre elementi della loro voce. Prima le ho detto che mi ci sono voluti trent'anni per percepire il suono caratteristico delle ossa, ricorda? Quando questi calcoli saranno terminati, saremo in grado di estrapolare quel suono. Non in pratica, è ovvio, in teoria.
- Così potremo manipolarlo artificialmente?
- Proprio così.
- E cosa succederà, una volta che lo manipoleremo artificialmente?
Il vecchio rimase qualche secondo in silenzio, leccandosi il labbro superiore con la punta della lingua.
- Tante belle cose, - disse dopo un po'. - Succederanno tante belle cose. Ora non gliene posso parlare, ma succederanno cose che lei non si immagina nemmeno.
- Una di queste è togliere il suono, vero?
Il vecchio rise con aria divertita. - Già, proprio così. Sintonizzandosi con il segnale caratteristico del cranio delle persone, si potrà diminuire o aumentare il suono al suo interno. Non eliminarlo del tutto perché ogni persona ha una forma cranica diversa, ma lo si potrà abbassare di molto. In parole povere, si tratta di sommare le oscillazioni del suono e del suo contrario ed emetterle contemporaneamente. Ma l'eliminazione del suono, tra i risultati dei miei esperimenti, è il meno nocivo.
Se quello era il meno nocivo, mi dissi, figurarsi il resto! Mi immaginai, con un senso di sgomento, la gente che aumentava o diminuiva il suono delle cose a proprio capriccio.
- È possibile sopprimere il suono sia in ciò che lo produce che in chi ascolta, - continuò il vecchio. - Cioè rimuovere il rumore dell'acqua dal nostro udito, come ho fatto poco fa, o eliminare il suono della nostra voce. Nel caso della voce, trattandosi di un fattore individuale la si può abolire al cento per cento.
- E ha intenzione di presentare al mondo le sue scoperte? - chiesi.
- Neanche per idea! - rispose lui scuotendo una mano. - Divulgare delle informazioni tanto interessanti? Non ci penso nemmeno! Sono cose che faccio solo per divertimento.
Di nuovo fece udire la sua strana risata. Risi anch'io.
- Rivelerò le mie scoperte soltanto a livello specialistico, - continuò. - Ma chi è che si interessa all'acustica? Gli scienziati sono una massa di cretini, non ci capiscono un'acca delle mie teorie. Non c'è nessuno, in tutto il mondo della scienza, che mi prenda sul serio.
- I Semiotici, però, non sono dei cretini. Anzi, sono dei geni nella decodificazione. Sono in grado di decifrare perfettamente la sua ricerca dalla A alla Zeta.
- Lo so, e ci sto attento. Per questo ho nascosto sia i dati sia il processo intero, ed enuncerò la teoria solo parzialmente. Così non dovrò temere che riescano a leggere i miei risultati. Me ne infischio, io, che il mondo della scienza non mi prenda sul serio! Fra cento anni la mia teoria sarà comprovata, e a me basta.
- Già...
- È per questo che voglio che lei effettui lavaggio e shuffling su tutto.
- Mi rendo conto.
Nell'ora seguente mi concentrai nell'operazione di lavaggio. Poi feci un'altra pausa.
- Posso farle una domanda? - chiesi al vecchio.
- Dica pure, - rispose lui.
- Riguardo alla giovane donna che mi ha accolto all'ingresso. Quella ragazza bella pienotta, con il tailleur rosa...
- È mia nipote, - disse il vecchio. - In gamba, la ragazza, straordinariamente in gamba! È giovane, ma mi è di valido aiuto nelle ricerche.
- Sì, ma quello che volevo domandarle... è muta dalla nascita, oppure le ha soppresso lei il suono della voce?
- Accidenti! - fece il vecchio battendosi una mano sulla fronte. - Me n'ero del tutto dimenticato! Le ho tolto il suono durante l'ultimo esperimento e poi l'ho lasciata così. Porca miseria, devo andare di corsa a rimetterglielo!
- Sì, sarà meglio, - dissi.